La poesia di Rowan Williams: la concretezza e il divino
La concretezza è una delle basi forti della poetica di Rowan Williams* (La dodicesima notte, Milano, Ancora, 2008), nel senso che lo sguardo rivolto alla materia della vita è un modo di discernere il mistero nell’infinita trama del finito, del concreto. Da questa concretezza sprizza il pensiero e l’intuizione, spesso del tutto lasciata al lettore che percepisce l’effetto di un’ispirazione così frastagliata, che dispone il testo a letture infinite e continue, ricorsive. Qual è il modello di questa concretezza? Cosa ispira visivamente la poesia di Williams?
Certamente il suo paesaggio gallese di origine. È questo il «correlativo oggettivo», per dirla con Eliot – al quale Williams comunque si inspira – dei suoi versi. La sua è un lingua ruvida (rough) come la brughiera, dura (hard) come la pietra asciutta (drystone), testarda (stubborn), tracimante (swelling) come i ruscelli (streams). I versi di Williams sono aspri come lo è la sua visione della vita intesa spesso come una lotta, un confronto serrato, difficile, senza facili adattamenti. La terra screpolata non è solamente una metafora. Leggiamo alcune poesie molto crude, che possono persino lasciare sgomento il lettore. Ad esempio le due poesie sulla ex Jugoslavia. Sogno descrive in realtà un incubo, nutrito di un immaginario biblico che fa ricordare da una parte la piaga delle cavallette e dall’altra la crocifissione: «Pietra e ferro / mi si stringono intorno. / Davanti a me, una nube di vespe, / vive e morte, qualcuna appiccicata nella / densa e bianchiccia trama incollata lungo il percorso. Sento / le mie gambe rallentare; so che non c’è angolo / da girare a sinistra. / Sento la prima puntura sulla mano destra / tra polso e pollice. / So che morirò».
La poesia Cortine per la Bosnia mostra la violenza in maniera cruda e con un linguaggio diretto ed esplicito, senza risparmiare neanche le immagini degli stupri e della «chirurgia di violentatori» accompagnata dalle immagini fredde del vetro e del ferro. La pioggia cade senza tregua nella poesia dell’Arcivescovo di Canterbury, cade su questo mondo di pietra. Essa intride (soaks) la terra, perennemente bagnata (wet, damp, sweaty, moist) e vacillante (stagger, lumber), che «corre come l’acqua (runs like water)». L’universo williamsiano è fatto di acqua fluente e terra arida. La pioggia, condizione di grazia fluviale, è quasi indefinibile e dunque richiede l’uso di un accumulo di definizioni: «è straripante, irresistibile, stravagante e ostinata, / non sarà mai invitata, ad andare o venire, / come le parole, o la grazia. / […] essa cade a lavare le ferite; argini di contenimento» (Acque di Cornovaglia). Vi è un continuo opporsi nella sua poesia tra hard, duro, indurito, e soft, morido, ammorbidito. Lo abbiamo visto prima tra olio e pietra, ad esempio. La vita vince solo se spacca la pietra arida: l’aggettivo dry, secco, è ricorrente molto spesso nelle poesie di Williams (17 volte nella presente raccolta). La spaccatura, il solco, la fessura (cleft, altra parola chiave) che si apre nel terreno martoriato, nei tronchi degli alberi, nella pelle, diviene lo spazio disponibile, la condizione, per l’avvento dell’inaspettato.
Il divino irrompe violentemente, «come sangue, come rottura (like blood, like breaking)», squassa (burst) e fa ribollire (to boil) un paesaggio raggrinzito (shrink) e congelato (frozen, gelid), destinato altrimenti a marcire e soffocare (to chocke, to smother, to muffle). Il prossimo bagliore (glow) di sole è certo; «la mica brilla nella roccia» (Le cascate Murchison); nonostante il freddo «sotto la brina, / devono esserci morbidi tizzoni che mandano su luce / da fuochi che la nebbia notturna ha attutito ma non ucciso» (Alba dell’inverno: per Gillian Rose, 9 dicembre 1955).
È questa la fede coriacea del poeta gallese.
Advent Calendar
Verrà come la caduta dell’ultima foglia.
Una notte quando il vento di novembre
ha flagellato gli alberi all’osso, e la terra
si sveglia asfissiando dalla muffa,
dal dispiegarsi del morbido sudario.
Verrà come il gelo.
Una mattina quando la terra rattrappita
si apre sulla nebbia, per trovarsi
bloccata nella rete
di una bellezza sconosciuta, affilata.
Verrà come il buio.
Una sera quando il sole rosso fiammante
di dicembre tira su il lenzuolo
e copre il suo occhio con una moneta per mietere
i campi di cielo nevicati di stelle.
Verrà, verrà,
verrà come pianto nella notte,
come sangue, come rottura,
non appena la terra si dibatterà per liberarlo.
Egli verrà come bambino.
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* Rowan Williams è nato il 14 giugno 1950 a Swansea, nel Galles. Dopo gli anni di studio, di ricerca e di attività pastorale, è stato ordinato prete nel 1978. Dal 1977 al 1986 ha studiato e insegnato a Cambridge e, dal 1986 al 1992, ha insegnato Teologia ad Oxford. Nel 1989 aveva discusso il suo Dottorato in Teologia dedicato a Vladimir Lossky, teologo della Chiesa Ortodossa Russa. Nel 1981 si è sposato con la moglie Jane Paul, da cui ha avuto due figli. Nel 1992 è stato consacrato vescovo di Monmouth e, nel 2000, Arcivescovo del Galles. Nel luglio 2002 è stato eletto Arcivescovo di Canterbury, nella cui sede si è insediato il 27 febbraio 2003.
Oggi il libraio mi ha procurato “La dodicesima notte”, ora inizierò a leggere sull’onda dell’interesse che mi ha procurato questa presentazione. Ne riparleremo.