Ingresso
Quando penso all’ingresso immagino una pianta.
No, non penso a una porta o all’ingresso di una casa. Penso a una pianta con le radici ben salde per terra. E allora esulto per non essere una pianta. Amo le piante, si capisce. Ho una piantina davanti alla finestra che è stata compagna di avventure e traslochi e ancora… resiste pur essendo stata trapiantata varie volte. Ecco il punto: io non sono una pianta, non sono legato a un ambiente preesistente e determinato. Io cerco il mio ambiente, mi muovo, faccio il mio ingresso nella realtà, nel mondo, negli ambienti. Io scelgo ed entro. Camminando io mi sento un essere che muove se stesso, in cammino appunto, capace di fare ingresso in qualcosa che mi si spalanca davanti.
La possibilità di fare ingresso nella realtà e in un ambiente particolare (una casa, il cinema, una stanza o l’altra, una chiesa, un ristorante…) significa che io posso scegliere dove andare: io “vivo nella possibilità”, come scriveva Emily Dickinson. E la possibilità è sempre la possibilità di accedere a qualcosa da cui sono fuori. Chi si sente “dentro” a tutto e non avverte le soglie rischia di essere solamente dentro se stesso, chiuso nel proprio mondo asfittico, che sente grande perchè l’io si gonfia, non perchè lo spazio sia ampio.
E invece la realtà è lì, aperta all’accesso, accessibile al mio ingresso.
Ma per fare ingresso occorre imparare a discernere i passaggi, le frontiere, cioè le soglie. La vita dell’uomo è sempre una casa ma anche sempre una soglia. La soglia è un punto delicato di passaggio tra il noto e l’ignoto, tra il proprio e l’altro, tra il domestico e l’avventuroso. Non si attraversa una soglia se non si avverte una affinità tra noi e lo spazio che ci si apre davanti. Io non attraverso la soglia di una casa in cui non mi sento accolto. Se lo faccio, devo essere obbligato a farlo e la prima sensazione è il disagio: sono dove non dovrei essere. Certo, non è detto che poi non si possa “addomesticare” anche un ambiente ostile. Tutt’altro! Tuttavia, in genere, se ci si avventura a farlo, è perchè si avverte quella ulteriorità, quell’ambiente estraneo come qualcosa che potenzialmente ci potrebbe essere familiare, o comunque perchè la sua estraneità ci affascina o ci seduce.
E ciò che chiamiamo fascino è proprio la percezione di una soglia, di un passaggio che ci attira profondamente, forse irresistibilmente. E sappiamo che attraversare la soglia del fascino potrebbe non lasciarci come siamo, potrebbe mutarci profondamente. Anche se attraversiamo la soglia per conquistare ciò che sta al di là rischiamo sempre di essere conquistati proprio mentre lo espugniamo. L’attraversamento di una soglia implica sempre un pericolo. Attraversa la soglia solamente chi sa mettersi in gioco.
Ma l’ingresso, sebbene sia un gesto attivo, implica anche una forma di attesa. Non si attraversa una soglia correndo, ma fermandosi un attimo. Oppure, in ogni caso, percependo un momento di sospensione nel passaggio: cambia la luminosità, cambiano gli odori, la disposizione dello spazio,… Per non parlare poi di quando si fa accesso a un universo personale nei rapporti di amicizia o di amore.
Anche l’opera d’arte spesso vive della raffigurazione simbolica di questa sensazione. La letteratura, ad esempio, lo fa con il linguaggio liminare e le sue figure quali la porta chiusa, la città interdetta, la frontiera, il deserto… E’ il frutto della capacità evocativa delle immagini, delle metafore, e del linguaggio poetico, capaci di indicare insieme la prossimità e l’inaccessibilità. Anzi, si dovrebbe meglio dire che l’opera d’arte in generale crea questa percezione di attraversamento di una soglia e di ingresso.
L’ingresso mi vede dunque attore di qualcosa di cui non posso prevedere fino in fondo le conseguenze. Ma questa è anche una buona definizione della vita
E l’arte è vita, no?
Una spiegazione perfetta dell’opera di Hopper, fatta di soglie e attese.