Sempre su Big Fish
“A furia di raccontare storie, un uomo diventa una di quelle storie e diventa immortale”.
Questa è la battuta finale del film che ne riassume il senso profondo. Si tratta della stessa affermazione che una volta fece il premio Nobel Eli Wiesel: la gente diventa le storie che sente e le storie che racconta. L’ultimo film del geniale e poetico regista americano Tim Burton è una splendida occasione per affrontare (tra gli altri) due temi: il tema del racconto e della narrazione e il tema della paternità. Il primo parte da una riflessione sul fatto che l’uomo è “animale narrante”, è un essere che ama ascoltare e raccontare storie, che trova nelle storie la sua identità più profonda e autentica. Il secondo tema è strettamente collegato al primo: il primo e più importante auditorio che un uomo che narra possa avere è quello rappresentato dalla sua famiglia, dei suoi figli.
Una storia di storie
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Irving Wallace, racconta la vita di Edward Bloom, dalla nascita alla morte, partendo da quest’ultima. Subito dopo una breve introduzione, infatti, lo spettatore incontra Edward a letto, in punto di morte. Nel suo letto di agonia viene raggiunto dal figlio Will, accompagnato dalla moglie francese Josephine in dolce attesa.
I due, padre e figlio, non si parlano da alcuni anni e il motivo di questo litigio è la “invadenza” del padre che non perde nessuna occasione, nemmeno quella del matrimonio del figlio (è proprio questo episodio che segna la fine momentanea del rapporto), per parlare, parlare, parlare e, il che è peggio, parlare di sempre e solo di sé. Edward infatti racconta sempre la stessa storia, la storia della sua vita. Egli si racconta, passa la sua vita a fare questo e sembra non fare altro, in modo da creare una vita “al quadrato”: accanto alla vita reale c’è quella raccontata, la seconda diventa presto eco, cassa di risonanza e lente distorcente della prima. Particolare “aggravante”, soprattutto agli occhi del figlio: i singoli episodi di questa storia raccontata sono spesso “ricamati”, farciti cioè di dettagli sorprendenti ed “epici”, effetti mirabolanti e colpi di scena, diventando così ben presto “incredibili”. Will, da bambino, come tutti i bambini, amava ascoltare le meravigliose avventure del padre alle quali credeva senza alcuno sforzo; poi, crescendo, ha cominciato a sottoporle ad un vaglio critico e quindi a rifiutarle il che è equivalso a rifiutare il padre, visto l’identificazione tra la persona e l’azione del narrare. Il rapporto si spezza e Will, all’inizio del film, può dire alla moglie: “non mi riconoscevo in mio padre e credo che lui non si riconoscesse in me. Eravamo due estranei che si conoscono molto bene”.
Tornato al capezzale del padre morente Will ritrova il “solito vecchio” Edward, almeno apparentemente: un egocentrico che continua a raccontare le sue incredibili vicende biografiche.
Il film si muove come un intricato sistema di “scatole cinesi” che si svolge con la leggerezza a cui ci ha abituato il grande regista americano: i coloratissimi racconti e le scene della vita reale si intrecciano e rimandano continuamente gli uni alle altre con ironia e romanticismo fino a provocare un coinvolgimento emotivo dello spettatore che, se si abbandona al flusso del film senza voler troppo “capire”, non può, al suo finire, non commuoversi.
Il fatto che Will abbia ritrovato il padre come lo aveva lasciato, con la sua tenace costanza nel raccontare di sé, porta, all’inizio, ad un irrigidimento tra i due ma poi, grazie anche al buon rapporto che si instaura tra Edward e la nuora, il figlio cerca in qualche modo la strada di un riavvicinamento. La realtà è che Will sente di non aver mai conosciuto davvero Edward e vorrebbe cogliere quell’ultima occasione per “entrare nel mistero” del padre. “Non ho idea di chi tu sia” gli dice sinceramente addolorato, “non mi hai mai raccontato un solo fatto”. “Ma te ne ho raccontati a centinaia, non facevo altro che raccontare!” risponde Edward. “Io ti credevo” riprende il figlio, “poi mi sono sentito un idiota.” Nel riconoscere il proprio smacco Will definisce il padre come un “iceberg” di cui si conosce solo il 10 % che emerge in superficie. È interessante a questo punto la risposta, quasi irata, del padre con cui apparentemente si interrompe il tentativo di riavvicinamento tra i due: “Io sono sempre stato me stesso” dice il padre, “Se tu non riesci a vederlo, la colpa è tua”. Come a dire: mi hai sempre avuto davanti agli occhi e ancora mi chiedi di mostrarmi a te?
Anticipando le conclusioni di questo breve saggio, posso sottolineare qui la somiglianza di questo dialogo con quello tra l’apostolo Filippo e Gesù nel 14^ capitolo del vangelo di Giovanni in cui leggiamo: “Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?” (Gv 14,8-9). Come gli apostoli anche Will vuole “vedere il Padre” senza comprendere che, da sempre, ce l’aveva sotto gli occhi.
A questo punto Will rimane turbato. Nella scena successiva lo vediamo ripulire la piscina della casa paterna quando all’improvviso scorge tra le foglie che coprono l’acqua stagnante la sagoma di un enorme pesce gatto. È una illuminazione: quel grande pesce, big fish, dalle dimensione improbabili è il protagonista di tante storie narrate dal padre. A Will viene il dubbio: e se fossero tutte vere quelle storie? Will si mette allora sulle tracce della verità del padre; la seconda parte del film è la descrizione di questa affannosa ricerca, da parte del figlio, dell’identità del padre. Will comincia a scartabellare tra le vecchie carte e i caotici sgabuzzini di Edward, intervista tutte le persone (a partire dalla madre) che possono testimoniare, in un modo o in un altro, la veridicità dei racconti paterni. Scoprirà infine che c’era molta più verità di quanto all’inizio apparisse e, soprattutto, scoprirà la cosa più importante: cosa vuol dire essere padre, cosa vuol dire essere figlio.
La moglie, Josephine, sta per avere un figlio e proprio per questo Will vuole sentirsi dire dal padre la verità della sua storia, senza più menzogne. Capirà invece che non è importante la veridicità dei dettagli di quelle storie quanto invece la profondità del rapporto tra narratore e ascoltatore. Una sera a Will capita di origliare un dialogo tra la moglie e il padre: Edward chiede a Josephine se conosce un certo fatto (ovviamente della sua vita) e Josephine risponde positivamente. Eppure Edward glielo racconta di nuovo perché “Will chissà come te lo avrà raccontato”. Josephine rimane affascinata dal modo poetico, coinvolgente e romantico che Edward ha di raccontare quelle storie.
Alla fine del film Will avrà capito la lezione. Si troveranno insieme, da soli, padre e figlio, e a Edward sono rimasti pochi minuti. Quanto basta perché Will racconti al padre quello che sta per accadere, “creando” con il racconto, la “vera” fine della vita di Edward. E questo avviene appunto attraverso un racconto, fatto in pure stile “edwardiano”, che commuoverà entrambi. Lo spettatore non assiste al semplice decesso di un uomo su un letto di ospedale (anche perché questa “cronaca” del decesso non viene mostrata ma sostituita dalla morte “leggendaria” di Edward), ma è coinvolto nella storia che, insieme, padre e figlio, raccontano: un finale pieno di gioia e umanità. Ora che Will è diventato come il padre, un perfetto narratore di belle storie, Edward può morire felice.
Al funerale arriveranno tutti i personaggi protagonisti delle avventure da lui raccontate e li vediamo, mentre il film volge al termine, che si divertono a raccontare dell’amico scomparso, che però non è morto, perché “A furia di raccontare quelle storie, un uomo diventa una di quelle storie.. e diventa immortale”.
La parola, il racconto: la creazione.
Questa è la trama del film ridotta all’osso, senza cioè aver raccontato le singole trame delle infinite storie che vengono narrate da Edward (sono tutte molto belle e ricche di significati anche profondi, come nel caso della storia d’amore tra il protagonista e la moglie Sandra).
Si tratta di un film pieno di spunti per interessanti discussioni, ma in questa sede, che non è di mera critica cinematografica, è opportuno soffermarsi su due temi già evidenziati in apertura: il potere della narrazione e il rapporto padre-figlio.
L’uomo è, soprattutto all’inizio della sua vita, un essere “passivo”, nel senso che “riceve”: immagini, suoni, nutrimento, indumenti, istruzioni, ammonimenti, affetto…
Pian piano l’uomo poi si scopre capace di pensiero e di parola e scopre quindi di avere una capacità infinita di riformulare le cose che vede e apprende, e queste cose infinite, eterne che percepisce, quando lui stesso le racconta, diventano una sorta di creazione. C’è una parola in aramaico che suona ibra k’dibra che letteralmente vuol dire “io creo attraverso il mio parlare”, di là viene il nostro abracadabra. E in effetti con la parola, in un certo modo, diveniamo con-creatori, generiamo stati d’animo, sveliamo cose che prima non si vedono.
Il grande scrittore inglese Tolkien, autore de Il Signore degli Anelli, ha coniato il termine “sub-creazione” per indicare che l’uomo, creatura voluta da Dio a sua immagine e somiglianza, non può non fare ciò che fa il suo creatore: creare. Ovviamente la creazione umana (la generazione naturale, artistica, filosofica…) si situa ad un livello secondario rispetto alla creazione primaria, prerogativa di Dio, ad un livello di sub-creazione appunto.
Si racconta in quel movimento mistico ebraico dell’Europa orientale che è il chassidismo, che il fondatore Baal-Shemtov voleva salvare la vita di un ragazzo malato, fece allora fondere una candela di cera pura in un modo molto particolare: la portò in un bosco, la fissò a un albero, l’accese, quindi recitò una lunga formula. La luce rimase accesa tutta la notte e al mattino il ragazzo era guarito. Una generazione più tardi, davanti ad una situazione simile, un discepolo di questo rabbi si ricordò del fatto, però non sapeva in quale punto del bosco andare, non si ricordava più a quale albero era stata fissata la candela, e ben poco della formula usata, ma fece le stesse cose e anche questa volta la guarigione avvenne. Una generazione più tardi nessuno si ricordava come era la candela e quale era il contenuto della formula e perciò nessuno si sentiva di ripetere la cosa, però ricordavano la storia, uno la raccontò e anche questa terza volta la guarigione ci fu (cfr. Martin Buber, I racconti dei Hassidim, Ugo Guanda editore, Parma 1992, p.351).
Sin dalla notte dei tempi l’uomo ha amato raccontare e ascoltare storie. È un gesto che lo rende simile a Dio. Un gesto che equivale in qualche modo ad un riappropriarsi della propria identità, di dare un senso alla propria esistenza.
Big Fish ci ricorda questo: l’importanza per l’uomo delle “storie”, dei racconti.
E’ il senso nascosto nella citata affermazione del premio Nobel Eli Wiesel: la gente diventa le storie che sente e le storie che racconta. È evidente l’influsso, in quanto sopra detto, della cultura ebraica. Gli Ebrei più di ogni altro popolo sono il popolo del racconto, della memoria.
Grazie alla capacità “ricevente”, “passiva” di questo popolo, il mondo ha ricevuto quel dono immenso che è la Bibbia, quella storia di storie, quel racconto che contiene ed è la parola rivelata e creatrice di Dio.
Padre e figlio, Dio e l’uomo.
Non so se è nelle intenzioni del regista (o del romanziere), ma Big Fish è una storia che può aiutare a riflettere in maniera efficace sul rapporto tra padre e figlio e sul rapporto tra Dio e l’uomo.
Dio è il creatore dell’uomo, è suo padre, che però non lascia da soli i propri figli. Ad essi si rivela e “segno” di questa rivelazione è già la stessa (infinita) creazione oltre a quella meravigliosa storia che è raccontata nelle Sacre Scritture. Nella Bibbia è contenuta la storia della salvezza, la “storia”, intesa come “relazione” e relazione d’amore tra Dio e l’umanità. Questo meraviglioso libro di libri (Tà Biblia) può essere paragonato ad una autobiografia di Dio, un testo in cui, in qualche modo, Dio racconta se stesso. Questa rivelazione avviene mediante l’uso di strumenti umani, il linguaggio con tutte le sue forme, immagini, simboli.. che Dio usa con grande maestria, dimostrandosi narratore affascinante, al fine di farsi comprendere dall’uomo lasciandolo però nella sua libertà.
E’ lo stile usato anche dal Figlio, mandato dal Padre per farcelo conoscere e che, in obbedienza a Lui, non giudicherà l’uomo, né schiaccerà la sua libertà ma gli offrirà la sua proposta di vita e felicità. Sorprende infatti che, al contrario di tutte le altre Scritture Sacre, la Bibbia, ed in particolare il Vangelo, non contenga una dottrina esposta nei suoi precetti ma piuttosto una narrazione, il racconto di una storia. Il Corano ad esempio è (soprattutto) un insieme di insegnamenti e indicazioni. Ma il vangelo è innanzitutto la storia di una vicenda biografica di un uomo che, anziché esporre teorie filosofiche o dottrine morali, ha a sua volta, raccontato altre storie, sotto forma di parabole. Come è noto Gesù, raccontando le sue parabole, prende spunto dalla vita quotidiana, forse dalla propria o da quella dei suoi amici (quando parla per esempio del seminatore, della zizzania o dei vignaioli), e in questi racconti non è importante la veridicità storica dei dettagli, quanto il processo di illuminazione e di conversione che essi mettono in moto nell’ascoltatore trafitto dal messaggio profondo, celato dietro la “fabula” e portato all’attenzione del suo cuore dall’autorità e dal carisma del narratore. Il “celare” il suo messaggio nelle parabole, è un meccanismo che preserva intatta la libertà del suo ascoltatore, che permette la scelta verso il rifiuto e la chiusura o l’adesione piena e convinta della fede.
“Chi ha orecchi, intenda!”. “Non c’è peggio sordo di chi non vuol sentire”. L’atto di fede è l’atto umano più libero che esista, che richiede lo sforzo massimo della ragione e della volontà. Come dice Pascal: “In tutte le verità della fede c’è tanto di luce per rendere l’atto di fede razionale e vi è tanto di oscurità per renderlo meritorio alla libera volontà aiutata dalla grazia”.
Come le parabole di Gesù, così le storie che racconta Edward, sono, in qualche modo, “oscure” e si possono vedere, come ricorda l’Inno alla Carità di San Paolo, solo “in enigmate”, come in uno “specchio oscuro”. Da qui la crisi del figlio Will che, se da bambino (con quella semplicità che permette una fede schietta e libera), non frapponeva difficoltà, una volta cresciuto entra in crisi e rompe il rapporto col padre, forse per un malinteso senso di “verità” e di “razionalità”.
Will non riesce più a “vedere il padre”, per questo, come sopra è stato già ricordato, chiede che egli si mostri. È una domanda di fede ma che rivela la cecità di Will. È la cecità dell’uomo, sempre ricorrente nella storia di ogni singolo ma anche dell’umanità. In questo senso Big Fish, parlando del rapporto padre-figlio, realizza una grande metafora del rapporto tra Dio e l’uomo: l’uomo spezza la sua innocenza originaria, il suo rapporto confidente con Dio e si allontana da lui, proprio come il figlio della parabola del figliol prodigo. La sua fuga da Dio lo porta prima lontano ma poi, come mosso da una “nostalgia divina”, a ritornare e a comprendere, con nuovi occhi, la verità di quel rapporto spezzato. Con la sua “conversione”, con il ritorno al Padre, si realizza il disegno di Dio: la divinizzazione dell’uomo. È ciò che avviene nel finale del film di Tim Burton: il figlio Will “diventa” il padre, nel senso che, come il padre anche Will incomincia a raccontare una storia, e non è importante se sia più o meno “veridica”, essa è “vera” in quanto permette la riconciliazione tra padre e figlio e permette al padre di “vivere”, da protagonista, la sua morte, di diventare immortale.
La Bibbia, verità e meraviglia
Sempre nel vangelo di Giovanni (cap.5 vv.19-20) leggiamo queste parole di Gesù: “Io vi assicuro che il Figlio non può fare nulla da sé, ma solo ciò che vede fare dal Padre. Quello che fa il Padre, anche il Figlio lo fa egualmente. Il Padre infatti ama il Figlio e gli fa vedere tutto ciò che fa. Anzi, gli farà vedere anche opere più grandi di queste, e resterete meravigliati”.
Big Fish è un film meraviglioso, pieno di meraviglie che rendono la visione di questa storia qualcosa di emozionante, avvincente, commovente. Proprio come le parabole di Gesù che affascinavano, incuriosivano gli ascoltatori, la “fabula” che il regista ci presenta tocca il nostro cuore e permette di aprirci a riflessioni ulteriori, profonde, che toccano il mistero delle relazioni umane e di conseguenza, il senso intenso della vita. A commento del versetto di Giovanni appena citato, ha scritto lo scrittore inglese C.S. Lewis nelle sue Riflessioni cristiane:
“In questo passo (Gv 5,19) ci viene detto che il Figlio fa solo quello che vede fare dal Padre. Egli guarda ciò che fa il Padre e lo imita (omoios poiei) o lo copia. Il Padre, legato dall’amore verso il Figlio, gli illustra tutto ciò che fa. […] che abbiamo il diritto, se non il dovere, di evidenziare con molta attenzione le immagini terrene con cui Egli l’ha descritto, di vedere chiaramente l’immagine che ci ha fornito. È l’immagine di un ragazzo che apprende le cose della vita, osservando un uomo al lavoro. Penso che possiamo persino indovinare quale ricordo, dal punto di vista umano, fosse presente in quel momento. Sarebbe difficile non immaginare che ricordava la Sua infanzia, che ritornava col pensiero a quei giorni nella bottega del carpentiere, quando da ragazzo apprendeva il mestiere osservando San Giuseppe al lavoro. Preso così, questo passaggio non mi sembra in contrasto con ciò che ho appreso dal Credo, ma al contrario, arricchisce la mia concezione della filiazione divina […] Il dovere e la felicità di tutti gli altri esseri consiste nel loro essere imitazione, nel riflettere come uno specchio. Non vi è nulla di più lontano dallo spirito delle Scritture di quella terminologia che descrive il santo come un «genio della moralità» o un «genio della spiritualità», volendo far credere che la sua moralità e spiritualità è «creativa» e «originale». Se ho letto correttamente il Vangelo, esso non lascia spazio alla «creatività», anche se intesa in senso metaforico o attenuato. Tutto il nostro destino sembra essere diretto verso un’altra direzione, nel cercare di essere il meno possibile noi stessi, nell’acquisire una fragranza che non ci appartiene ma che prendiamo in prestito, nel diventare degli specchi lucidi la cui immagine riflessa è quella di un volto che non è il nostro. […] solo che il bene massimo per una creatura deve essere un bene creaturale, cioè imitativo e riflesso. In altre parole, come spiega molto bene sant’Agostino (De Civ. Dei 13, cap. 1), l’orgoglio non causa solamente la caduta ma è la caduta….”.
Ecco, come spero di aver dimostrato, un film dove apparentemente non si parla né di Dio, né tantomeno di Cristo, può rivelarsi un prezioso strumento per parlare di temi come il rapporto tra Creatore e creatura, tra parola e creazione, tra figliolanza e obbedienza, tra testo, fede e rivelazione. I nostri alunni si trovano spesso nella condizione di Will, di chi, magari in passato, da piccolo, aveva creduto al padre, ma che ora si sente “un idiota”. Inoltre essi vivono una grande difficoltà ad approcciare la Bibbia che appare loro una raccolta di antiche leggende e vecchie superstizioni. Spesso, ed è colpa anche di un approccio “scientista”, figlio di un piatto e sciatto positivismo, gli adolescenti si allontanano dalla Scrittura perché piena di fatti “non veri”, dove “veri” vuol dire essenzialmente fatti “sperimentabili”, come se i fatti veri fossero solo quelli “scientificamente provati”. Perdono così il contatto con un bacino infinito di grandi verità, verità eterne. Una bambina di elementari una volta scrisse in un compito a scuola questa acuta distinzione: “i fatti storici sono fatti veri; i fatti biblici sono fatti veri, sempre”.
Un film come Big Fish, con la forza della sue immagini divertenti e stupefacenti, permette allo spettatore di aprirsi ad un ragionamento che superi l’aridità di quell’approccio “scientista”, focalizzando l’attenzione sulla centralità del rapporto, della relazione affettiva che lega gli uomini e le generazioni. La verità dell’uomo non è nei dettagli biografici ma nella sua capacità di relazione, nella sua apertura all’amore, l’amore dato e ricevuto. “Al tramonto della vita”, dice San Giovanni della Croce, “saremo giudicati sull’amore”. E l’amore è, essenzialmente, dono e perdono. Edward Bloom, arrivato al tramonto della vita, può essere visto come simbolo di Dio Padre che, con amore ostinato (il suo tenace raccontarsi), continua costantemente a donarsi al figlio, all’umanità. Will, il figlio (l’uomo, ogni uomo), rimane come impreparato rispetto a questo dono sovrabbondante e lo rifiuta. Spesso ricevere un dono, un dono “moltiplicato, un per-dono (sembra suggerirci questa splendida metafora dell’essere padre e dell’essere figlio) è quasi più difficile di donarlo. L’essere figlio è la bellissima condizione a cui l’uomo è destinato e a cui spesso si ribella. Ma a questo siamo chiamati, come Will capirà nel finale della storia, e lo capirà con gioia piena, senza alcuna ombra e recriminazione, e nel momento in cui accetta di essere figlio, diventa padre. Nell’accogliere con obbedienza filiale l’amore di Dio, nell’ascoltare e seguire (“obbedienza”: ob-audire, ascoltare) la sua storia di salvezza, l’uomo viene inserito nella comunione del padre, scopre la sua dignità di figlio di Dio, viene infine divinizzato.
Questo articolo è apparso su (RSC la rivista dell’Ufficio Scuola del Vicariato di Roma). In risposta agli articoli di Antonio Spadaro e Paolo Pegoraro, lo ripubblico con grande piacere. Roma, 26 giugno 2005
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