Prendere le onde
E dopo oltre un mese sono arrivate. Le aspettavo, in ansia. Son durate due giorni non di più, erano alte ma non imponenti, però mi sono bastate, per ora. Parlo delle onde. Qualcuno ama il mare calmo, piatto, e dentro di me c’è questo “qualcuno”, ma qualcun altro ama prendere le onde, e questo “qualcun altro” dentro di me ha il sopravvento. Prendere le onde, parliamone. Come nel caso di “prendere il sole” (ricordo in merito un bell’articolo di Antonio Spadaro su questo blog) non si tratta di prendere un bel niente ma di “essere presi”. Il massimo dell’attività consiste con il massimo della passività. È come corrispondere ad un amore, ad una vocazione, il più spetta all’altro, per noi si tratta solo di ricevere. C’è qualcosa di più bello? L’onda, il dono più prezioso del mare, che ci arriva decorato dalla bianca schiuma.
I primi giorni di mare quest’anno pioveva e soffiava vento forte. Siamo andati con la macchina sulla spiaggia a vedere il mare. Perché l’uomo va verso il mare? Quando ci penso ricordo sempre I vitelloni di Fellini e mi commuovo. Esiste fascino più irresistibile del mare?
Chissà perché a me piace prendere le onde? Difficile rispondere, provo a dire qualcosa.
Le onde sono violente, una massa d’acqua che si abbatte su di te, però la superficie dell’acqua è luquida, non solida (per fortuna) quindi perforabile. Puoi bucare le onde in due modi: rimanendo stabile e fermo, come uno scoglio su cui le onde si infrangono in mille schizzi, oppure tuffandoti proprio nel cuore dell’onda, mentre la cresta si richiude come il cimiero di un elmo o una carica di cavalli. I “cavalloni”, ecco le onde alle quali io aspiro. Sono le onde più violente, quelle che fanno più paura. Quella muraglia d’acqua che sembra impenetrabile che ti sovrasta togliendoti il respiro e per un attimo la speranza. Senza la paura il prendere le onde non avrebbe senso.
Ho citato un capolavoro del cinema, posso ri-equilibrare con un film davvero scadente: Devil, con Ben Affleck nei panni del super-eroe cieco, non so nemmeno chi sia il regista. Quando l’avv.Murdock non vedente, alias Devil, si va a confessare e spiega al sacerdote (che lo conosce) che egli va a combattere e punire i criminali lì dove la polizia non va perché ha paura, mentre lui non ne ha, il sacerdote gli risponde: “un uomo senza paura è un uomo senza speranza”.
Oltre ad andare incontro e “bucare” le onde, c’è anche chi non fa proprio nulla e si abbandona al moto ondoso. È incredibile cosa l’onda riesce a fare con un corpo umano, anche bello robusto come il mio. Se ti prende il “rollio” dell’onda rischi di essere sballottolato, strapazzato, allungato, innalzato e scaraventato potentemente giù sulla sabbia, risucchiato dalla risacca e dai gorghi delle diverse correnti confliggenti.
Violenza, paura, rischio… sembra un film dell’orrore ma è il gioco più innocente e “per bambini” del mondo. Ecco cos’è che mi attira nel prendere le onde: la gioia e l’innocenza. Non fai nulla, stai lì, cullato dal mare e dalla sua schiuma frizzante. Per i bambini (che non sono quelli così indicati dall’anagrafe) prendere le onde è una grande gioia, anche perché, come e più dei migliori giochi, il prendere le onde ha due caratteristiche fondamentali: la ripetitività e l’inesauribilità. Nessuno prende “tutte” le onde, c’è un momento in cui ci si ferma, almeno per respirare, invece il mare non si ferma, è generoso, infaticabile. Per lui il gioco potrebbe non finire né sospendersi mai. Per me (e qui l’anagrafe comincia a contare), dopo un po’ è necessario una sospensione, un timeout. Quando esco a fatica dal mare, poi sento di avere le ossa rotte (ma tra le onde non avvertivo alcuna fatica, solo gioia) mentre mio figlio e i miei nipoti, fatti di gomma, possono restare lì per ore a ridere e gridare sfidando le onde. Perché l’onda con la paura che trasmette ti sfida, non c’è niente da fare. C’è un’epica nel gesto di buttarsi o abbandonarsi all’onda. Magari tua moglie e le altre donne di casa stanno qualche metro indietro e prendono gli schizzi (di secondo o terzo “rimbalzo”) e respirano lo iodio, ma se sei un uomo e hai letto Omero non puoi ignorare la sfida che proviene dal mare. E non puoi non vibrare di intimo consenso nel riascoltare le parole di Baudelaire: “Uomo libero, amerai sempre il mare: è il tuo specchio”.
Mi viene in mente quando da giovani (torna sempre il dato anagrafico), ma bimbi nella realtà, dopo che era piovuto, dopo che era venuto un temporale, magari nella notte, da Sestri Levante (Liguria) dove eravamo al mare, andavamo nella vicina Cavi (frazione di Lavagna) perchè la spiaggia era “aperta” ai moti del mare e vi erano dei cavalloni che arrivavano anche a due o tre metri di altezza.
E noi, giovani, forti e con le ragazze che guardavano (questo dato era fondamentale, forse la vera “causa” del nostro agire), “bucavamo” l’onda nel momento esatto che questa si chiudeva su sè stessa.
Ricordo che bastava sbagliare di qualche attimo il tuffo penetrante e venivi completamente ribaltato in mezzo all’acqua viva e forte, perdendo il senso dell’orientamento (non capivi, in quei brevi istanti, dove era l’alto o il basso, la spiaggia o il mare).
Ricordo ancora la stanchezza alla fine della giornata e la sensazione che i muscoli e le ossa fossero stati messi “in lavatrice”.
Ricordo ancora che alla sera, quando a casa ti toglievi il costume da bagno, questo era pieno di sabbia e di sassolini…
Il mare: questo immenso, sempre in movimento che, come il fuoco acceso nel camino d’inverno, puoi passare ore a guardarlo senza fare nulla (senza leggere, senza parlare, senza – forse – pensare).
“Stare2 davanti al mare
Mi viene in mente quando da giovani (torna sempre il dato anagrafico), ma bimbi nella realtà, dopo che era piovuto, dopo che era venuto un temporale, magari nella notte, da Sestri Levante (Liguria) dove eravamo al mare, andavamo nella vicina Cavi (frazione di Lavagna) perchè la spiaggia era “aperta” ai moti del mare e vi erano dei cavalloni che arrivavano anche a due o tre metri di altezza.
E noi, giovani, forti e con le ragazze che guardavano (questo dato era fondamentale, forse la vera “causa” del nostro agire), “bucavamo” l’onda nel momento esatto che questa si chiudeva su sè stessa.
Ricordo che bastava sbagliare di qualche attimo il tuffo penetrante e venivi completamente ribaltato in mezzo all’acqua viva e forte, perdendo il senso dell’orientamento (non capivi, in quei brevi istanti, dove era l’alto o il basso, la spiaggia o il mare).
Ricordo ancora la stanchezza alla fine della giornata e la sensazione che i muscoli e le ossa fossero stati messi “in lavatrice”.
Ricordo ancora che alla sera, quando a casa ti toglievi il costume da bagno, questo era pieno di sabbia e di sassolini…
Il mare: questo immenso, sempre in movimento che, come il fuoco acceso nel camino d’inverno, puoi passare ore a guardarlo senza fare nulla (senza leggere, senza parlare, senza – forse – pensare).
“Stare” davanti al mare
Ho letto solo ora il bellissimo racconto o
pagina di diario di Andrea, un pezzo di vita vissuta comunque, ed ho subito avuto in mente la scazzottata con l’angelo di Flannery O’ Connor: vivere è sempre confrontarsi con un altro, mettersi in gioco nella relazione con un altro, sperimentare le proprie forze e reazione emotive, entusiasmo, sfida, paura, insieme a quelle dell’altro.
Il fare a pugni è una modalità di relazione, non l’unica, ma importante, quindi da insegnare.
Ed è bene che “qualche metro più indietro ci siano la moglie e le altre donne di casa”, che prendono il mare in seconda o terza battuta: una sapienza femminile di fronte alla quale è superfluo ogni commento.