Pagare

Esiste un momento nella nostra giornata nel quale incontriamo lo sguardo di una persona che ci dà qualcosa e alla quale dobbiamo dare qualcosa in cambio per quel che riceviamo. Non è dunque un momento libero, di dono, ma un momento in cui chi dà sa di ricevere e sa esattamente quanto. E tuttavia, nonostante questa precisa relazione a tu per tu, in cui persino le mani a volte si sfiorano per un istante, le due persone si sentono libere, persino di sorridersi o meno. Vi è uno scambio di sguardi, in genere, accompagnato da uno scambio di monete o di banconote. E’ il momento dell’acquisto, anzi del pagamento di ciò che si è acquistato.

In realtà l’acquisto avviene prima del pagamento. E’ quasi una decisione interiore. Avviene nel momento in cui entriamo nel negozio e decidiamo che cosa prendere. In quel momento noi “acquisiamo” quell’oggetto e sentiamo che ci corrisponde, che corrisponde al nostro desiderio o, più semplicemente, al nostro bisogno: ci “serve”. Quando lo paghiamo è già nostro, in realtà. Se qualcuno ce lo “rubasse” di mano prima di averlo effettivamente pagato, l’impressione infatti sarebbe comunque quella di aver subito un furto.

Nel momento in cui paghiamo un oggetto è come se chiedessimo la ratifica ufficiale e pubblica di quella acquisizione. Allora contare gli spiccioli, aprire il portafogli, fare i conti sono tutti elementi di un piccolo rituale quotidiano. Il rituale sembra perdersi con l’uso della carta di credito, ma in realtà non è così. Si perde il gesto del contare, ma è sostituito dai codici del bancomat o dal firmare lo scontrino della carta di credito, che è gesto, se vogliamo, ancor più forte: è lasciare il proprio segno, è come stipulare e firmare un contratto alla presenza di un testimone, la persona che sta alla cassa.

Se ripensiamo al gesto di pagare qualcosa di piccolo in un negozio (il pane, un libro, una maglietta…) ritroviamo tanti intrecci di sguardi spensierati, di sorrisi soddisfatti, di curiosità per l’oggetto acquistato, cose tutte che si raccolgono alla cassa, e che si riassumono in genere in un “grazie! Buona giornata!”. Esiste in quel gesto una profondità inesplorata che mette in relazione oggetti, sentimenti e attese, fondendoli in piccoli gesti e brevi parole che rivelano molto della nostra personalità. Come le parole della poesia, che a volte sono una sorta di pedaggio per fare davvero nostre le esperienze che viviamo.

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  1. andrea monda ha detto:

    Non esagero se dico che questo è uno degli editoriali migliori, secondo me, apparsi su questo blog. Parto dal finale e sottoscrivo: la poesia è qualcosa che si paga. Con la vita, a volte. Mi fa riflettere questo fatto e non trovo una soluzione: da una parte la poesia, l’arte sembra essere il massimo della gratuità, è un dono, un’ispirazione, una “liberalità”. Dall’altra però c’è un lavoro, un lavorio, un logorio, una fatica. Il poeta, l’artista sono dei forzati, dei dannati (non nel senso che dei poeti maledetti che forse non esistono) che “scontano” il loro dono nella quotidianità della vita. Penso ovviamente a Ungaretti: la morte si sconta vivendo. E poi, forse non c’entra niente, mi viene in mente un verso di una canzone di Vecchioni che dice: “e invece no, la vita non si canta, ma si vive” dove mi colpisce l’incipit avversativo, come a dire: non è vero quello che si dice che l’arte allieta la vita, la riscatta, la salva. No, dice anche Tondelli: la letteratura non salva, mai. Spero di non essere stato tanto cupo, in realtà quello che ho scritto non sono certezze ma dubbi, qualcuno mi vuole aiutare a scioglierli? saluti estivi, dove ormai si paga anche il sole e l’ombra (e mi ricordo di Miracolo a Milano dove la gente paga per vedere il tramonto), ciao!
    andrea

  2. Lalla ha detto:

    Oggi sul mio autobus di ritorno,
    stavo in piedi, più di una ragazza si avvicinava a me:
    chi mi ha dato una botta, involontaria sicuramente, e mi ha fatto cadere la borsa; chi mi ha guardata come una stupida perchè per sbaglio avevo messo la mano dove si aprono le porte quando la porta me la stava per stritolare;
    chi ha cercato di farsi notare come… miglior vestita? proprio vicino a me…
    Io il biglietto l’avevo pagato
    Non ho occupato alcun posto
    Non ho dato fastidio a nessuno
    Forse ero vestita un po’ hippy?
    Un po’ poetica!
    E, secondo voi,
    Forse dovevo , PAGARE…?
    Un TAXIIIII?

  3. Maurizio C. ha detto:

    beh la soluzione è…
    che l’arte “è” parte della vita. A tenere separate delle sue cose, entrambe s’inaridiscono.

  4. tita ha detto:

    Non penso che alla letteratura si debba chiedere la salvezza che non può dare, ha ragione
    Tondelli, ma consapevolezza, sì, apertura, conoscenza di sé e degli altri, approfondimento, gusto, comprensione, gioia ……….

    Alla letteratura bisogna chiedere sicuramente la realizzazione di una possibilità, quella indicata da Antonio, di “fare nostre le esperienze che viviamo”.
    E’ forse poco perché si debba chiederle altro?

    Non condivido quello che dice Vecchioni, “e invece no, la vita non si canta ma si vive”.
    La vita si vive e si canta.
    Tanto più può cantarla chi la vive, tanto più profondamente può viverla chi la canta.

    Vita e canto, vita e poesia, non sono contrapposte.

    Dice Antonio che le parole della poesia a volte sono “il pedaggio per fare davvero nostre le esperienze che viviamo”: lo trovo tanto vero.
    Pedaggio, cioè fatica, impegno, da parte dello scrittore per trovare le parole adatte a dire e comunicare le esperienze che ha vissuto, e da parte del lettore per decifrarle e comprenderle, accoglierle e farle proprie: è questo il costo di una vita vissuta in maniera più piena.

    Sia il leggere che lo scrivere comportano una disciplina che interessa tutto intero l’essere umano, corpo, anima e spirito.
    Ma è una disciplina che ripaga e come, e quanto!

  5. Angela ha detto:

    La vita è qualcosa di nebuloso, confuso, indistinto, l’arte… è la sua scolorina.

  6. tita ha detto:

    Non riesco a vedere, cara Angela, la vita “come qualcosa di nebuloso, confuso, indistinto”, pur tra le tantissime cose che non capisco.

    La vita è quello che è, sono i miei occhi e orecchie, mente e cuore, che non sono attrezzati per “saper vedere”.

    E l’arte, lo diceva I. Bachman, (non so in quale dei suoi libri, riporto una citazione fatta da Stas) “dovrebbe portare a questo: far sì che ci si aprano gli occhi”.

  7. Angela ha detto:

    Mah, il fatto di ‘non saper vedere’ non esclude però che sia la vita – e non la mia incapacità a decriptarla – ad essere confusa; né voglio penalizzarla, questa vita, definendola nebulosa: convengo con te, la vita è quello che è.

    Io comunque non mi colpevolizzerei più di tanto: i miei occhi, per quanto cisposi, tento di tenerli ben aperti, altrimenti come farebbe l’arte – feritoia luminosa e chiarificatrice – ad agire su di me ?…

    Un abbraccio caro

  8. tita ha detto:

    Non per difendere un punto di vista, ma per chiarire un ragionamento che non è poi così lontano dal tuo.

    Quando dicevo sensi non a cogliere il vero volto del reale, non intendevo colpevolizzarmi, ma riconoscere un dato di fatto.

    Solo chi riconosce di essere orbo ricorre al collirio dell’arte o a qualche rimedio più radicale.

    Mi è giunto il tuo abbraccio come una ventata fresca: lo ricambio con l’affetto di sempre.

  9. tita ha detto:

    Aggiungo qualcosa che è stato tolto nell’invio del commento e che è necessario per capire:

    … sensi non “adeguati” a cogliere …

  10. Lalla ha detto:

    “Carta bianca per quanto riguarda l’opera, riflettori spenti su tutto il resto: da questa paradossale presunzione si sono formate le impotenze, i taciti accordi coi sitemi sociali vigenti, la perniciosa mitologia dell’individuo libero, senza doveri, il quale s’inebria nel dimenticare il prezzo del risarcimento che invece, come tutti, dovrà saldare.”
    p.75, “Campo del sangue” di Eraldo Affinati

  11. Ambra ha detto:

    La scrittura di Eraldo Affinati è fortemente legata all’esperienza umana intesa come occasione di incontro con se stessi e con l’altro, quotidiana e straordinaria, osservata tra le strade lungo le quali non si sente più fischiare e nel corso di tutti quegli spostamenti fisici che, se l’intelligenza vuole e il cuore lo concede, possono assomigliare a splendidi incroci magnetici».

    In questo suo essere figura paterna, il maestro vede l’intensità dello sguardo di quelli seduti in fondo all’aula e impara le ragioni del ritorno dai suoi figli, senza mai rinunciare a mettersi in gioco con i propri limiti e le proprie passioni, con “lo scandalo necessario” della maturità e la curiosità di un bambino.

  12. Eva ha detto:

    Credo invece che si osservi molto poco pur guardando molto, forse perché guardare è più facile, osservare implica andare più a fondo nella natura delle cose e delle persone. Osservare significa cogliere sfumature, percepire minuzie che, a primo impatto, non si riescono a vedere.
    Eppure i gesti, le parole, le espressioni, prendo l’esempio dell’editoriale,anche di un commesso o una commessa, dicono molto su chi ci sta di fronte.
    Parlo delle persone ma lo stesso può dirsi delle piante e degli animali.
    Ho incrociato molti sguardi, ho incontrato persone che guardavano e guardavano, spesso con indiscrezione ma tutto si fermava lì, in superficie.
    Si, credo siano veramente poche le persone che osservano, se non addirittura inesistenti.

  13. lalla ha detto:

    SCUSATE:
    VOLEVO AVVISARE CHE NON SI RIESCE A VEDERE L’IMMAGINE DELL’ULTIMO POST “REATO DI FELICITA'”

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