Alla ricerca dell’Atemkristall

Tra gli spazi bianchi della tesi – Quando scrivi capita che prima o poi becchi la bonaccia. All’inizio confuso e felice batti veloce sulla tastiera, vuoi riempire gli spazi bianchi. Sfuggire al silenzio della pagina vuota. Però poi devi affondare di più la lama, tentare di forzare la mano e guadagnare il tuo punto di vista.

Paul Celan e sua moglie GiseleProvi ad assorbire lo stile di “commentatori” famosi, capire dove loro hanno piazzato il cannocchiale per penetrare dentro la poesia di Celan. Ma a chi giova? La tesi, diciamolo, è la prima grande prova della vita. Almeno per chi crede che scrivere dia senso e spessore al pensiero. Che quest’atto tanto semplice è così potente da far impallidire stati e dittature. Che bastano sillabe storte e diritte intrecciate con passione per recuperare addirittura il senso di una vita. Recuperare perfino la dolce madre che i nazisti ti hanno strappato per poi spararle un colpo in testa perché inabile al lavoro. Lei, che insegnandoti a leggere, t’aveva aperto le porte del meraviglioso mondo della poesia.

La poesia di Celan l’ho trovata per caso. Dovevo fare una tesi sulle riflessioni “estetiche” di Heidegger. Ma il mio Relatore mi indirizza verso un parallelismo tra Bernhard e Celan. Assaggio Bernhard e lo rimando tra i libri da leggere in un prossimo futuro. Preferisco Celan, ci sono immagini che ti lasciano svacantato. E’ l’unica parola possibile. Spiazzano. Come la celeberrima Todesfuge che, a sentirla letta dalla voce dell’Autore, non può lasciarti intonso.
Ogni lettura di una poesia di Celan lascia mutati. Perché, se continui a leggere nell’unico modo possibile — pagina dopo pagina, poesia dopo poesia — sino a digerire tutte le 1300 e passa pagine del Meridiano (!) curato da Bevilacqua, alla fine come minimo sottoscrivi i giudizi entusiastici di George Steiner e di Paul Auster. Ti sembra di aver perso una vita a leggere SCUOLA DI POESIA sullo Specchio della Stampa. E’ una miniera di immagini, potresti perfino ricavarne almeno quattrocento meravigliosi sms d’amore e conquistare altrettante donne con le poesie di Papavero e Memoria. Continui a leggere e arrivato a Sprachgitter capisci che è vero che Celan non ha mai fatto letteratura. Quello che trovi sulla pagina è vita.
È impossibile separare le due componenti, ha scritto sino alla fine, sino alla scelta tragica del suicidio. Lo ha fatto per combattere contro quell’assordante silenzio delle sirene, per usare un’immagine di Kafka: Odisseo poteva resistere al canto, ma nessuno ha mai potuto schivare il silenzio delle sirene. Non ci sono rimedi o tappi di cera che tengano. Lo stesso silenzio che martoriava il Lenz di Büchner.
Contro il silenzio si può combattere, si può cantare, gridare. Si deve fare soprattutto contro chi vuole zittire la Storia.

Mi metto in gioco, lasciando da parte il plurale maiestatis e altri orpelli perché, se la lettura di Celan è un rischio, io voglio rischiare in prima linea. Devo farlo perché sono in una condizione favorevole: ho 22 anni, la stessa età che aveva Celan in quel tragico 1942 e perché m’immedesimo totalmente nel rapporto che un figlio costruisce con la madre.

La prima volta che ho letto ATEMKRISTALL, io la poesia l’ho vista.  Proprio davanti agli occhi mi si è presentata una scena completa e compiuta d’impareggiabile bellezza. L’ho ottenuta mischiando quello che mi porto dietro nella mia comprensione del mondo, la mia valigia di necessari pregiudizi, per dirla con Gadamer. C’era dentro Charlie Chaplin nella FEBBRE DELL’ORO che per rimediare una tazza di caffè simula un congelamento, ci ho messo pure qualche scena dalla COMPAGNIA DELL’ANELLO e ho chiuso il tutto dentro una di quelle bocce che vendono nei negozi di souvenir, quelle con la neve dentro che basta girare per veder nevicare sul Colosseo o sulla Torre Eiffel.
Ho visto L’io del ciclo – che nella mia visione aveva ovviamente la faccia di Celan – che camminava piegato in due da una tormenta di ghiaccio, lì in una terra desolata perso tra le nevi perenni. Camminava e i piedi affondavano sempre di più, arrancava esausto col peso di quella scelta-destino di scrivere in tedesco. Il vento gelido gli schiaffeggia la faccia, lui prova a restare in piedi ma cade a faccia in giù. Sta lì per un tempo che deve essergli sembrato quasi infinito. Lì, azzannato dal vento e dal nevischio. Lì, nell’apoteosi di tutti i deserti di ghiaccio e freddo.

Quando tutto sembra perduto, qualcuno si avvicina all’Io intorpidito, si china e gli offre un pò di neve, neve che prima ha riscaldato tra le mani per tirarne fuori qualche goccia d’acqua. E’ una figura indistinta, l’IO accecato dal riflesso del sole sulla neve non riesce a distinguerla, è una visione a contorni sfumati. Però il naso gelato sente comunque un odore che lo scaglia nella dimensione soffice dei ricordi. E in mezzo ai souvenir che ha accatastato lungo una vita, rivede la sua patria, rivede il gelso, sotto quello stesso gelso forse una ragazza bionda s’è presa la sua verginità.
Sta lì, si riprende lentamente e la misteriosa figura che l’ha salvato gli resta accanto. Come solo le mamme sanno fare. E qui dalla valigia delle mie visioni snocciola fuori un’indistinta figura di madre in cui s’addensano tutte le madri che ho incontrato: c’è un pizzico della madre santa di Aleksej Karamazov, il cappellino della madre di Forrest Gump e poi l’archetipo della madre-guida, Concezione Ferrauto, la mamma di Conversazione in Sicilia.
Perché l’IO del ciclo ATEMKRISTALL e l’IO di Conversazione in Sicilia hanno più di qualcosa in comune. Entrambi si trovano in uno stato terribile, la quiete della non speranza e ritornano all’origine. Una Sicilia che diventa terra del mito e la landa di ghiaccio. Ed entrambe le ricerche iniziano con qualcuno che offre cibo che attiva il recupero faticoso e incessante e inevitabile di un passato che si credeva sepolto. L’io del ciclo mastica quella neve e Silvestro l’aringa ma la sostanza non cambia, quel condividere cibo con le rispettive guide diventa la chiave per accedere a una dimensione nuova, altra. Lasciamo stare VIttorini e torniamo a Celan, l’io si scopre sempre più simile al poeta. Perché il poeta ha scritto l’ATEMKRISTALL nel 1962? Azzardiamo una risposta. Perché solo a 42 anni, dopo aver raddoppiato la sua età lontano dalla sua “patria” può tentare il recupero da una postazione ottimale. Non c’è più l’impellente bisogno di gridare al mondo “Sì, sono vivo! malgrado tutto sono vivo”. E poi in questi 20 anni Celan s’è sposato, è diventato due volte padre, ha provato il dolore di perdere il suo primogenito dopo solo 30 ore. Vedere una parte di se stesso così piccola spegnersi dopo neanche due giorni di vita. Ha trovato l’amore di Giselle e la Francia. E, fatto principale, sua madre aveva la stessa età quando gliela portarono via. E avere la stessa età illumina scie di senso che prima non si potevano neanche accarezzare. Forse da qui dipende pure la scelta di scivolare nella Senna prima di compiere 50 anni. Celan, forse, non voleva vivere una decina in più dell’amatissima madre – cancellata dalla vita a 47 anni.
Ma torniamo al ciclo. Inizia il fluire.

È uno scrosciare d’acqua: “fiumi verso nord” e “rapide di tristezza”. Acqua su cui naviga il relitto della memoria, qua m’immagino una galeone scheggiato come quello di “COME IN UNO SPECCHIO” di Bergman. Il poeta prosegue da lì il suo viaggio, schivando lastroni di ghiaccio e tronchi scheggiati. tronchi che sono 40 come le decine vissute dal poeta, e solo chi l’ha salvato dall’assideramento può accarezzare questi tronchi, lo fa navigando contro-corrente, come fanno i salmoni. In questo relitto il poeta è in preda a uno di quei mal di testa che manco una fornitura industriale di aulin potrebbe scacciare, è uno di quei mal di testa da pensieri fissi. E qui si capisce che il senso di colpa per la morte dei genitori accompagnerà l’io in questo viaggio. Ci sono altre navi, almeno una flotta di relitti che spiccano il volo. Come quei fantomatici galeoni fantasma che terrorizzavano i marinai. L’io poeta scorge l’equipaggio di quei relitti, è la ciurmaglia d’anticreature, il Mob, la feccia umana che nel 20 gennaio del tragico 1942 ha deciso di stilare il documento in cui si metteva nero su bianco la modalità d’esecuzione della soluzione finale. Ma l’io canta, può cantare insieme al Tu e questo canto va oltre gli uomini, oltre il Tempo. Scacciati i relitti del cielo, l’io assiste impotente allo sferragliare dei vagoni piombati che inghiottono i perseguitati e li conducono lontano, in una cava di pietra dove riceveranno un nuovo nome tatuato sulle braccia. Il tu è tra quelli ma si riesce a distinguere perché era già scritto che era destinata all’altra fonte, quella della memoria. E’ quella predestinazione che rende possibile il viaggio dell’IO.

Il pellegrinaggio nella dimensione della memoria continua, l’IO trova la forza di continuare la sua ricerca, affrancato da quel pasto di neve che gli ha ricordato l’estate della gioventù, si rimette sulla strada.
Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo, scriveva che “ognuno vale quanto ciò che ricerca“, è l’unico parametro su cui è possibile valutare il senso di una vita. L’IO lo sa, capisce che da questo viaggio uscirà cambiato per sempre. In ogni caso, qualunque sia la conclusione.
I ricordi si addensano, martellano in testa, chiedono il loro tributo d’attenzione, riaffiorano come iceberg lucidi nella testa. Appaiono case smantellate tegole dopo tegole, arrabbiature contro un certo sistema di valori religiosi. L’io va avanti, non vuole fermarsi, pure che il dolore è lancinante. E scava, scava tra la neve che si è addensata tra i suoi versi, gli occhi accecati rimpiazzati dalle dita quasi gelate. Una candela in bocca per far un pò di luce in quel ripostiglio in cui si sono accumulate quelle notti che mutarono l’IO e il Tu.
Tutto avviene nella testa dell’io, è chiaro. Ci muoviamo nello spazio del suo cranio rovesciato dall’insonnia, dentro la voce del fiotto dei ricordi. L’io ha trasformato la sua memoria in un tempio di ghiaccio, un diario di cristallo dove ritrovare quello che è stato perduto per sempre.
Il viaggio diventa anche recupero del tempo perduto e l’io continua perché né il freddo, né i colpi del mal di testa possono arginare la sua volontà di ritrovarsi.

Cammina, tenta di valicare l’ombra della mano del tu, da lì estrae una benedizione pietrificata, la accoglie e continua col vento che gli schiaffeggia la faccia, senza cercare riparo.
L’erba sparto arriva portata dal vento e con lei la sabbia, scivolata da quelle urne in cui il poeta aveva sigillato il suo dolore prima di dedicarsi a notti d’amore. Il vento gl’impedisce di vedere oltre il suo naso, come se il suo occhio fosse stato affettato da quella tempesta di sabbia e neve.
I ricordi avanzano, riguadagnano terreno. Forse è questa la funzione principale della scrittura: filtrare i ricordi. Sì, l’IO ha scritto e ha usato le pagine come uno scolapasta per i pensieri. Ha filtrato decidendo cosa portare con sé nella nuova soglia e cosa lasciarsi alle spalle. Ma quei chicchi di passato ora riesplodono, gli scoppiano in testa come pop-corn conditi col carbonchio.
L’IO ha una visione, come Giuseppe il sognatore della Bibbia. Vede il luogo natio, nel mese del suo compleanno, novembre. Una terra che la rimozione del ricordo ha fatto ammalare. La pannocchia, l’oro giallo, se l’è portato via la pestilenza e i vermi s’ingrassano strisciando in quel pezzo di cuore che è la patria perduta.
Il tu prende il filo, riallaccia un legame. Diventa il capocordata di questa spedizione della memoria e lega la corda ad una freccia. Freccia che scaglia lontano. Forse verso l’aria, sì, in quel cimitero azzurro che è quel pezzo di cielo dove s’involarono i 6 milioni di perseguitati. C’è spazio per tutti e non c’è bisogno di parole lì, la grande cicatrice nell’aria non rimargina. Il Tu ora accompagna l’IO nella sua ricerca, suona un corno come a richiamare qualcosa e a quel suono risponde un traghetto che li raggiunge arrancando. Salgono l’IO e il TU, forse il Tu ha cercato nel suo palazzo della memoria, l’ha costruito con neve come i castelli che i bambini di sette anni fanno girando secchielli di sabbia.
In una stanza c’era quella lettera arrivata dal lager, l’io la rilegge, la rilegge sino a straziarsi. E’ il biglietto da pagare a Caronte. La traversata dura sino al mattino, nei sedili scheggiati ci sono altri perseguitati, altri nessuno che forse stanno facendo la stessa ricerca.
Il mattino li trova, scendono dal traghetto, di nuovo sulla neve, il calcagno a ogni paso affonda, “scrive e incide” la neve con le sue orme. Seguiamo queste tracce.

Il sole scivola su l’IO e sul TU, filo dopo filo la luce intreccia un nuovo giorno su quella neve che va sporcandosi ad ogni passo. Forse il TU è ancora bagnato dal fiotto nero della fonte della Memoria. il Tu ricorda, ricorda il treno che sferragliando l’ha strappata all’Io in quel giugno del ’42, ma il Tu non si è arreso, ha cavalcato l’onda, l’ha fatto sino a riuscire fuori per respirare di nuovo, fuori da quel budello d’odio razziale.
Esce e si ritrova all’aperto, lì dove fermò il suo treno, in una cava di pietra che pare l’ingresso dell’inferno. L’io assiste a questa risalita. impotente. Tutto avviene nella dimensione dove non è lecito toccare nulla. L’io guarda il quadrante del suo clinometro, l’ha puntato verso le parole del TU e la lancetta segna il Nord del vero e la Chiarezza del sud. Continuano a camminare, manco fossero Virgilio e Dante a zonzo tra i diavoli dell’inferno. Scivolano verso un cratere. Il viaggio diventa quasi una discesa al centro della terra. Ci si troverebbero bene i personaggi di Verne. ma avviene qualcosa: una parola erutta, schizza via verso la luna, diventa parola lunare, parola che muove le maree. Parola che forma un nuovo cratere, a forma di cuore. Abbracciato da quella nuova conformazione l’io trova la forza di parlare. Per ora ha solo ascoltato, si è fatto orecchio per cogliere quelle parole vive, vere e vitali. Il cratere diventa una parentesi sulla pagina. E l’io dice: “Ti conosco”. Dirlo lo spiazza, sta per svenire trafitto dall’avvenuto riconoscimento o da quella freccia che il Tu aveva scagliato verso il cielo, lo stesso cielo dove già un tempo era rifiorita la rosa di nessuno. Il tu lo sostiene, lo abbraccia, lo sostiene come la Madonna sostenne il Gesù morente.
L’io reagisce, chiede: “Dove divampa un verbo che sia d’entrambi testimonianza?” é la domanda che il TU aspettava.
Avviene qualcosa di meraviglioso, il TU riacquista densità, il suo parlare diventa vento che spazza via ogni remora dell’io-poeta, scaccia via la nullesia, la poesia che s’è baloccata dando una patina di colore ai fatti vissuti, ammorbandoli in vuote chiacchiere. La parola agisce come acquaragia per ogni reticenza passata e presente.
Il vento turbinando apre un varco, è l’accesso che l’io aveva cercato con tanto ardore. Lo attraversa. Da solo, il TU gli ha mostrato la strada, l’ha condotto sino a lì ma ora sta al poeta calarsi in fondo alla neve.
Lì, nel cuore dei ghiacciai perenni, lì dove il tempo perduto si è nascosto attende il cristallo. L’io l’ha finalmente trovato. Ecco la teca di ghiaccio, il respiro fattosi cristallo, cristallo luminosissimo, voce condensata, testimonianza incontestabile. Lì, inglobata in quella piccola bara di ghiaccio, lì dove il tempo l’ha risparmiata.
C’è solo una cosa da fare, l’IO lo sa: inspirare, riempirsi i polmoni con la forza di quella voce vera e viva. La poesia diventa ora respiro, l’atto creativo coinciderà con l’ATEMWENDE, la svolta del respiro, quell’istante in cui il fiato-testimonianza espirato dalla madre sta per essere inspirato dal poeta che lo espirerà  a sua volta sotto forma di Vera Poesia.

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