Cesare Pavese: “Un mondo di pietra e di cielo”

Cesare Pavese«La nudità del cielo fa appello alla nostra», nota Cesare Pavese in Piscina feriale, un breve racconto che descrive movimenti e intuizioni del protagonista mentre in agosto si trova con amici sul bordo di una piscina. Lo scrittore comprende che è difficile nascondersi in questa insolita nudità: «Siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda». Ecco l’intuizione fondamentale: «In verità, siamo tutti in attesa» (1). L’opera di Pavese è una delle più ampie e ricche del Novecento italiano, una tra le più discusse e dense di significati e valenze: da quelle più politiche a quelle più esistenziali e anche religiose. La sua opera è stata solcata dalla critica di ogni segno e direzione. A cento anni dalla sua nascita, avvenuta il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo (Cuneo), ci sembra necessario proporre qualche riflessione fondamentale, tentare di cogliere quello che ci pare essere il vero nervo scoperto della vicenda artistica dello scrittore, nella quale vita e letteratura convergono nell’attesa di vivere una pienezza sfuggente.

La lotta di un giovane
Dove troviamo le radici del desiderio di vita che si fa scrittura pulsante? Già il Pavese tra i 17 e i 22 anni esprime tensioni interiori illuminanti, tradotte in racconti, poesie e lettere che convincono, nonostante siano testi ancora acerbi. Essi esprimono la lotta interiore tra la bellezza e una visione stinta della vita, tra il desiderio di pienezza e l’inettitudine. Incamminandosi a passi lenti lungo la costa di un colle ai primi di ottobre, il protagonista di Lotte di giovani percepisce con ammirazione lo spettacolo che ha intorno: «Alzando il capo spaziavo lo sguardo e sentivo nello spettacolo di quella campagna qualcosa di grande di bello, struggendomi di non comprenderlo appieno e di non saperlo rendere in parole. Tentavo di goderne qualcosa, ma nulla riusciva a scuotermi l’indolenza interiore. Nei punti scoperti della strada mi alitava addosso la freschezza vivida della brezza ma [ciò] mi interessava appena. E me ne andavo innanzi atterrito dalla mia inettitudine a ogni bellezza, a ogni poesia, tutto torvo alla convinzione di essere un nulla in ogni cosa» (Rc, 200).

C’è sempre un punto vulnerabile nella vita di Pavese, un punto che lo espone alla bellezza e all’intuizione del gusto della vita, ma questa sembra non trovare possibilità di sviluppo. Il fascino però resiste, e da qui l’ammirazione per chi riesce invece a vivere pienamente: «Non so, tutte le cose belle, m’infiammano. Mi è una cosa naturale», afferma un personaggio di Lotte di giovani, che però non rappresenta Pavese, il quale «invece teme di slargare ben gli occhi in faccia al sole per paura dello spasimo della luce» (Lt, 11).

È un senso di felicità e forza che muove Pavese ad appassionarsi per la letteratura statunitense, della quale è stato uno dei massimi interpreti italiani, e anzi uno dei primi. Le sue riflessioni raccolte in La letteratura americana e altri saggi ne sono una testimonianza evidente. Pavese è sempre attratto da ciò che è selvaggio: «Selvaggio vuol dire mistero, possibilità aperta» (Mv, 335). Ritrova questa possibilità, ad esempio, nel suo amato Walt Whitman, come egli stesso scrive: «Mentre un artista europeo, un antico, sosterrà che il segreto dell’arte è di costruire un mondo più o meno fantastico, di negare la realtà per sostituirla con un’altra magari più significativa, un americano delle generazioni recenti vi dirà che la sua aspirazione è tutta di giungere alla natura vera delle cose, di vedere le cose con occhi vergini, di arrivare a quell'”ultimate grip of reality” che solo è degno di essere conosciuto» (La, 133).

Nel racconto Spasimi d’ali si trova un’evidente traccia di questa passione dipinta a tratti autobiografici: «Questo giovane, nella sua esistenza monotona rialzava a tratti la fronte dalle pagine più ardenti dei suoi libri o si fissava su spettacoli improvvisi della vita esterna, i più selvaggi e moderni, oppure coll’anima pulsante e gonfia da soffocarlo riviveva lampi di violenza e purità primitiva, respirava un alito della fuggita giovinezza del mondo, la sua forza fatta di brutalità sana e semplice, ingenua, o lampi dell’eterna sincerità e verità della vita immensa guardata con occhi puri e forti, epos e vita moderna. Pensava agli Inni Vedici, agli Edda, e a Walt Whitman a Rudyard Kipling a Iack [sic] London. Era sensibilissimo, appassionato nel suo tormento» (Rc, 247). In queste righe si dispiega una sensibilità accesa, tormentata, ma soprattutto attratta dalla vita gustata in pienezza nel suo aspetto meno addomesticabile. E tuttavia il protagonista di Spasimi d’ali fu trovato «morto, d’un colpo suicida di rivoltella».

Ecco dunque la dinamica profonda che muove Pavese alla scrittura: l’intuizione della vita in tutta la sua forza e bellezza, il senso di una «disponibilità assoluta» (ivi, 82) nei confronti della vita, il desiderio pazzo di un’impresa eroica, come scrive in una poesia giovanile, da una parte; e d’altra parte l’oppressione di un senso di inadeguatezza che paralizza lo spirito e l’azione, quando non il desiderio stesso. Questo è il grumo di tensioni col quale Pavese si confronterà nella sua produzione maggiore. Già ventenne egli giunge a questa consapevolezza: In nessun luogo trovo più una pietra / dove posare il capo. / Tutte le cose mi hanno presa l’anima, / l’hanno accesa e sconvolta, / e poi lasciata stanca / a mordere se stessa.

L’intuizione del reale
In fondo, si potrebbe riconoscere qui il vero problema dell’opera pavesiana: dapprima l’intuizione della realtà lascia lo scrittore ammirato, sorpreso, desideroso di vivere in maniera sana e forte; successivamente l’elaborazione interiore però vela di ombre e di incertezze, di dubbi e di fragilità questa intuizione iniziale. E qui si gioca anche il senso dell’espressione artistica. Infatti già il Pavese ventenne scrive: Mi sento traboccare d’una vita / caldissima, potente che, oh! Se mai / riuscissi a esprimere sarebbe colma / tutta la mia esistenza («[Logoro, disilluso, disperato]»). Come si fa a esprimere la vita, calda e potente? C’è un racconto dal significativo titolo di Vocazione, che inizia così: «Ricordo quanti papaveri si vedevano dalla finestra nella campagna, e quelli non me li ero certo sognati. Colori così vivi non si sognano e poi ho sempre osservato che di un sogno non si ricordano i particolari inutili». L’immagine vivida di questa «cosa vera» gli comunica «un senso incrollabile di fiducia»: «È come se per un momento avessi dubitato dell’esistenza delle cose e quello sguardo mi rassicurasse» (ivi, 92). È davvero uno splendido incipit che parla della realtà e del timore che essa sia sogno, del dubbio ma anche della fiducia nel fatto che le cose «sono». Il colore «vivo» del papavero non è un sogno, ma un segno efficace della realtà dell’essere. Scrive Pavese nel suo diario Il mestiere di vivere: «Il proprio della contemplazione è invece di fermarsi al sentimento diffuso e vivace che sorge in noi al contatto con le cose» (Mv, 62).

Lo scrittore ha bisogno di ancorarsi nell’essere, facendo un’intensa esperienza «contemplativa» di contatto. Qui solamente sembra trovar pace, fino a un desiderio disperato di assimilazione. Da qui l’immagine ricorrente sia nella poesia sia nella prosa di Pavese del corpo nudo a contatto con gli elementi in basso («non sapevo più di carne ma d’acqua e di terra»), e col cielo in alto («se si ha un corpo, tanto vale esporlo al cielo»). Non è l’ungarettiana sensazione di essere docile fibra / dell’universo, ma qualcosa di più drammatico, di più radicale fino al desiderio di «entrar nell’erba, entrar nel sasso» (Rc, 145 s), al sentirsi «fatto di pietra, umidità, letame, succhio di frutto, vento» (ivi, 142). Pavese avverte un «urto impetuoso» e si sente «spalancato» sul mondo, come sente pure la «rabbia improvvisa» di cercare la parola per tradurre tutto questo, per dire il mondo. È tale urto che muove la parola poetica all’espressione.

La parola letteraria deve dunque tenere traccia di questo rapporto col mondo. Non è tecnica o esercizio, scrive nel suo diario: «Ogni poeta s’è angosciato, meravigliato e ha goduto. L’ammirazione per un gran passo di poesia non va mai alla sua stupefacente abilità, ma alla novità della scoperta che contiene. Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme, non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilità tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtà portata in luce» (Mv, 8). Poesia è dunque esperienza del mondo, conoscenza e scoperta. La fantasia, davanti alla ricchezza del reale, impallidisce: «La fantasia umana è immensamente più povera della realtà» (ivi, 127).

Come Pavese «conosce» poeticamente il mondo? Attraverso la potenza delle immagini che lo colpiscono e generano narrazione, racconto. Argomento dunque della sua narrazione è l’immagine stessa: è questo il principio ispiratore della raccolta poetica Lavorare stanca (1936). In un’epoca in cui la poesia significava linguaggio «ermetico», essenziale e lirico, lontano da ogni contatto con il linguaggio quotidiano, Pavese invece si presenta al pubblico dei lettori con una poesia narrativa improntata al modello di Walt Whitman, dal verso libero, lungo (di media tra le 13 e le 16 sillabe), «epico». Le sue sono poesie capaci di dipanare storie a partire anche solamente da dettagli, situazioni fugaci: Il meccanico sbronzo è felice buttato in un fosso. Dalla piola, di notte, con cinque minuti di prato, / uno è a casa: ma prima c’è il fresco dell’erba / da godere, e il meccanico dorme che viene già l’alba. / A due passi, nel prato, è rizzato il cartello / rosso e nero: chi troppo s’accosti, non riesce più a leggerlo, / tanto è largo. A quest’ora è ancor umido / di rugiada. La strada, di giorno, lo copre di polvere, / come copre i cespugli. Il meccanico, sotto, si stira nel sonno («Atlantic Oil»). C’è un senso di freschezza in questi versi che descrivono una situazione di risveglio mattutino, di inizio, molto cara a Pavese.

Così nella poesia poi rimasta inedita «Creazione», di cui citiamo i primi e gli ultimi versi: Sono vivo e ho sorpreso nell’alba le stelle. […] / Non c’è voce che rompe il silenzio dell’acqua / sotto l’alba. E nemmeno qualcosa trasale / sotto il cielo. C’è solo un tepore che scioglie le stelle. / Fa tremare sentire il mattino che vibra / tutto vergine, quasi nessuno si fosse svegliato. Fanno eco a questi versi, ma ancor più in «soggettiva» quelli dell’ultima poesia delle 28 aggiunte alla raccolta e composte dopo l’esperienza del confino, cioè «Lo stendazzu»: L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio / e le stelle vacillano. / Un tepore di fiato / sale su dalla riva, dov’è il letto del mare, / e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla / può accadere. Perfino la pipa tra i denti / pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquío. / L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami / e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare / tra non molto sarà come il fuoco, avvampante. E da qui si leva la domanda dagli accenti leopardiani: Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci? Ecco, dunque, lo sguardo di Pavese nel conoscere il mondo: l’equilibrio tra la sua passione per l’immagine, che diventa storia narrata, e le domande e le istanze fondamentali dell’uomo che sono coinvolte pienamente nella visione. Ma si tratta di un equilibrio instabile, sempre pronto a cadere in un ripiegamento che tende a stemperare la forza delle immagini nell’universo interiore delle domande, dei problemi, dei ricordi e dei simboli.

Lo stupore ridotto a memoria
L’equilibrio si fa sempre più instabile dopo l’esperienza del confino, avvenuta nel 1935, e la redazione del romanzo Il carcere, quattro anni dopo. Qui leggiamo una pagina terribile. Deluso e amareggiato, Stefano, alter ego dello scrittore, si concentra sul pensiero della solitudine, dell’«impassibile clausura dell’animo a ogni parola, a ogni lusinga più segreta» fino a non credere più a nessuna speranza (cfr Ro, 324). È il contrario di quella precedente «disponibilità assoluta» nei confronti della vita. Questa chiusura ha un forte impatto anche a livello conoscitivo. Per comprenderlo leggiamo una piccola poesia scritta da Pavese dieci anni prima, nel 1928: Un piccolo pesce rosso / s’aggira stanco nel cristallo limpido, / sospeso a mezz’acqua, / coi grandi occhi stupiti. / La mia anima ora / è un abisso dell’oceano / dove tutte le scosse più profonde / tacitamente muoiono. / Nel gran gelido amaro / paiono e passano paurosamente / fosforescenti brividi. / La mia anima è un abisso / tutto striato di febbri. / L’immensità del buio / la soffoca di silenzio. Il pesce rosso ora / s’agita nel cristallo / a tratti viene a sbattervi / coi grandi occhi stupiti. Anche la boccia del pesce rosso è un «carcere». Ma l’immagine finale è quella degli occhi stupiti del pesce rosso che sbattono contro il vetro, rivolti oltre la parete trasparente che unisce e separa.

Pavese rientra nella boccia di cristallo delle proprie risonanze interiori, e afferma che le cose si scoprono veramente «attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta» (Mv, 232). Nel 1939 Pavese aveva letto Freud, e questa lettura non sarà stata indifferente allo sviluppo della sua poetica. Le cose, gli oggetti, vanno caricandosi di significati simbolici e in essi si perdono: l’oggetto e l’immagine, non appena sono interiorizzati, diventano il simbolo di un complesso inconscio, di angosce, ricordi, desideri, riferimenti culturali. Il testo è testimone non della ricchezza del reale, ma della complessità della coscienza. Così in uno scritto del 1940 dal titolo «A proposito di certe poesie non ancora scritte» Pavese finisce per recedere decisamente dalla sua poetica dell’immagine-racconto che aveva ispirato Lavorare stanca: da questo momento in poi nella narrazione «i fatti avverranno – se avverranno – non perché così vuole la realtà, ma perché così decide l’intelligenza» (ivi, 118). L’immagine reale cede il passo al simbolo, il mistero del reale al mito. Il suicidio di Pavese è «annunciato» dal suo progressivo abbandono della fiducia nel reale.

Certamente ispirato da alcuni passaggi dello Zibaldone di Leopardi, Pavese sostiene chiaramente che il mondo si impara a conoscerlo da bambini, ma non come si potrebbe credere grazie all’«immediato e originario contatto alle cose», bensì trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva, attraverso le parole e i racconti che lo accompagnavano. Da quel momento in poi quella è la sorgente di tutte le nostre reazioni al mondo per cui «se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commuoviamo perché ci siamo già commossi» (ivi, 243). E ancora: «Tutto è nell’infanzia, anche il fascino che sarà avvenire» (ivi, 364). La frase, in apparenza lieta e appropriata, in realtà nasconde una conseguenza terribile: «Lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità» (ivi, 241), la quale si dissolve nel déjà vu. In tal modo la letteratura è chiamata a contrapporsi direttamente al senso della realtà (cfr ivi, 372).

Conoscere il mondo per Pavese adesso significa interpretare i fantasmi dei propri ricordi originari. E questo per lui è uno «stato di grazia» (cfr Rc, 132-136), che così descrive: «I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo» (ivi, 132). Conoscere è come recuperare un oggetto noto che traspare in fondo all’acqua di una vasca: basterebbe «quel lieve coraggio di tuffare la mano, per toccare la lontana inafferrabile parvenza» (ivi, 86).

Pavese ha ragione quando dichiara l’importanza a livello simbolico delle scoperte dell’infanzia, mitiche ed elementari. Tuttavia ecco, a nostro avviso, il vero problema: se egli ben comprende quale tesoro sia l’infanzia, non altrettanto riesce però a comprendere la portata della sua attualità. Il passo – decisivo – che egli non riesce a compiere è quello di riconoscere nell’infanzia non solamente una valenza di passato, ma anche una potenza di futuro. Pavese sembra incapace di riconoscere che la condizione aurorale dell’infanzia non è solamente terra a cui far ritorno per capire la realtà e luogo in cui trovare rifugio, ma condizione stessa dell’esperienza del mistero del reale, possibilità di una conoscenza intesa come «prima volta» e non sempre e soltanto «seconda». Da Pavese invece viene l’invito agli «ingegni contemplativi» di «tapparsi i sensi davanti alla realtà» e di accontentarsi di quella che riaffiora dalla coscienza chiusa in se stessa. La «ricchezza del reale» sarebbe, dunque, soltanto «illusoria», oggetto solamente di una conoscenza mediata culturalmente e psicologicamente.

Gli «antieroi» dei romanzi
A questo punto non resta dunque che narrare il paesaggio, che è il vero unico grande protagonista delle pagine di Pavese. Percorrerlo è l’unico itinerario spirituale possibile tra il verde dei boschi, il marrone della terra, il rosso del sangue e i profumi dei vigneti e delle zolle, che sono però sempre figure dell’animo, immagini archetipe, che risalgono all’infanzia, al contatto aurorale col mondo, nel quale si sono creati miti e simboli, i quali sono poi il significato della realtà stessa. Il compito che Pavese sente proprio è dunque quello di uno scavo interiore in questo fondo mitico e primigenio.

E questo scavo è il compito e il significato dell’opera più nota di Pavese, quella raccolta nel volume dei suoi nove romanzi, composti nell’arco di un decennio, che Einaudi ha inserito nella sua «Biblioteca della Pléiade». Le trame sono fatte di atmosfere e percezioni, e le vicende e i paesaggi sono specchio di un’interiorità complessa e inquieta. Abbiamo già detto de Il carcere, che descrive l’esilio forzato del protagonista in un luogo tanto diverso e lontano dal suo mondo piemontese di origine. Ma qui il confino diventa un modo di essere più che una circostanza. È il ritorno alla terra piemontese la vera cifra di liberazione e autenticità. A partire dal realismo metaforico di Paesi tuoi (1941), che ha come protagonisti Berto e Talino. I due si conoscono in carcere. Appena usciti, Talino riesce a convincere Berto a seguirlo in campagna, dove potrà lavorare alla trebbiatrice. Giunto in paese, Berto rimane turbato alla scoperta del luogo: l’odore del fieno, la vista delle colline a forma di mammelle, la famiglia. Tutto lo sorprende e lo affascina. Ma soprattutto Gisella, la sorella di Talino. Berto comincia a farle la corte. Talino, che ha avuto rapporti incestuosi con la sorella, ora non resiste alla nuova situazione. Mentre si svolgono i lavori della mietitura la ragazza si reca al pozzo per attingere acqua e la porge a Berto. A questo punto scoppia la tragedia: Talino, roso dalla gelosia, le pianta nel collo il tridente. Anche La spiaggia (1941) parla di un ritorno alla campagna. Doro, l’amico d’infanzia del protagonista, si era sposato e aveva lasciato Torino per andare a vivere a Genova. Un giorno d’estate, Doro ritorna. Il protagonista, un professore trentenne che narra in prima persona, lo accompagna in collina per rivedere il suo paese, cercando di scavare sotto quella scorza taciturna ed evasiva alla ricerca di un dramma intimo che Doro non gli rivela. Il professore continuerà a cercare quel dramma anche quando seguirà Doro al mare, e soprattutto quando incontrerà la moglie del suo amico, Clelia, una donna volubile e affascinante.

La casa in collina (1949), che è uno dei romanzi più celebri di Pavese, vive di immersioni nella terra piemontese. Corrado, il protagonista, è un professore di Torino che vive con uno spirito di indifferenza e di apatia il duro periodo dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Persino il suo rifugio sulla collina torinese viene vissuto come un modo per essere lontano dalle preoccupazioni. Ama incontrarsi con un gruppo di gente semplice e allegra che si ritrova in una vecchia osteria dalla parte opposta della collina, tra cui ritrova anche Cate, una donna che aveva amato anni addietro e che poi aveva lasciato per paura delle responsabilità. Cate ha un figlio, di nome Dino, che egli sospetta essere suo figlio, con il quale passa il tempo e nel quale egli rivede la sua spensierata fanciullezza. Dopo l’armistizio, un giorno i tedeschi fanno una perquisizione nell’osteria, e Cate e gli amici vengono catturati. Corrado osserva quanto sta accadendo senza essere visto e si salva. Si rifugerà presso i religiosi di un collegio di Chieri, dove Dino lo raggiunge più tardi. Quando Dino lascerà il collegio per unirsi ai partigiani, Corrado decide di ritornare al suo paese natale.

Il diavolo sulle colline (1949) vive del contrasto tra città e campagna. Ha come protagonisti tre amici inseparabili: l’io narrante, Pieretto, il più intellettuale dei tre, e Oreste, semplice e ingenuo che viene dalla campagna. Studiano a Torino e passano le serate a vagare per la città o sulla collina. Qui incontrano Poli, un individuo che conduce un’esistenza completamente diversa dalla loro. Con l’arrivo dell’estate, i ragazzi lasciano la città e si trasferiscono a casa di Oreste, nelle Langhe, accanto a quella di Poli, che vive in collina insieme alla moglie Gabriella. Oreste è particolarmente attratto dalla donna che gli mostra apertamente il suo interesse. Poli, che aveva fatto uso di droghe, ricade nel suo vizio. Dopo una festa sta male, e Gabriella, che ancora lo ama, decide di portarlo in macchina a Milano. Darà così un passaggio ai tre amici fino al paese ponendo fine al loro incubo, che comunque li ha cambiati.

Ma è soprattutto La luna e i falò (1950) ad essere il grande romanzo della terra e del ritorno. Il protagonista è Anguilla: all’indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe dopo molti anni trascorsi in America. In compagnia dell’amico Nuto ripercorre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. Appena giunge alla sua terra si accorge che nulla è cambiato: ritrova gli stessi suoni, gli stessi odori e gli stessi sapori che si è sempre portato dentro. Vengono così raccontati eventi che sono tra di loro collegati dai pensieri, dalle riflessioni e dai ricordi del protagonista. Anguilla da ragazzo pensava che il paese in cui viveva fosse tutto, ma ora che, viaggiando, ha capito come veramente è fatto il mondo, si rende conto che «un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (Ro, 784).

A quelli citati sono da accostare tre altri romanzi che ci parlano del disagio della maturazione umana e affettiva e del contrasto sociale tra un mondo borghese vano e fatuo, e un mondo più schietto e sincero. Il compagno (1947), il romanzo più ideologico di Pavese, narra la storia di Pablo, un giovanotto piccolo-borghese, nullafacente e incolto, che si innamora di Linda, la ragazza di un suo caro amico, disinvolta e libera, amante della vita mondana. Si mette con lui ma poi lo lascia. Pablo, avvilito, decide di lasciare Torino e raggiungere Roma, dove entra a far parte di un gruppo di opposizione clandestina al fascismo. Al lavoro incontra Gina, che è l’antitesi di Linda. Pablo viene arrestato ma, per assenza di prove, è rimesso in libertà con l’obbligo di rientrare a Torino. Gina lo raggiungerà. La bella estate (1949), che gli valse il «Premio Strega», ha come protagonista Ginia, una sarta sedicenne che, curiosa della vita e delle sue sorprese, diventa amica di Amelia, modella per alcuni pittori. Da lei si lascia convincere a frequentare l’ambiente artistico della città. Così conoscerà Guido, l’affascinante pittore col quale vivrà la sua iniziazione sessuale, e che si servirà di lei senza amarla. Quando Ginia scopre la verità, confusa e sconvolta, scappa via, accettando alla fine le premure di Amelia, che è lesbica e innamorata di lei: «Andiamo dove vuoi – conducimi tu» sono le sue ultime parole che mettono una pietra sopra ai suoi sogni di una «bella estate» con tutto il suo valore simbolico. Infine in Tre donne sole (1949) Clelia è una donna non più giovane, che vive orgogliosamente del proprio lavoro, in ruvida e scontrosa solitudine, e guarda e giudica la società della buona borghesia del primo dopoguerra e gli ambienti intellettuali un po’ snob. Travolta da un mondo di rapporti falsi e corrotti, riesce a trovare un punto di equilibrio, alla fine precario, in Becuccio, un giovane operaio che vive di lavoro come lei.

Qual è l’immagine che resta nel lettore che ha letto i romanzi di Pavese? Un antieroe, un essere umano disilluso, che ha provato a crescere, a vivere: una radice scoperta che pensava di essere ramo e si era rivolta in alto, ma che soltanto la ricerca della propria terra dove affondarsi riesce davvero a consolare.

Vie di uscita: desiderio della donna e pensiero di Dio
Ma c’è qualcosa che desta lo spirito e resta, alla fine, irriducibile a simbolo. Qual è la realtà che per Pavese manterrà sempre l’urgenza bruciante della conoscenza della «prima volta»? L’incontro personale. Non abbiamo qui lo spazio per approfondire la quanto mai complessa relazione tra Pavese e le donne delle quali si è innamorato, ma dobbiamo almeno affermarne l’importanza: La donna ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta / che abbia avuto mai l’alba su queste colline («Incontro»): in questi versi è come se fosse il presente, cioè lo sguardo della donna, a retro-illuminare il passato rappresentato dalle «mitiche» colline piemontesi. Ma è nella raccolta finale Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, l’ultima opera pavesiana, che troviamo conferma: Tu viva tacevi; le cose / vivevano sotto i tuoi occhi / (non pena non febbre non ombra) / come un mare al mattino, chiaro. La mitizzazione aiuta a dire l’esperienza bruciante del presente: Sei la vita, il risveglio, scrive Pavese, Sei la luce e il mattino.

La questione della religiosità di Pavese vive proprio in questo stesso territorio, fino a sovrapporsi col precedente: «Il credente è sano, anche carnalmente – sa che qualcuno lo attende, il suo Dio. Tu sei celibe – non credi in Dio» (Mv, 340). Gli studi sulla religiosità di Pavese non mancano (2). Ad essi rinviamo per un’analisi approfondita specifica. Qui vogliamo affermare che il discorso religioso dello scrittore non è mai compiuto e definito. Egli sembra a tratti un ateo dichiarato, sì, ma l’assenza di fede sembra lasciare il calco vuoto di Dio, la sua orma ben visibile, anche in sua assenza. Altre volte invece si avverte come il cadere di un muro, lo spaccarsi di una roccia sigillata e lo sgorgare di un desiderio del divino che pare incontenibile: «Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder sempre quello sgorgo di divinità. È questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di esser fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di amore. Forse è tutto qui: in questo tremito del “se fosse vero!” Se davvero fosse vero…» (Mv, 272, corsivo nostro). Quello della divinità è uno «sgorgare», uno zampillare del quale si gode di conoscenza che non è mero ricordo, ma esperienza in atto, sentita. «Che cosa significherebbe un valore oggettivo ma non sentito?», si chiede Pavese nel suo diario. «Affermi così l’esistenza di Dio in quanto prometti e postuli il valore del mondo e della vita» (ivi, 300), conclude.

Nel volume di conversazioni – Dialoghi con Leucò – Odisseo chiude il suo dialogo con Calipso con queste lapidarie e dense parole: «Quello che cerco l’ho nel cuore, come te» (Dl, 134) (3). Dunque ecco che cosa ci sembra: Pavese avvertendo quell’esigenza profonda e permanente iscritta nel cuore dell’uomo che è «speranza», l’ha interpretata come «ricordo». C’è come una sorta di retroproiezione mitica del desiderio e del destino che l’uomo spera per sé. È immaginare il desiderio e il destino dell’uomo nell’Eden, e visualizzare quest’Eden non nel futuro ma nel passato, ponendolo alle origini, portato in luce dal ricordo. E, sempre nei Dialoghi, Satiro, conversando con Amadriade, afferma: «Questo vuol dire, la speranza. Dare un nome di ricordo al destino» (ivi, 198). Da qui nasce il valore del simbolo. E in questa tensione retroproiettiva tra futuro e passato si innesta il pensiero e l’esperienza di Dio: «Se ripassi con l’idea di Dio tutti i pensieri qui sparsi del subconscio, ecco che modifichi tutto il passato e scopri molte cose. Soprattutto il tuo travaglio verso il simbolo s’illumina di un contenuto infinito» (Mv, 295).

In Pavese, in maniera oscura, il pensiero di Dio è qualcosa che ha a che fare con la stessa conoscenza del mondo; l’esperienza della sua presenza ha a che fare con il valore dato alle cose: «Potrebbe dedursi che il mondo, la vita in generale si valorizzano unicamente avendo l’animo a un’altra realtà, oltremondana. Diciamo, avendo l’animo a Dio. Possibile?», si chiede. La questione di Dio e della fede in Pavese non è una delle questioni presenti nei suoi scritti, ma qualcosa di più, una sorta di fondamento. Il pensiero di Dio è «sgorgo», inizio, contatto vero e saldo con l’esperienza, vera via di uscita dalla boccia di cristallo che sembra comprimere la conoscenza che l’uomo ha del mondo in un mero «ricordo», in un’esperienza che si fa più chiudendo gli occhi che aprendoli. Il pensiero di Dio apre gli occhi e fa superare quel «peculio di simboli che ognuno di noi si fa nella vita: in questi non c’è soprannaturale, bensì sforzo psicologico, volontario ecc., di trasformare attimi d’esperienza in attimi d’assoluto. È protestantesimo senza Dio» (ivi, 273). Pavese è lucidissimo.

Il pensiero di Dio pone l’uomo su un altro piano di esperienza e di sentire. Facendo riferimento al Palazzo Trevisio, sede del collegio dei Somaschi dove aveva trovato lavoro, Pavese annota nel diario: «Perché quando riesci a scrivere di Dio, della gioia disperata di quella sera di dicembre al Trevisio, ti senti sorpreso e felice come chi giunge in un paese nuovo?» (ivi, 343). Qui, in particolare, si allude a un momento speciale nel quale Pavese chiese a padre Baravalle di accostarsi ai sacramenti. Il pensiero di Dio fa sfumare il paesaggio e spalanca un «paese nuovo», una nuova dimensione di esperienza.

Sia chiaro: Pavese non l’accetta facilmente, e anzi con essa entra in conflitto. Da una parte ne gioisce in espressioni esultanti come quando nel marzo del ’47 annuncia «l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose» (ivi, 326). D’altra parte ne patisce perché gli sembra una resa, un mollare le redini al quale resiste: «La vera esperienza costringe alla totale abdicazione e alla speranza» (ivi, 339), scrive in parole luminose. Ma egli stesso prende le distanze da tale abdicazione e da tale speranza, avvertendo «l’assoluto e fiducioso abbandono di sé all’umiltà, alla grazia a Dio» come «speranza ingiustificata» o «comoda ipotesi». Questa dialettica accompagna Pavese lungo tutto il suo percorso biografico e artistico. Narrativamente troviamo dispiegarsi questo «disagio» nel romanzo La casa in collina, lì dove il protagonista è costretto a rifugiarsi presso un collegio di Chieri. Le pagine trasudano dubbi e resistenze, ma anche desiderio di riconciliazione. A tal proposito sarebbe da leggere per intero una sua lunga lettera all’amico credente Tullio Pinelli del 18 agosto 1927, tutta tesa a negare la fede, che però lucidamente conclude: «Confesso di essere in un disagio continuo tra la logica e le aspirazioni» (Lt, 70).

Scrivendo ancora a Pinelli, un mese dopo, Pavese esprime con chiarezza ciò che ama e ciò che lo annoia: «Qua, con questi diavoli di liberi pensatori, si ritorna a casa colle ossa e il cervello rotti di stanchezza e non si è concluso niente. Con te almeno si poteva parlare di cose andate, ma sempre affascinanti e grandiose. Mi pareva di avere accanto un po’ del respiro di quei michelangioleschi S. Padri che, un po’ più robustamente dei pretonzoli d’adesso, si davan d’attorno a costruire quel loro mondo di pietra e di cielo. Una forza tra di popolo e di intelligenza pura che, con una semplicità biblica, mi metteva a nudo l’anima» (ivi, 110). Ecco il mondo a cui Pavese ha sempre aspirato: un «mondo di pietra e di cielo».

* * *

Per Pavese scrivere è stato, in fondo, «una ferita sempre aperta» (Mv, 24), e l’«insoddisfazione» è stata per lui «la molla prima di qualunque scoperta poetica» (Po, 114). Ché da tutte le cose / siamo sempre fuggiti / irrequieti e insaziati / sempre solo portando nel cuore / l’amore disperato / verso tutte le cose («[Penso la mia vecchiezza solitaria]»): la permanente irrequietezza è disperato amore della realtà che lo circonda: «La sua disperazione non era vanità del vivere, ma di non poter raggiungere quella interezza di vita che desiderava» (4). Pavese fu ritrovato la sera del 27 agosto del 1950 nella camera di un albergo di piazza Carlo Felice: si era suicidato con i sonniferi. Il suo gesto estremo mette a nudo una tensione troppo accesa per essere gestita, incapace di essere contenuta da strategie difensive; una «protesta di vita», come aveva scritto tempo prima (Mv, 384). Su questa protesta, le ultime parole del diario di Pavese: «O Tu, abbi pietà. E poi?» (ivi, 400).

————— NOTE

1 C. PAVESE, Tutti i racconti, Torino, Einaudi, 2006, 88 s. Porremo i riferimenti alle opere di Pavese usando sigle. Ecco le opere a cui faremo riferimento: Tutti i racconti, cit. (Rc); Il mestiere di vivere: 1935-1950, ivi, 2000 (Mv); Lettere: 1924-1944, ivi, 1966 (Lt); La letteratura americana e altri saggi, ivi, 1990 (La); Tutti i romanzi, ivi, 2000 (Ro); Dialoghi con Leucò, ivi, 1947 (Dl); Le poesie, ivi, 1998 (citeremo il titolo della poesia o, tra parentesi quadre, il primo verso qualora le poesie citate siano senza titolo; useremo la sigla Po per i testi saggistici in prosa inseriti nel volume). Pavese si laureò in Lettere con una tesi su Walt Whitman presso l’Università di Torino. Fu collaboratore della rivista La cultura, divenendone direttore. Nel ’35 la rivista fu soppressa per antifascismo e Pavese fu condannato a scontare sette mesi di confino in Calabria. Al rientro intensificò la propria collaborazione con l’editrice Einaudi, che aveva contribuito a far nascere nel ’33, e cominciò a pubblicare le sue opere, a partire dal ’36. Non partecipa né alla guerra né alla Resistenza. Congedato perché asmatico, si ritira sulle colline del Monferrato. Dopo la guerra si iscrisse al Pci. Nel ’50 vince il «Premio Strega» per La bella estate. Ma i successi letterari non lo salvarono dagli effetti di una delusione d’amore per l’attrice Constance Dowling. Il 27 agosto del ’50 si tolse la vita.

2 Citiamo due volumi che trattano esplicitamente il tema: V. ARNONE, Pavese tra l’assurdo e l’assoluto, Padova, Messaggero, 1998; G. MOLINARI, «”O tu abbi pietà”. La ricerca religiosa di Cesare Pavese», Milano, Àncora, 2006.

3 Il volume è composto da 26 conversazioni a due, scritte tra il ’45 e il ’47. I protagonisti sono sempre eroi della mitologia greca e latina, che discorrono di volta in volta di amore, amicizia, dolore, ricordo, rimpianto, fragilità, morte, destino.

4 I. CALVINO, Lettere 1940-1985, Milano, Mondadori, 2000, 300.

© La Civiltà Cattolica 2008 IV 567-580 quaderno 3804

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  1. Rosa Elisa Giangoia ha detto:

    La cosa davvero importante è che in quest’analisi Antonio ha liberato Pavese dalle incrostazioni dell’ideologia, una cappa che ha influito negativamente sulla sua vita, perché gli ha fatto sentire tutte le sue ristrettezze e limitazioni, e poi perché ha pesantemente condizionato per decenni la lettura critica della sua opera. Ho conosciuto padre Baravalle, in anni ormai lontani, e abbiamo parlato diverse volte di queste cose. I Padri Somaschi di Genova Nervi custodiscono queste memorie. L’anno scorso avevo postato anche un intervento del Padre Giuseppe Oddone.

  2. anonimo ha detto:

    “Il pensiero di Dio fa sfumare il paesaggio e spalanca un «paese nuovo», una nuova dimensione di esperienza.”

    Purtroppo Pavese ha fatto solo un’asperienza letteraria della spiritualità.
    La Fede ha vacillato perchè altrimenti avrebbe compreso che il nostro inizio e la nostra morte sono scritte nelle pagine di Dio.
    Che Dio lo riposi in pace.

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