Ripetizione e ciclicità delle storie

Qualche anno fa partecipai a un concorso di scrittura. Erano previsti, tra gli altri, due premi distinti; uno per il racconto più originale, l’altro per lo stile migliore. Ripensandoci mi sembra che tra i due riconoscimenti vi sia un’enorme distanza concettuale. L’originalità è infatti generalmente stabilita sulla base di un tratto discontinuo, che consente di distinguere qualcosa come nuovo in quanto diverso da ciò che lo ha preceduto. È originale tutto quello che non viene percepito come un già-visto o già-sentito, cioè tutto quello che non è ripetuto.

Di altra specie è lo stile letterario che, al contrario, vive di ripetizioni. Innanzitutto una cifra stilistica per essere riconosciuta come tale deve presentare la ripetizione di un determinato canone. Ciò che rende uno scrittore diverso da tutti gli altri è dato proprio da un definito uso della parola (una certa scelta di vocaboli, di costruzione della frase, di figure retoriche, et cetera) che si ripete, sia pur evolvendosi, nella sua opera. E così un pittore sarà riconoscibile, ad esempio, in virtù di un determinato modo di stendere il colore o di mischiarlo sulla tavolozza, un regista per le sue inquadrature, un calciatore per le sue finte, e via a seguire. Lo stile è dato dalla ripetizione. E, tuttavia, questa considerazione non è ancora sufficiente. Finora si è menzionata, infatti, una ripetizione ‘interna’ all’opera di un artista, che definisce appunto il ‘suo’ stile. Ma ogni autore impara per emulazione, ripetendo quanto di ‘esterno’ riconosce come bello e, a partire da questo, per variazioni e affinamenti, giunge a uno stile che può definire proprio e originale.

C’è una frase, attribuita a Joseph Goebbels, che recita più o meno così: “ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Secondo il Ministro della Propaganda nazista, dunque, un’affermazione falsa, in virtù della sua ripetizione pedissequa, assume per chi la ascolta valore di verità. Due sono le interpretazioni possibili: o l’atto di ripetere svuota del senso originario l’affermazione – rendendo, dunque possibile qualsiasi altro contenuto di senso – o la ripetizione, al contrario, rafforza il contenuto (falso, in questo caso) assegnato all’affermazione.

Tutto il destino della ripetizione è attraversato da questa ambivalenza. Da un lato l’antico ‘repetita iuvant’, dall’altro lo spauracchio dell’anno ‘da ripetere’ per gli studenti bocciati; da una parte il desiderio di fare nuovamente un’esperienza piacevole, dall’altro la noia della routine quotidiana di atti sempre eguali; per un verso la tendenza a ripetere gesti e parole dei personaggi cinematografici (o, più semplicemente e inconsciamente, dei nostri genitori), per altro la rivendicazione della propria unicità e non-replicabilità. La ripetizione, dunque, rafforza o svuota il senso?

La risposta dipende da cosa intendiamo per ‘senso’. Di certo la ripetizione è un oltraggio all’ego, alla nostra pretesa di essere autori di gesti unici perché, appunto, irripetibili. La questione è quindi da legare alla percezione che l’essere umano ha di sé. Forse che il sole si ritenga sminuito perché sorge ogni mattino ‘quasi’ allo stesso modo? Ed è da rintracciare proprio nello spazio di questo ‘quasi’ la differenza tra copia e ripetizione, tra indistinto e rituale. Tutto ciò che ci circonda, dall’avvicendarsi delle generazioni ai cicli stagionali, ci parla di ripetizione e ripetizioni, di accadimenti che, susseguendosi ‘quasi’ allo stesso modo, ci precedono e ci definiscono. La ripetizione – nella ciclicità del rito – smarrisce l’ego per trovare l’io.

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