Impegno: forse un nuovo fronte è oltre la Storia?

Non so da dove prenderlo, questo discorso qui. Il tema non è nuovo: letteratura e impegno. La mia idea è che ai fronti tradizionali dell’impegno in letteratura (la denuncia sociale, il romanzo-inchiesta, la testimonianza, la rappresentazione degli sconfitti, la politica in senso lato ecc) se ne sia aggiunto un altro: ritrovare i luoghi della speranza.

Il contesto a cui penso è l’occidente industrializzato contemporaneo. Anzi, piazziamoci un decennio fa, tanto per garantirci un salutare distacco e limitiamoci alla nostra Italia.
Siamo nel 1996, allora, in Italia. La verità: l’occidente industrializzato ha realizzato un sogno coltivato per secoli: il benessere diffuso, la liberazione dal bisogno, il quasi tutto per quasi tutti. Certo ci sono dei vincenti e dei perdenti ma, a volerla vedere materialisticamente, ci sono tanti vincenti e pochi perdenti. L’altezza media salita a ritmi che sanno di miracolo (sintomo di buona alimentazione), l’aspettativa di vita (siamo secondi al mondo, mi pare), la diffusione dei cellulari: le statistiche cantano chiaramente: larghe fasce della popolazione italiana vivono in condizioni di sostanziale benessere. Certo, sono rimaste le malattie, sono rimaste sacche di disagio, ma i grandi numeri non mentono: un italiano medio nel 1996 può aspettarsi di campare sino agli ottant’anni senza soffrire freddo, fame, eccetera.
A me questa situazione sembra uno straordinario laboratorio di analisi: l’uomo ha finalmente ottenuto dal mondo quasi tutto quello che poteva desiderare, si è preso quello che gli serviva e ne ha goduto. Sarà felice, allora.
Direi di no.
Quello che a me sembra sia successo è che gli italiani, pur avendo avuto quasi tutto, abbiano scoperto di non essere felici, non più di prima. Hanno viaggiato per il mondo, si sono riempiti la pancia di carne rossa, si sono spalmati la pelle di creme esfolianti. Hanno appoggiato il sedere su divani a quattro ruote, hanno liberato e rioccupato il proprio tempo in mille modi diversi. Hanno ingozzato i sensi e raschiato il fondo di quello che la materia aveva da dargli ma hanno scoperto che non bastava.
Gli italiani mi sembrano, e mi baso su una visione puramente empiriche di quello che mi vedo attorno, arruolabili a pieno titolo in quella che nell’ultima Urbi et Orbi Benedetto XVI ha fotografato come “umanità gaudente e disperata” da cui si leva una “invocazione straziante di aiuto”.
(È una visione borghese che lascia fuori fette importanti di umanità? Sì, ma riguarda milioni di esseri umani ed è della letteratura prodotta dai loro figli che sto parlando.)

Si dice: gli scrittori hanno perso il contatto con la realtà. Che, tranne eccezioni, non sono più in grado di incidere sulla storia. Che non riescono più ad immaginare un futuro. Che non incarnano una lotta per migliorare il mondo, che sparano a salve.
Cose così.
Io ho una teoria.
E se il deficit non fosse negli scrittori ma nelle cose stesse? Se avessimo toccato un fondo?
Se la colpa non fosse degli scrittori ma della materia, che ci ha dato tutto quello che aveva lasciandoci con la constatazione che tutto ciò che è solo materia non serva a nulla? Se fossimo giunti ad una “fine”in cui – finalmente o purtroppo – le uniche soluzioni immaginabili sono fughe verticali dalla dimensione storico-materiale dell’esistenza?

La mia idea è che non sono gli scrittori a non impegnarsi, ma che esista un nuovo fronte dell’impegno – legittimo quanto gli altri – un fronte che ancora non riusciamo a percepire, posto ai confini della materia: tra il tutto e il nulla, tra la vita e a morte, al confine di ciò che percepiamo con i cinque sensi.
Un impegno che si svolge nel ricordare che possono esistere luoghi della speranza ad un uomo che si affanna a cercarla nell’immondizia laccata e profumata dei prodotti di consumo di cui si circonda, nella cronaca che non vive più di un giorno, in una storia che dura non più di una vita.
Impegno è superare la percezione documentaria dei fatti, è slabbrare la realtà per aprire delle crepe e vedere cosa c’è dietro. Impegno è continuare a sbattere contro muri per superare i confini del mondo. Impegno è sciogliersi e solidificarsi e sciogliersi ancora, per vedere di che pasta siamo fatti. Impegno è non arrendersi ai sensi, perché i sensi hanno perso.

Impegno è investire l’universo con tutta la potenza della propria intelligenza/cultura/sensibilità in una inesauribile ricerca della possibilità di una felicità ulteriore.
La letteratura deve re-inventare la parola “speranza”.
Perché se non ho speranza allora il Vesuvio può esplodere adesso e non piangerò una lacrima.

Non ho detto niente di nuovo? È augurabile.

Qualche esemplificazione.
1. Le ultime straordinarie pagine di “Una questione privata”, di Beppe Fenoglio.
Milton, il protagonista, torna alla villa in cui la sua “questione perivata” è cominciata. È reduce da una “investigazione” che non ha portato a nulla. Nulla è cambiato nel mondo di Milton nelle cento pagine che si è lasciato alle spalle: lui non è cambiato, non ha salvato il suo amico, non ha acquisito una sola informazione sulla relazione tra l’amico/rivale Giorgio e la sua amata.
Alla fine del libro si torna esattamente al punto di partenza, la vita non ha prodotto nulla, la storia non ha influenzato e non è stata influenzata dagli sforzi di Milton. Tutto è stato inutile. Ed eccola qui la fuga: una corsa disperata tra l’eternità e il mondo che, ai miei occhi, rappresenta la metafora dell’impegno che attende la letteratura nei prossimi decenni. Uno slancio che cerca di forzare le categorie della Storia per ridare vita una speranza perduta. Una corsa che salta via dalle pagine, che fa schizzare il cuore via del petto, che scioglie la materia, che trasfigura la morte nella rappresentazione di un “Oltre”.

homunculus_8_abandonad_toda_esperanza2. “Homunculus”, manga di Hideo Yamamoto (editore Panini)
Questo manga, dal disegno immaturo, racconta l’incontro tra un senzatetto, Nakoshi Susumu, e Ito Manabu, un giovane laureando in medicina. Ito sta cercando una cavia per praticare un esperimento di trapanazione del cranio finalizzato ad attivare sensi che un normale essere umano dovrebbe avere sopiti, consentendogli una relazione con il mondo non filtrata dai sensi. Dopo l’operazione Nakoshi diventa capace di vedere gli homunculus, quelli che potrebbero essere le rappresentazioni fisiche dei pensieri e dei sentimenti più nascosti di una persona: la persona che si adatta al mondo pur di non avere conflitti viene vista come un essere di sabbia, mentre l’uomo che si mostra forte per superare un dramma accadutogli da piccolo è visto come un bambino chiuso in un robot.
La storia diventa uno studio sperimentale della tenuta della natura umana rispetto alle categorie del reale a cui siamo abituati.
Ebbene: cos’altro potrebbe raccontare un autore di un paese con un reddito procapite di 27.000 $ l’anno che voglia parlare del vero cuore del suo paese, se non la ricerca di nuove forme delle esistenza con cui sostituire i gusci vuoti di quella che si sta lasciando alla spalle. Come potrebbe esprimersi meglio il suo impegno se non attraverso la messa in scena di giovani che si trapanano il cranio alla ricerca di nuovi sensi? Forse denunciando la Yakuza?

E cosa dovrebbe fare una persona che voglia parlare del cuore dell’Italia degli anni ’90 se non raccontare una “umanità disperata e gaudente” che, consumati tutti i territori esplorabili con i cinque sensi, deve riscoprire altri?

Leggi i 7 commenti a questo articolo
  1. saverio simonelli ha detto:

    Grandissimo post. Merita un approfondimento ulteriore; ma l’entusiasmo scarturisce dal fatto che un ragionamento così splendidamente inattuale e indirizzato al nucleo vero del problema non si trova altrove. Il nuovo fronte sta oltre non perché cosa residuale ma in quanto unica cosa che veramente conquista intriga e inquieta il nostro cuore. E’ in fondo la poetica del mio amato Tunstroem. A prop. leggetevi il ladro della Bibbia, ma a picxcole dosi. troppo fa male, come diceva Eliot “…il genere umano ecc.ecc. “

  2. babi ha detto:

    Homunculus parte benissimo, ma dopo un po’ di numeri si scioglie. Cedevo di esserne l’unica lettrice italiana!

  3. Antonio ha detto:

    ………D’improvviso un boato frantumò il sogno dell’ ignaro dormiente. Si alzò di scatto, accese la luce, guardò, l’orologio, era mezzanotte. Annotò i tratti salienti del suo sogno e capì che egli poteva essere Adamo, il vecchio Lew o la giovane Ilaria: tutti facenti parti della propria interiorità, del proprio io. La sua, la nostra esistenza, è quanto da noi scaturisce; ognuno, ogni pensiero qualsiasi immaginazione che ci perviene sono “noi stessi”; visioni svincolati dallo spazio, dal tempo e da una veduta razionale dell’universo, che non collimerà mai con l’idea che noi abbiamo di verità.
    Alla prossima
    Antonio

  4. Maurizio ha detto:

    cos’è? un brano di Tunstroem? (devo recuperare “il ladro della Bibbia” mi sa…) aggiungo un brano da “caro vecchio neon” (D.F. Wallace): “[…] il significato dell’espressione la mia vita non si avvicina neanche lontanamente a quello che crediamo di dire quando diciamo . Le parole e il tempo cronologico creano tutti questi equivoci assoluti su quello che succede per davvero a livello elementare. Eppure al tempo stesso la lingua è tutto ciò che abbiamo per cercare di capirlo e per cercare di instaurare qualcosa di più vasto o più significativo e vero con gli altri, il che è un altro paradosso.”

  5. Paola P. ha detto:

    Un solido contributo investigativo-speculativo. Un’impostazione analitica acuta e mai greve, nonostante l’entità del suo argomentare. Sagace chiave di lettura del mondo. Sagaci gli strumenti interpretativi lanciati come provocazioni dialettiche. “Impegno è sciogliersi e solidificarsi e sciogliersi ancora, per vedere di che pasta siamo fatti. Impegno è non arrendersi ai sensi, perché i sensi hanno perso”. “Impegno è vedere di che pasta siamo fatti”, sembra pleonastico, ma invece è un richiamo necessario contro la presunzione umana ormai patetica di sapere tutto. Di noi, degli altri, del mondo. Quando invece ci ritroviamo labili, anche se col bottino pieno di strumenti nuovi e più sofisticati, di mille cose, mille esperienze nuove, mille scoperte, occasioni ed opportunità in più. Mi sa che stiamo sempre più dimenticando ciò che davvero sazierebbe la nostra fame. Abbiamo dimenticato il pane, e la sostanza. Perciò, ci sentiamo comunque a digiuno.

  6. giuse alemanno ha detto:

    L’unica speranza è riposta nell’intelligenza e nella misura degli esseri umani.
    La conseguenza resa al delirio del consumismo/conformismo sono stati i bagni di mare al 20 di gennaio, primo segno generalizzato e tangibile di un ambiente esausto, rifiutante, astioso, rivoluzionario.
    Trovo gli ‘intellettuali’insopportabili quando si chiudono nel loro mondo sapiente ed alla finestra attendono gli eventi, sfuggendo alla ‘terribile’ eventualità che i metodi fangosi della politica possano inzaccherarne le candide vesti.
    E’ finita l’epoca del temporeggiare ipocrita.
    Ora è il tempo di rimboccarsi le maniche e di affrontare le paludi.
    Con la forza che la cultura, e la libertà che da essa consegue, fornisce.
    Perchè gli Uomini Di Cultura siano risorsa, non peso o, peggio, predatori.
    Senza paura.

    non so quanto c’entri tutto questo maurì, ma le tue parole hanno causato questa piccola riflessione.
    con sincero affetto
    giuse

  7. serafina bruschi ha detto:

    Mi piace l’idea di re-inventare la parola speranza.
    Penso al post di A. Spadaro dove i libri di narrativa sono definiti “oggetti piccoli, eppure pieni di mondo”.
    Penso all’interrogativo espresso nel titolo del suo libro “A cosa serve la letteratura?”.
    E penso al nuovo fronte dell’impegno proposto da Maurizio Cotrona, che si svolge nel ricordare che possono esistere luoghi della speranza.

    Spesso mi sono chiesta che tipo di consapevolezza abbia un autore mentre scrive.
    Recentemente ho partecipato ad un laboratorio di scrittura creativa, al di la delle mie aspettative, non era improntato principalmente su contenuti nozionistici, l’accento era posto invece sull’esperienza comune.
    Mi sono venute in mente allora le parole di Nietzsche “..Nessuno può trarre dalle cose, libri compresi, altro che quello che già sa. Chi non ha accesso per esperienza a certe cose, non ha neppure orecchie per udirle.”
    Allora forse, in un mondo dove non esistono più ideologie da abbracciare, è bene non sottovalutare l’importanza di uscire dalla solitudine per confrontarsi con altri e ricercare occasioni dove sperimentare la realtà con nuovi occhi e nuove orecchie.
    Perchè io non credo che i sensi abbiano perso, io credo invece che essi vadano rieducati per ampliarne la gamma di ricezione, modulati in modo che non vadano perse le infinite sfumature della percettibilità.
    Impegno allora può essere, come dice Natoli “porci in ascolto del mondo invece di afferarlo in modo irriflesso”.

    Io credo che per ricordare che possono esistere luoghi della speranza, è necessario prima individuarli e farne esperienza.

    Serafina

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