L’Uomo e l’Eco di Yeats: il venerdì santo della parola poetica

Giunto al termine della sua vita, nella prima metà degli anni ’30 del secolo scorso il grande poeta irlandese William Butler Yeats, rivisitando la propria esistenza e analizzando con la freddezza e la lucidità del poeta il contributo delle proprie idee alla vita politica e culturale del suo Paese, – nonché il senso del proprio essere e del proprio operare al cospetto del giudizio della storia e di un Essere Superiore cui prestava una fede intermittente, personalissima, densa di esoterismo ma anche di smaglianti intuizioni – arrivava ad una conclusione non analitica, ma affidata alla suggestione e alle parole dei versi, nella poesia “L’uomo e L’eco” dove immagina un pellegrino che invece di recarsi in un luogo sacro, ad interrogare qualche oracolo di una qualsivoglia divinità, si reca sulle pendici del Knocknarea, calva e bizzarra montagna che si erge tra Sligo, luogo d’origine del poeta, e l’Oceano.

Qui però il viandante invece di trovare un’ interpretazione confortante alle sue parole, percepisce semplicemente la risposta dell’eco che rimanda la sua voce e le sue riflessioni.
In questa solitudine raddoppiata dall’impotenza di un’evocazione acustica sterile e autoreferenziale, Yeats ci dà in realtà la chiave di un’esperienza poetica del venerdì e del Sabato Santo: una voce che al posto del sepolcro conosce la morte cinica e avvilente della ripetizione di sé: il proprio scacco, la propria condanna a non poter designare nulla di esterno a se stessa e di reale…
Eppure anche in questa tenebra del pensiero c’è una salvezza, che, come nella fede cristiana, giunge dalla condivisione di un dolore naturale, quello di un povero e anonimo coniglio “ucciso” ciecamente da una consuetudine naturale: il predatore che lo avvinghia a se e lo trascina in un volo che non prelude ad alcun riscatto. Ecco l’ultima strofa della poesia:

O voce di roccia,
noi gioiremo forse in quella grande notte?
Cosa sappiamo, se non che faccia a faccia
Ci affrontiamo in questo stesso luogo?
Ma taci, perché ho perduto il tema,
la sua gioia, o notte, non sembra che un sogno;
lassù una civetta o un falco si sono avventati,
precipitando dal cielo o dalla roccia,
un coniglio avvinghiato getta grida.
E le sue grida mi turbano il pensiero.

Nel soffrire insieme a questa morte, scrive l’altro grandissimo genio della poesia irlandese Seamus Heaney (Nobel 1995), Yeats giunge comunque a prefuigurare se non una redenzione, quantomeno il dato di fatto che il cuore dell’uomo testimonia di per sé, anche nella tenebra della disperazione, la ricerca di un senso che lo trascende.

L’uomo e l’eco è una poesia in cui la coscienza umana si confronta con la scogliera del mistero, i limiti della stessa esistenza umana. Il poeta è pienamente in possesso assieme del suo impulso creativo e della sua conoscenza limitante(…) perché ammette che il fallimento e la sofferenza persistono sempre come impedimenti anche alla più luminosa vicenda umana“.
Qui la domanda, che è quella della vigilia pasquale, è il tentativo di “cercare un senso dall’esistenza storica in un mondo naturale sanguinario e in un universo indifferente”.
Da un lato, dice Yeats c’è il progetto di luce che si incarna “nel pensiero umano”, dall’altra c’è però “la realtà del dolore e della morte rappresentate dal grido del coniglio”.
Ciò che però raccoglie i due termini in unità “è una coscienza che “persiste nel tentativo di dare un senso al mondo” in cui, comunque “sofferenza e violenza sono destinati ad avere la meglio sulle virtù e la generosità del cuore“.
La poesia però nel suo complesso – anche per il fatto di esserci e di vivere come creazione umana – non solo dice che lo spirito “deve” sopportare; “mostra anche come esso deve sopportare, opponendo le risorse umane contro ciò che recalcitra ed è inumano; e così conclude Heaney, si può dire di Yeats quello che il teologo Karl Barth disse una volta a proposito della musica di Mozart, e cioè che si tratta “di un sì prezioso, perché ha peso e significato perché contiene e supera un no.”
“O voce di roccia, noi gioiremo forse in quella grande notte?”. E il genio di Yeats qui ha lasciato la più grande traccia di una qualche fede in un destino di gioia, il fatto cioè che alla parola “Voice” che può essere semplicemente “voce” condannata a ripetersi, per qualche strana coinicdenza riesca la rima con “rejoice” che appunto in inglese vuol dire “gioire”, quasi volesse suggerirci che anche in una semplice eco, come è la rima di una poesia, può nascondersi una trasfigurazione della parola, una partecipazione alla gioia cui siamo destinati.
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  1. Andrea Monda ha detto:

    Ricca, molto ricca questa riflessione irlandese-simonelliana. Un flash e una domanda, al volo; la domanda:
    dove hai pescato quella grande frase di Barth su Mozart?
    Il flash: la tua riflessione sull’eco e il venerdì santo mi ha fatto pensare alle ultime parole di Cristo in croce,
    “Mio Dio, mio Dio, perchè mi hai abbandonato?”… c’è un’eco anche qui.
    Grazie Saverio, ciao!
    andrea

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