Arte come relazione
A fine settembre, quando gran parte dei vacanzieri era rientrata alla base, siamo riusciti a ritagliarci alcuni giorni in Sicilia. Quando si dice “barocco siciliano” si pensa subito a Modica e alla val di Noto, ma anche nella punta occidentale si incontrano esempi straordinari. Una scoperta inattesa è stata Casa Professa, la chiesa del Gesù di Palermo, anche se la più inaspettata l’abbiamo incontrata a Mazara del Vallo. La chiesa di san Francesco è di dimensioni molto ridotte, e forse proprio per questo l’impatto è maggiore: un solo colpo d’occhio riesce ad abbracciare i turbini di gesso e i vortici di colore che l’ammantano. Ma c’è una seconda sorpresa. Dopo l’ebbrezza frastornante del primo sguardo, se si guarda più da vicino l’angelico labirinto, si scopre un genuino pressapochismo. Stucchi sbozzati, affreschi dirozzati, ampie zone rovinate… come hanno potuto forme tanto fragili farci provare una vertigine di armonia? Certamente «l’insieme è superiore alle parti», come ama dire papa Francesco, perché la complessità non si lascia ridurre alla mera somma delle parti. L’assioma vale per ogni organismo vivente, anche se forse non per i meccanismi che, se perfettamente riassemblati, ripristinano interamente le proprie attività.
Ma dove si colloca l’opera artistica? Organismo o meccanismo? La domanda non è retorica, se per decenni il campo della critica letteraria è stato dominato dagli studi dei formalisti russi e poi dello strutturalismo francese, presentati come metodi par excellence per approcciare il testo romanzesco. Il divorzio tra livello semantico e livello semiologico portò ben presto ad assolutizzare proprio le parti, riducendo i personaggi a funzioni e l’intreccio a schemi narrativi perfettamente catalogabili, fino a ridurre intere tradizioni folkloristiche a semplici equazioni. Solo pochi anni fa, un ex esponente di punta di questa scuola, Tzvetan Todorov, giunse a riconoscere posizioni opposte a quelle professate per un’intera vita accademica:
«Essendo oggetto delle letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano»
(La letteratura in pericolo, 2008).
Qualcosa di simile è accaduto anche nel campo degli studi biblici con l’adozione del metodo storico-critico, un’impostazione inizialmente rivoluzionaria poiché riconduceva le parole senza tempo e senza luogo del sacro ai contesti circoscritti e storicizzati di popoli e culture. Anche in questo caso, però, il metodo portò all’assolutizzazione delle parti. La complessità e la contradditorietà delle narrazioni venne minuziosamente frammentata in sezioni sempre più piccole, ognuna attribuibile a una diversa scuola autoriale o una diversa influenza. Si passò dal mito di un autore unico (Mosè ha scritto il Pentateuco) al mito opposto di una schiera innumerabile e senza volto di autori. Alla fine la pagina biblica si ridusse a un cumulo di puzzle che non combaciavano più l’un l’altro.
Quando la dissezione del testo letterario – laico o sacro che sia – diventa fine a se stessa, si corre il rischio di trovarsi davanti non tanto un meccanismo da riassemblare, quanto un cadavere. Ineludibilmente morto. «Ci avete detto così tanto sulla struttura dell’organismo umano, ma neanche una parola sull’anima», dice l’assistente di Faust al suo maestro, in apertura all’omonimo film di Aleksandr Sokurov (2011). Faust, intento a effettuare un’autopsia e a rovistare tra interiora annerite come un aruspice frustrato, gli risponde seccatamente: «Quella non l’ho trovata. E dove mai si potrebbe cercare l’anima? Dove cercare l’anima e la vita? Qui ci sono solo rifiuti». E come potrebbe essere diversamente? La vita è relazione e nella relazione tra le parti. Anatomizzare il mistero è la strada più sicura per restarne esclusi.
Come il corpo vivente, anche l’organismo-arte sfugge risolutamente a essere ridotto a somma delle parti, perché non sopporta la sottrazione della relazionalità. Certo, “smontare” l’opera d’arte può essere un passaggio necessario per studiarla e comprenderla, ma occorre non dimenticare che l’opera d’arte non nasce per essere studiata o compresa. Il romanzo non viene scritto per i critici, né la Bibbia per assirologi e archeologi, ma entrambi per entrare in relazione con la vita di chi si lascia incontrare dal testo. L’opera d’arte, come Adamo, è plasmata dalla polveri delle contingenze storiche e individuali, eppure vi è insufflata una voce capace di scavalcare quelle stesse contingenze e di giungere mormorante fino al nostro orecchio. In questo incontro scatta la scintilla che accende il fuoco delle parti, e noi stessi entriamo nell’opera come sua chiave, suoi esecutori, parte ultima ma necessaria di questo complesso, vitale insieme.
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