Alcune volte il Cinema fa commuovere
di Giuseppe Di Vetta (classe 1^, sezione C, Liceo Classico Pilo Albertelli di Roma)
Alcune volte il Cinema fa commuovere, senza pretendere di raccontare una storia scontatamente sentimentalista o storicamente “drammatica”, in cui i protagonisti sono lì per far piangere, vestendo i panni tristi e a volte anche melensi – soprattutto quando il film non è d’autore – di uomini e donne costretti dagli eventi della vita o della storia a dover soffrire. Quando, infatti, un Film “fa commuovere”, senza appunto averne l’indispensabile pretesa per il successo nei botteghini, il pubblico rimane incerto, un po’ attonito, tacendo il più delle volte la tristezza di una lacrima, perché la commozione è così pungente e interiore che esibirla è come una vergogna. Le lacrime rimangono negli occhi, si assaporano nella riflessione riguardo a ciò che si è visto, e soprattutto si suggellano nella mente come la fotografia di un istante in cui ci si è sentiti pervasi da una “sensibilità nuova”. I grandi registi, infatti, non cercano prima di tutto il successo, né tanto meno le lacrime da “suggestione collettiva” più che individuale: questi “signori del cinema e dell’immagine”, come lo stesso Louis Malle o Steven Spielberg, fanno poesia, accettando coraggiosamente di raccontare storie semplici, interpretate il più delle volte da bambini, il simbolo della purezza, dell’innocenza e dell’inconsapevolezza. Questi tre elementi, legati assieme dal lirismo di registri del calibro di Spielberg, sono alla base di un percorso cinematografico sempre nuovo, anche se le immagini possono apparire scontate, già viste, forse a volte anche banali. Il collegio dei “carmes” del piccolo paesino francese di “Arrivederci Ragazzi”, o il cappottino rosso in cui è avvolta la bambina di “Schinder’s list”, sono proprio gli esempi più tangibili ed entusiasmanti della semplicità poetica del racconto cinematografico d’autore, che intende parlare alle anime, ispirare una riflessione, o forse solo raccontare una storia che si ricordi per la sua banalità struggente, ma rimanga almeno impressa nella memoria. La trama di “Arrivederci Ragazzi” non è di certo avvincente, perché è priva di quegli effetti del “cinema moderno”: il fumo del camino, il freddo che stuzzica i bambini nei dormitori, le lenzuola bianche, sono gli unici effetti di questo racconto, privo anche di un vero e proprio colpo di scena. Tutto procede nella dolcezza addormentata di un gennaio da letargo, mentre gli alunni, candidi nella loro pubertà, sereni nella loro beata inconsapevolezza, seguono le lezioni di Latino e Greco: potrebbe sembrare un racconto fiabesco e “fuori dal tempo”, se non fosse per quelle non troppo inquietanti presenze tedesche che si aggirano per il Paese, che sempre più, come i “lupi della foresta” del piccolo Bonnè, si avvicinano a quel “mondo obliato” del piccolo collegio di cappuccini, presieduto da un religioso severo, che se non fosse per quella sua – anche se scarsa – attitudine alle tecnologie, potrebbe apparire, traslato nel tempo, come un monaco de “Il Nome della Rosa”. Tutto è in letargo nei dormitori, nel refettorio, nel cortile del collegio, ed il mondo intorno affronta il suo 1944: la Francia occupata dalle “autorità epuranti” che la libereranno dallo “straniero”, l’Europa al collasso sotto l’ombra pesante della II Guerra Mondiale. Ma Louis Malle non è uno storico, né il suo film vuole essere un documentario: lui racconta la sua storia, e lo fa attraverso gli occhi di Julièn, un ragazzino di forse 13-14 anni; ma non è questo l’importante: è l’espressione, la fotografia del volto, l’intensità della sua ingenua curiosità a renderlo protagonista, ma allo stesso modo “umano”, un uomo bambino. La fanciullezza di Julièn, che è così liricamente descritta nel corso della trama dal sapiente regista, ha lo stesso sapore dolce e tiepido del “fanciullino” di Pascoli, che rivive ne “L’Aquilone”:”Sono le voci della camerata mia: le conosco tutte all’improvviso, una dolce, una acuta, una velata… A uno a uno tutti vi ravviso, o miei compagni […]“. Così Giovanni Pascoli racconta la sua infanzia, e allo stesso modo, con quelle giuste metafore e quella semplicità profonda, Louis Malle affronta un percorso di rielaborazione dei propri ricordi, di ri-acquisizione della propria “memoria” personale, strappatagli dall’esperienza della Guerra che lo aveva, allora, a tal punto colpito, da negargli la capacità di valutarli, di viverli sulla propria pelle: il trauma del “ricordo” è così vivo nel film, che la scena conclusiva presenta, nella sua taciuta drammaticità, fatta di soli sguardi e di volti dal “pallor muto”, la promessa di “non dimenticare”, anche se sarà difficile raccontare. È un po’ come accade per tutti coloro che hanno vissuto “il martirio dell’infanzia”, in cui dal proprio nido domestico si è scaraventati nella realtà storica e sociale. Antonia Arslan, nella “Masseria delle Allodole” che rappresenta un percorso simile nella sua trama al racconto cinematografico e autobiografico di Malle, scriverà: “Io mi sono seduta, un giorno di Maggio, ad ascoltare e scrivere. Ed è stato come intessere un tappeto“. È bello pensare per il pubblico appassionato e critico che ci sia un legame empatico ed etereo tra tutti coloro che hanno vissuto, anche nei racconti, un genocidio, un’operazione di sterminio pianificata freddamente dall’uomo. Louis Malle intesse il suo tappeto con la poesia del Cinema, Arslan con l’amara vivacità di un racconto letterario e Primo Levi, altra vittima di questo abominio, con la verità lirica della poesia. Il paesino della Francia, usurpato della sua serenità, è ripreso in quella “porta che rimane aperta”, con cui termina la pellicola: la verità apre le porte, la storia non bussa ma invade e saccheggia la vita degli individui: c’è un bidello che fugge, ma alla fine sarà preso, e tanti piccoli omuncoli in divisa che agiscono pervasi dalla loro follia. Ma anche questa, come lo stesso Malle vuole affermare, nasce dall’uomo, ed è soprattutto radicata nell’individuo: gli occhi dell’autorità della “Gestapo” sono vacui, privi di una loro identità: le macchine asservite al delirio di cui parla Quasimodo ne “L’uomo del mio tempo”. La trama, alla fine, si sublima in un messaggio che commuove, anche perché traspare da una lacrima appena accennata di un bambino, e dal lirismo incalzante di una fotografia perfetta perché riesce ad umanizzare le forme, e a dar vita ad un cinema poetico. Gli Ebrei arrestati che vanno via da “quella porta”, rivelano un senso di “sradicamento” non solo apparente, ma anche affettivo: quel collegio è una famiglia, e lo è non solo per quegli Ebrei ma anche per quel cappuccino, che pronuncia la frase essenziale della pellicola: “Arrivederci ragazzi, a presto”. La speranza di un’affettività e di un’amicizia che si consacra all’immortalità nel ricordo che i ragazzi di quel collegio avranno del Prete Juàn e dei giovani ebrei strattonati dai nazisti.Questo è un cinema di “denuncia morale” e non certo storica, ma la riflessione è doverosa e istintiva: nessun revisionismo storico, di qualsiasi parte o colore politico, riuscirà a guarire la ferita di un martirio “affettivo”, vissuto nella quotidianità di ogni uomo di quel tempo e di quella generazione. Un martirio, di cui qualcuno, fortunatamente, avrà sempre il coraggio e la forza di parlare proprio per quel “fil d’amore” che lega tutte le vittime di quest
a “storia sbagliata” (F. De Andrè).
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