In attesa

Il giovanotto che, nel colmo dell’estate, parte da Amburgo alla volta di Davon-Platz, per una visita di tre settimane presso il Sanatorio Internazionale Berghof, non immagina certamente che il proprio soggiorno si protrarrà per sette anni. E tuttavia Hans Castorp era stato avvisato, al suo arrivo, dal cugino Joachim:

“Ho capito. Tu pensi già di ritornartene a casa” rispose Joachim. “Aspetta, aspetta; sei appena arrivato. Certo, per noi quassù tre settimane non sono niente, ma per te che sei venuto in visita e conti di restare soltanto tre settimane, per te sono un cumulo di tempo. (…) Qui ti manipolano il tempo altrui come non puoi immaginare. Per loro tre settimane sono un giorno. Vedrai, tutte cose che avrai modo di imparare” disse, e aggiunse “Qui si mutano i propri concetti.”

Se Hans Castorp, sin dal principio de La montagna incantata, pensa di ritornarsene a casa, oggi la nostra vita è tutta sintetizzata in una frase che è al contempo slogan, consiglio, ammonimento, hastag, prescrizione normativa: “restiamo a casa”. Questa frase segna, in un sol colpo, il limite del nostro orizzonte spaziale e temporale, ridisegnando abitudini presenti e aspettative future. Restiamo in attesa, giorno dopo giorno, di bollettini sanitari, di provvedimenti governativi, di notizie confortanti sulla malattia, di decreti che prolunghino o sospendano questo stato di reclusione.

La nostra attesa è un tempo del tutto peculiare, un presente stiracchiato fino all’infinito, sempre orientato verso la speranza del futuro, eppure indistinto nell’eterno ripetersi di giorni sempre eguali. In un simile contesto il domani ci si agita davanti come una carota sospesa di fronte al muso di un asino, promessa astratta e forse irraggiungibile per dimenticare le concrete e quotidiane bastonate ricevute sul dorso. Da tale futuro sospeso è lecito attendersi qualsiasi esito: un tempo migliore, eguale o peggiore rispetto al precedente, dipendentemente dal proprio grado di ottimismo e dalle personali capacità di immaginazione. E tuttavia prima del “come” è il “quando” a torturare i nostri momenti di sconforto. Quando finirà l’emergenza? Quando potremo rivedere i nostri affetti? Quando potremo (potremo?) ricominciare a lavorare? Quando potremo uscire di casa e fare quel viaggio che avevamo programmato? Quando potremo tornare a programmare il nostro futuro?

Quando, ridestato dal famoso “colpo di cannone” che, proveniente dalla pianura, squarciò il “silenzio” dei monti e infranse l’infantile sogno che über allen Gipfeln stesse la libertà, Hans Castorp discese finalmente, dopo sette anni, al piano e, fra lo scoppio delle granate ululanti, il suo autore lo vide cadere, rialzarsi, cadere di nuovo e di nuovo rialzarsi, il pronostico relativo alle sue probabilità di sopravvivere alla grande Weltfest des Todes fu formulato con la più consapevole circospezione, e velato di umanistico pessimismo.

Come ci ricorda Gennaro Sasso, nel saggio Tramonto di un mito, l’eroe borghese creato da Thomas Mann attende per anni il ritorno alla vita e al piano, per poi smarrirsi nella mattanza insensata della prima guerra mondiale. Al contrario, un altro piccolo eroe dell’attesa, il buzzatiano tenente Giovanni Drogo, aspetta per tutta la propria esistenza quella guerra che rappresenterebbe la sua grande occasione e che, pure, gli sarà negata.

La montagna incantata e Il deserto dei Tartari si configurano come “storie dell’attesa”, dove il tempo futuro appare solo brevemente ed è di assoluta insoddisfazione. Per i protagonisti dei due romanzi l’attesa emerge come inganno, nel quale è possibile rappresentarsi qualsiasi esito futuro, eppure (forse proprio per questo motivo) per entrambi sarà preferibile l’attesa alla realtà.

In comune hanno non solo il tempo dell’attesa, ma anche lo spazio. Stretti dalle montagne, sospesi sulla cima del mondo, presso sanatorio o fortezza, entrambi si ritrovano in un luogo situato fuori dal proprio contesto che, tuttavia, negli anni diventa sempre più familiare, sino a rendere impossibile l’immaginazione di un contesto differente. Le attese che noi siamo soliti conoscere hanno la caratteristica di collocarsi tendenzialmente in luoghi di passaggio: “facciamo anticamera”, aspettiamo i treni nelle stazioni, leggiamo riviste nelle sale d’attesa. Il minimo comun denominatore di luoghi simili è quello di non avere in sé la propria ragion d’essere. Nessuno si reca in una sala d’attesa, tutti vanno dal dottore.

Gli esempi di Hans Castorp e Giovanni Drogo, invece, ci riportano alla nostra condizione presente. I loro luoghi dell’attesa non sono asettici “non-luoghi” (ammesso che ne esistano), ma diventano col tempo la loro casa. Oggi noi non aspettiamo in un luogo di passaggio, ma restiamo nel nostro luogo, che continuamente definiamo e che, sotto molti aspetti, ci limita e definisce a sua volta.

Eppure, nonostante il luogo, l’attesa resta intrinsecamente un tempo di passaggio. Sia per Mann che per Buzzati, l’attesa diventa tempo di formazione e trasformazione, finendo per coincidere con la vita stessa. In un’epoca che così pervicacemente ha tentato di farci dimenticare l’esistenza dell’attesa, vivevamo nell’ossessione di accorciare i tempi, bruciare la velocità fino a raggiungere l’istante. Ogni minuto trascorso ad aspettare qualcosa o qualcuno immediatamente diventava “tempo morto”, scarto, spreco, spazio vuoto da occupare. E così, ritrovandoci di colpo in una situazione di attesa forzata e prolungata, abbiamo creduto che nulla fosse cambiato e nulla potesse cambiare; ci siamo sforzati di occupare questo spazio vuoto con l’intrattenimento, “facendo cose” che ci tenessero impegnati e “vedendo gente” per il tramite dei nostri dispositivi informatici.

Abbiamo dimenticato l’ammonimento del cugino Joachim: “Qui si mutano i propri concetti”. L’attesa non è uno spazio da riempire, ma è un tempo di passaggio, che comporta un cambiamento di stato. E se ci spaventa il pensiero di una lunga attesa, dobbiamo pur ricordare le parole con cui Borges commenta il destino di Pedro Damián, nel finale del racconto L’altra morte:

(…) egli ebbe quello che il suo cuore bramava, e tardò molto ad averlo, e forse non c’è felicità più grande.

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