Il Leviatano di Julien Green
A Lorges, una cittadina della provincia di Parigi, la noia è una brutta bestia, soprattutto d’inverno. Alla fine degli anni ’20 non c’è televisione, non c’è internet, il movimento e gli svaghi della capitale sono lontani e il freddo è intenso, dentro e fuori. Gli uomini si ritrovano ogni sera al ristorante della signora Long, una donna sola e appassita che vive per soddisfare una feroce curiosità su tutto quanto accade nella vita dei suoi avventori. Li tiene in pugno perché da lei si può lasciare la cena in conto come per la spesa dal droghiere, ma più di ogni altra cosa c’è che sono tutti frequentatori di sua nipote Angéle, l’orfana che alla chetichella la zia fa prostituire. La tetra signora Long può tenere in uno stato di schiavitù morale degli uomini già schiacciati dai loro vizi, ma non può tenere sotto scacco un uomo innamorato, soprattutto quando questi sa di essere brutto, povero e incapace di scrollarsi di dosso una vita senza alcuna prospettiva di felicità. Gueret è appena arrivato in paese, tira a campare con qualche lezione privata ed è inchiodato ad un triste matrimonio. La sera segue Angéle sulla via del ritorno a casa senza riuscire a dichiararsi, anzi corteggiandola bruscamente, provando ogni volta il sapore amaro della sua goffaggine e la disperazione di non avere alcuna possibilità di essere ricambiato. La sua passione repressa è la bomba a orologeria che sconvolgerà la vita di molti nella storia raccontata da Julien Green in Leviathan, un romanzo del 1929 che appartiene alla grande letteratura del secolo scorso.
L’ossessione di Guerét per Angéle si trasforma in una forza capace di scatenare l’inferno, colpire con una violenza inaudita, esigere lo scotto di un dolore incomprensibile e ingiusto che ricorda quello del parto. Da un abisso insondabile il sangue di Gueret spinge un essere nuovo verso l’espulsione, fino allo strappo che farà cadere con un urlo selvaggio tutte le sue maschere e svelerà la nascita di un uomo che reclama il diritto primordiale di essere amato. La sete d’amore che lo rende così ridicolo e, allo stesso tempo, attraente agli occhi di Angéle (per la prima volta si sente desiderata non per lussuria) evoca il Leviatano che è in lui. La spinta brutale che muove la mano del protagonista del romanzo fa sprofondare la sua vita nel caos primordiale, un luogo tanto oscuro e orribile che, se esiste un Dio così prossimo all’uomo da condividerne anche il male più grande questi non può che celarsi nelle forme di questa belva terrificante (è anche l’esperienza che fa Giobbe nel suo dolore quando nomina il Leviatano: «Dio si vanta di aver generato questo mostro marino, simbolo della potenza del Creatore», Giobbe 40,20-28). Il Guerét – Leviatano porta lo sconquasso nella grigia cittadina francese, suscita paura e vergogna, ma accende anche l’inconfessabile ammirazione di alcune anime mai state libere, strette fino a quel momento nella morsa soffocante di abitudini borghesi e relazioni prive d’amore. Ecco, allora, che Leviatano chiama Leviatano, come la vibrazione di un sisma nelle viscere della terra scatena in superficie le onde di un maremoto. Il corto circuito tra Guerét e Angéle scopre il groviglio di altre nervature esistenziali misteriosamente interconnesse con il destino di questi due disgraziati che cercano ardentemente una relazione pur nella violenza e nell’offesa. Il loro sentimento è tanto potente quanto assurdo, irragionevole, paradossale perché nasce da un gesto di violenza efferata: l’amore è un bisogno insopprimibile ma frustrato a tal punto da servirsi del Leviatano pur di piantarsi nel cuore dell’uomo e di liberarlo dalla sua schiavitù. La scrittrice americana Flannery O’Connor direbbe che “il cielo è dei violenti” mentre il poeta Clemente Rebora non esiterebbe a parlarci dell'”ignota bontà che nei millenni trasse l’uom dal bruto“. La follia omicida di Gueret lo trasforma nel bruto costretto a vivere in uno stato indistinto e disordinato simile a quello antecedente alla formazione del mondo, ma è proprio da questa condizione che finalmente esce la sua vera voce. Julien Green è abilissimo nel descrivere il magma che agita la sua coscienza, i morsi della colpa, il furore del suo desiderio di riscatto anche a costo di commettere altro male. Eppure il lettore percepisce (e non senza un certo spaesamento) la necessità di questa tragedia, come se il Leviatano che azzanna e mutila irrimediabilmente le vite di questi personaggi fosse mosso da una mano invisibile che vuole far uscire Gueret, Angéle e gli altri personaggi dall’odioso stallo di un’esistenza disumana. La disperazione, l’arroganza, il sospetto e soprattutto il dialogo serrato di Guerét con se stesso ricordano i febbrili monologhi interiori di Raskolnikov in Delitto e castigo mentre il delirio che accompagna la sua fuga da Lorges evoca quella dell’assassino protagonista di “Nebbia al Giambellino”, lo straordinario romanzo postumo di Giovanni Testori (che certamente aveva letto Julien Green).
Ci auguriamo che la ristampa di questo romanzo da parte di Longanesi sia il primo episodio di riscoperta di questo grande autore del ‘900. Il critico Carlo Bo parlava di Julien Green come di “un monumento dell’intelligenza e della passione”. In Leviathan il cuore di questa passione sembra risiedere nello sguardo con cui l’autore segue e racconta la drammatica parabola di Guerét riconoscendovi un fratello minore. Un fratello disgraziato, ma comunque fratello perché mosso dalla stessa urgenza di essere amato intensamente e subito; quell’urgenza che faceva dire a Julien Green di non aver paura della morte quanto piuttosto di temere di dover aspettare prima di avere il paradiso: “Voglio il paradiso e lo voglio subito!”
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