[Report] Officina di aprile 2025

Nell’ambito dello sviluppo del tema annuale, “Cercare l’invisibile”, il binomio costituito dal dentro e dal fuori consente di indagare differenti tipologie di invisibilità, in dialogo tra loro. Se appare di maggior evidenza l’occultamento di “ciò che è dentro” (dentro una scatola, dentro una stanza chiusa, dentro un giardino murato…), più difficile può sembrare l’individuazione di “ciò che è fuori”. Eppure, “il dentro e il fuori” risultano quali elementi in costante dialogo reciproco: se un muro nasconde quel che si colloca al di là dello stesso, tale evidenza assume carattere di verità sia in un senso che nell’altro. Di conseguenza, potremmo dire che come ciò che è dentro risulta invisibile all’esterno, ugualmente ciò che è fuori risulta invisibile all’interno. Ecco dunque che parlare di “dentro e fuori”, diviene una questione di confine: potremmo similmente parlare di “al di là e al di qua”.
Secondo tale prospettiva, può risultare significativo un ulteriore binomio: lo specchio e la finestra. Se il primo consente al soggetto di guardare se stesso, volgendosi dunque all’interno, la seconda permette invece di osservare al di là del confine tra dentro e fuori. Lo specchio ci mostra le cose che sono al di qua, la finestra quelle che sono al di là. Lo specchio è superficie riflettente, la finestra è apertura sulle cose. Entrambi, talvolta, si possono rompere.
Valerio
In quel magnifico “libro di libri” che è La storia infinita di Michael Ende, Bastiano per salvare il regno di Fantasia, ormai divorato dal Nulla, deve ricostruirlo attraverso i propri desideri. Quel che Bastiano racconta diviene reale:
«Io vi regalerò tutte le storie che ho inventate», esclamò Bastiano grandioso, «perché posso sempre inventarne di nuove, quante ne voglio. Molte di queste le ho raccontate a una bambina di nome Lu Ci A, ma la maggior parte le ho narrate solo a me stesso.
Tuttavia per ogni racconto svolto e desiderio espresso, Bastiano smarrisce un ricordo della sua vita precedente, fino a perdere anche il proprio nome e, con esso, il senno. Sembra quasi che “far uscire” le storie dal proprio interno per dar loro concretezza esterna, lo porti per contrasto a perdere parte di sé, di quel che ha dentro.
Un concetto apparentemente simile lo esprime Holden Caulfield nel finale de Il giovane Holden di J.D. Salinger:
Ecco tutto quello che sono disposto a raccontarvi. Probabilmente potrei dirvi quello che feci quando andai a casa, e come mi sono ammalato e via discorrendo, e a che scuola dovrei andare in autunno quando sarò uscito da qui, ma non ne ho voglia. Sono serio. Ora come ora, queste cose non mi interessano molto. (…)
D.B. mi ha domandato che cosa ne pensavo io di tutta questa storia che ho appena finito di raccontarvi. Non ho saputo che accidente dirgli. Se proprio volete saperlo non so che cosa ne penso. Mi dispiace di averla raccontata a tanta gente. Io, suppergiù, so soltanto che sento un po’ la mancanza di tutti quelli di cui ho parlato. Perfino del vecchio Stradlater e del vecchio Ackley, per esempio. Credo di sentire la mancanza perfino di quel maledetto Maurice. È buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.
Il rischio di disvelare ciò che si trova al nostro interno, sembrano dirci Ende e Salinger, è quello di smarrirlo, di non custodirlo nella sfera della propria intimità. Ma ciò apre a questioni di difficile soluzione circa quel che è veramente la nostra identità: siamo quel che custodiamo dentro o quel che raccontiamo fuori?
Anche ciò che è fuori, dicevamo, può essere occultato e svelato al momento giusto. Di questa tecnica è maestra l’arte cinematografica, con il concetto di fuori quadro, ossia tutto quel che avviene all’esterno dell’inquadratura della macchina da presa.
In questa scena, tratta dal film Gli intoccabili di Brian De Palma, la telecamera assume il punto di vista di un malfattore che si introduce nella casa di Malone. In questo caso, lo spettatore non può guardare il personaggio di cui assume il punto di vista e parimenti gli è preclusa ogni informazione ignorata dal personaggio stesso: vediamo quel che lui vede e nulla più. Tutto il resto accade al di fuori dell’inquadratura.
In quest’altra scena, invece, lo spettatore ha meno informazioni di quelle che sono note ai personaggi presenti. Quando, in C’era una volta il West, Cheyenne entra nel saloon, tutti i presenti si ammutoliscono e lo seguono con lo sguardo. Lo spettatore non comprende inizialmente il motivo di tanta diffidenza e tensione, finché Leone non decide di includere nell’inquadratura un dettaglio essenziale: i polsi di Cheyenne sono inibiti da un paio di manette. Il confine dell’inquadratura delimita la nostra comprensione della scena; se inizialmente vediamo un uomo che entra in un saloon senza poterci spiegare l’atmosfera tesa intorno a lui, il dettaglio delle manette ai polsi cambia radicalmente la nostra prospettiva.
E, a proposito di manette, potremmo dire che nessun luogo sintetizza meglio il concetto di dentro/fuori e dei due relativi ordini di invisibilità come il carcere. Chi abita il carcere viene escluso dal vivere sociale, obliato e reso invisibile: è contemporaneamente “dentro” delle mura e “fuori” dalla società circostante.
Lo sintetizza bene Ellis Boyd “Red” Redding, il personaggio interpretato da Morgan Freeman nel film Le ali della libertà: egli dentro al carcere è “quello che procura le cose”, ha un ruolo riconosciuto e stimato, ma fuori quegli oggetti si possono trovare in qualsiasi negozio, rendendolo sostanzialmente inutile. Di altro avviso è Andy Dufresne (Tim Robbins), convinto che esista un nucleo intoccabile dentro gli esseri umani, capace di accompagnarli e definirli.
Ritorna dunque il tema dell’identità, affrontato anche in una celebre poesia di Raymond Carver, Chiudersi fuori e poi cercare di rientrare.
Si esce e si chiude la porta / senza pensarci. E quando ci si volta / a vedere quel che si è combinato / è troppo tardi. Se vi sembra / la storia di una vita, d’accordo. / Pioveva. I vicini che avevano la copia / della chiave erano via. Ho provato e riprovato / le finestre del pianterreno. Fissavo / il divano, le piante, il tavolo e le sedie / lo stereo all’interno. / La mia tazza di caffè e il posacenere mi aspettavano / sul tavolo col piano di cristallo e il mio cuore / era con loro. Li ho salutati: Salve, amici!, / qualcosa del genere. Dopotutto / non era un grosso guaio. (…)
Ed era proprio forte guardare dentro così, senza esser visto, / dal balcone. Essere lì, dentro, eppure non esserci. / Non credo neanche di poterne parlare. / Ho accostato la faccia al vetro / e mi sono immaginato là dentro, / seduto alla scrivania. Che alzo lo sguardo / dal mio lavoro ogni tanto.
Talvolta l’unico modo per guardarsi dentro è osservarsi da fuori.
Valeria
Qual è la relazione fra il dentro e il fuori? I due aspetti tendono spesso ad essere l’uno lo specchio dell’altro, a mantenere una continuità.
Il film Porco Rosso, dello studio Ghibli, è ambientato negli anni dopo la Prima guerra mondiale in un’Italia già Fascista. Marco, il nostro protagonista, è un aviatore, ha combattuto nella guerra ed è stato trasformato in maiale. Il film non ci rivela mai in modo inequivocabile perché, quando o come questa trasformazione sia accaduta, ma nella durata del film si può arrivare a una conclusione: Marco è un porco perché questa è la sua visione di sé. Si sente in colpa per essere sopravvissuto, quando persone migliori di lui sono morte; si sente un codardo per aver lasciato i suoi compagni nella aviazione militare Italiana. Vede il mondo intorno a sé in una forte chiave cinica, cosa che non è altro che il riflesso del forte giudizio che prova nei confronti di sé stesso.
In breve, il suo interno si riflette perfettamente nel suo esterno, ed è questo a causare il suo mutamento. Marco non soffre per il proprio aspetto, ma piuttosto per i sensi di colpa e la vergogna che si porta dietro. Solo quando riuscirà a liberarsene potrà tornare allora umano.
Ma cosa avviene quando il nostro esterno non ha alcun rapporto con il nostro interno?
In modo esemplare, questo è quello che accade nella Metamorfosi di Kafka. Gregor viene trasformato in un gigantesco scarafaggio e tutta la sua vita cambia. Suo padre si rigira subito contro di lui, sua madre non sopporta neanche di guardarlo, solo sua sorella si prende cura di lui ma anche lei finirà per voltargli le spalle. Gregor per quel che può, cerca di comunicare con loro, ma per via della sua nuova forma finisce per essere costantemente frainteso. Lui stesso cambia, adattandosi al nuovo corpo e ai nuovi istinti, ma senza mai entrarci veramente in comunione, finendo invece per alienarsi sempre più dall’esterno.
Mariavittoria
L’intervento è stato aperto con due clip video tratti rispettivamente da Harry Potter e l’Ordine della Fenice e Harry Potter e i doni della morte. Parte 2.
Il primo ritrae il professor Piton che cerca di insegnare ad Harry le tecniche di Occlumanzia, per far in modo che Voldemort non riesca ad entrare nella sua testa. Dopo vari tentativi, Potter riesce a contrastarlo e ad entrare nei ricordi del professore svelando così, per la prima volta, dei momenti di debolezza dietro quella maschera severa e impenetrabile.
Il secondo video invece è la morte di Piton e il momento in cui chiede ad Harry di raccogliere le sue lacrime e portarle al pensatoio nello studio di Silente dove può vedere i ricordi che gli vuole lasciare. Con questo gesto dà ad Harry un libero accesso alla realtà e alla verità che ha celato in tutti quegli anni.
I ricordi, infatti, sono qualcosa che può esistere solo dentro di noi e che non può vivere in nessun altro luogo. Provare a riviverli o a tramandarli con dei racconti darà loro solo una nuova forma, non una nuova vita.
Il secondo contributo è una pagina dal libro di Neige Sinno, Triste Tigre:
Lui leggeva la mia posta, frugava regolarmente tra le mie cose, controllava i miei vestiti, le mie frequentazioni, le mie uscite, le amiche, le mancette.
Non mi ha mai aiutata a fare i compiti, mai fatto domande sulle lezioni a scuola, non si è mai interessato ai libri che leggevo.
A un compleanno, per i miei dodici o tredici anni, avevo ricevuto in regalo un bel quadernetto con in copertina la scritta Diario in caratteri gotici.
Mi ero detta che poteva essere un bel modo di allenarmi nella scrittura. Ho sempre saputo che scrivere sarebbe stato il fulcro della mia vita. Ho cominciato a farlo, senza pensarci troppo su, senza nemmeno voler annotare chissà che di particolarmente intimo in quel diario. Lo tenevo un po’ nascosto, però, in mezzo a dei libri, in modo che il resto della famiglia non lo vedesse. Non lo consideravo un segreto, quel quaderno, soltanto uno spazio mio. Dopo qualche settimana lui mi ha mandata a chiamare. Mi ha fatto capire che leggeva ogni frase, fin dall’inizio, e che quella storia del diario un giorno o l’altro poteva diventare rischiosa per lui.
Mi ha anche fatto capire che gli piaceva poter entrare ancora di più nella mia testa grazie alla lettura di quelle pagine. Potevo continuare ma dovevo promettere di non parlare di noi.
Il giorno dopo ho bruciato il quaderno nella stufa. Non era più inverno e non ci accendevamo più il fuoco, ma l’ho usata comunque come contenitore per lasciare che la carta si consumasse tra le fiamme. Ricordo di aver compiuto quei gesti quasi fossero un rituale. Ho detto addio al diario, non solo a quei pezzetti di carta ma al concetto stesso di diario, quel giorno e per il resto dei miei giorni.
Non potevo permettermi di costruire con le mie mani un oggetto che mi rendeva così facilmente accessibile, che mi metteva ancora di più alla mercé di una qualunque mente decisa a controllarmi o a nuocermi.
Amico lettore, amica lettrice, mia simile, sorella mia, ecco una confessione che sento di dover fare, poiché non desidero in alcun modo portarvi fuori strada: state attenti alle mie affermazioni, si presenteranno sempre mascherate. Non prendete questo testo nel suo insieme per una confessione. Qui non c’è nessun diario, nessuna sincerità possibile, nemmeno nessuna bugia. Il mio spazio, quello davvero mio, non è in queste righe, esiste solo dentro.
Il libro di Sinno racconta degli abusi subiti dalla stessa scrittrice dal suo patrigno. Questa pagina evidenzia come allo stupratore non basti possedere il corpo della ragazza, ma necessiti di più, di entrare nella sua testa. Non è infatti la paura, quella che prima o poi possa leggere in quelle pagine la confessione di quello che succede di notte tra lui e Neige, a guidarlo ma una vera e propria sete di controllo. La protagonista non può permettere che le venga tolto altro spazio e quindi decide di bruciare quel diario che minaccia di essere un’altra breccia dove il suo aguzzino può insinuarsi. Anche questo ricordo, come si legge in fondo al testo, esiste solo nell’intimo dell’autrice. Le parole sono solo un tramite verso il mondo esterno.
Per concludere, una poesia di Patrizia Cavalli del 1981 dalla raccolta Il cielo:
Fuori in realtà non c’era cambiamento,
è il morbo stagionato che mi sottrae alle strade:
dentro di me è cresciuto e mi ha corrotto gli occhi
e tutti gli altri sensi: e il mondo arriva
come una citazione.
Tutto è accaduto ormai, ma io dov’ero?
Quando è avvenuta la grande distrazione?
Dove si è slegato il filo, dove si è aperto
il crepaccio, qual è il lago
che ha perso le sue acque
e mutando il paesaggio
mi scombina la strada?
Qui il ricordo percorre un periodo di convalescenza, di malattia. La vita continua a passare anche se siamo impossibilitati a poterla vivere attivamente e la vediamo scorrere nelle parole e nei racconti degli altri.
Cecilia

Le opere di Munch sono l’emblema del conflitto tra mondo interiore ed esteriore. Non solo il famosissimo Urlo, ma anche dipinti come Disperazione o Morte nella stanza della malata rappresentano figure solitarie, immerse nei propri pensieri e nel proprio dolore, incapaci di entrare in comunicazione con altri esseri umani distanti solo pochi centimetri di tela.

Profonde linee di demarcazione le separano dagli altri e dal paesaggio e il colore è steso in campiture piatte e dai confini precisi. Sebbene Munch sia stato uno dei primi a rendere visibile il tormento interiore proprio e dei soggetti nei suoi quadri, a dare forma all’invisibile, il pittore di Oslo sembra anche cogliere il pericolo insito nel focalizzare tutta la propria attenzione sul proprio mondo psicologico: è il rischio di non riuscire a comprendere l’interiorità altrui e di disinteressarsi dell’altro, come avviene agli indifferenti passanti che attraversano il ponte in Bambina in procinto di affogare, nonché di deformare il mondo guardandolo attraverso la lente della propria angoscia.
Nella seconda parte della sua vita, dopo il ricovero di qualche mese in una clinica psichiatrica, Munch decide di ritirarsi in campagna e di concentrarsi sull’ascolto e la rappresentazione della natura, quell’esterno che è dotato, a suo avviso, di anima, di uno spirito.

Qualche anno più tardi anche un astrattismo personalissimo come quello di Kandinskij diventerà pretesto per rappresentare la vita invisibile che invade la natura e si cela davanti ai nostri occhi: le esistenze microscopiche e unicellulari. L’artista inizia così la fase dell’astrattismo biomorfo.
Chi è capace di ascoltare e ascoltarsi davvero non si lascia ingannare dalle apparenze ed è in grado di uscire da se stesso. Così non comprende solo la propria interiorità ma anche quella altrui, la complessita degli esseri più piccoli e fragili, proprio come succede all’elefante Ortone nel film d’animazione Ortone e il mondo dei Chi quando scopre la città di ChiNonSo, nascosta dentro un granello di polvere su un fiore e ignara della realtà dell’universo che la circonda.
E d’altronde il confine tra quello che è dentro e quello che è fuori di noi si fa sempre più labile se pensiamo, come sembra suggerire Checov nel racconto Il monaco nero, che l’immaginazione dell’essere umano, anche quando prende il sopravvento e assume i caratteri di pazzia come succederà al protagonista Kovrin, non è che parte della natura.
Quando le ombre della sera cominciarono a calare sul giardino, si sentirono indistinti i suoni di un violino, le voci che cantavano, e questo gli fece venire in mente il monaco nero. Dove, in che paese o su quale pianeta gira in questo momento questa insensatezza ottica?
Si era appena ricordato della leggenda, disegnato mentalmente quella scura visione che aveva visto nel campo di segale, quando da dietro un pino proprio di fronte uscì silenzioso, senza il minimo fruscio, un uomo di media statura con la testa canuta scoperta, tutto vestito di scuro e a piedi nudi che sembrava un mendicante, e sulla sua faccia pallida come un morto risaltavano marcate le sopracciglia nere.
Facendo un cenno di saluto con la testa, questo mendicante o viandante si avvicinò alla panchina senza fare rumore e vi si sedette, e Kovrin riconobbe in lui il monaco nero. Per un minuto tutti e due si osservarono: Kovrin con stupore, il monaco con tenerezza e, come allora, un po’ giocoso, con un’aria furba.
«Devi essere un miraggio» disse Kovrin. «Perché poi te ne stai qui fermo seduto? La leggenda è diversa.»
«È lo stesso» rispose il monaco non sùbito, piano, girando la faccia verso di lui. «La leggenda, il miraggio e io, tutto questo è un prodotto della tua immaginazione eccitata. Sono un fantasma.»
«Quindi, non esisti?» chiese Kovrin.
«Pensala come ti pare» rispose il monaco e fece un lieve sorriso. «Esisto nella tua immaginazione, e la tua immaginazione fa parte della natura, quindi esisto anche in natura.»
Come lascia intuire il finale del racconto, la negazione della realtà interiore ha effetti devastanti sulla natura — rappresentata in questi casi dal giardino e dallo stesso fisico del protagonista — tanto quanto la totale perdita di cognizione della realtà esterna a causa della fantasia.
In Cent’anni di solitudine la matriarca Ursula si accorge di poter “vedere” davvero l’animo dei propri figli una volta che, ormai vecchia, ha perso la vista. Singolarmente, però, arriva alla conclusione che i membri della sua famiglia si fossero sempre mostrati proprio per ciò che erano e solo la concentrazione di Ursula sui propri affari e la sua pretesa di riuscire a guardare “oltre” o “dentro” l’avevano sempre tratta in inganno.
Tuttavia, nella impenetrabile solitudine della decrepitezza dispose di una tale chiaroveggenza per esaminare perfino i più insignificanti avvenimenti della famiglia, che per la prima volta vide con chiarezza le verità che le sue occupazioni di altri tempi le avevano impedito di Vedere. […] era già riuscita a fare una ricapitolazione infinitesimale della vita domestica a partire dalla fondazione di Macondo, e cambiare radicalmente l’opinione che aveva sempre avuto dei suoi discendenti. Si rese conto che il colonnello Aureliano Buendía non aveva perso il suo affetto per la famiglia a causa della durezza della guerra, come lei credeva, ma che in realtà egli non aveva mai voluto bene a nessuno, nemmeno a sua moglie Remedios o alle innumerevoli donne di una notte che erano passate per la sua vita, e tanto meno ai suoi figli. Intuí che egli non aveva fatto tante guerre per idealismo, come tutti credevano, né aveva rinunciato per stanchezza alla vittoria imminente, come tutti credevano, ma che aveva vinto e perso per lo stesso motivo, per pura e peccaminosa superbia. Arrivò alla conclusione che quel figlio, per il quale lei avrebbe dato la vita, era semplicemente un uomo interdetto all’amore. […] Quella svalorizzazione dell’immagine del figlio le suscitò di colpo tutta la compassione di cui gli era debitrice. Amaranta, invece, la cui durezza di cuore la spaventava, la cui concentrata amarezza la amareggiava, le si rivelò in ultima analisi come la donna più tenera che fosse mai esistita, e comprese con una compassionevole chiaroveggenza che gli ingiusti tormenti ai quali aveva sottoposto Pietro Crespi non erano dettati da una volontà di vendetta, come tutti credevano, né il lento martirio col quale aveva frustrato la vita del colonnello Gerineldo Màrquez era stato determinato dal fiele della sua amarezza, come tutti credevano, ma che l’una e l’altra azione erano state una lotta a morte tra un amore smisurato e una codardia invincibile e finalmente aveva trionfato il timore irrazionale che Amaranta aveva avuto sempre per il proprio tormentato cuore.
Spesso non c’è altro modo per guardarci all’interno se non rivolgendo il nostro sguardo fuori, alla natura e alla società. La poetessa iraniana Forugh Farrokhzâd nella poesia Una finestra descrive proprio la sensazione di perdersi oltre questa apertura sul mondo
Una finestra per vedere
una finestra per sentire
una finestra che come bocca di un pozzo
giunga in fondo al cuore della terra.
E si apra lungo questa continua grazia azzurra,
una finestra che nel favore notturno del profumo di nobili stelle
trabocchi di piccole mani della solitudine,
e da lì potremo invitare il sole
all’esilio dei gerani.Mi basta una finestra
Solo la contemplazione della “grazia azzurra”, la certezza della bellezza del mondo e della natura al di fuori di lei, permette alla poetessa di superare la violenza della società che si abbatte sulla sua vita privata e gli affetti.
Quando la mia fede era impiccata alle fragili corde della giustizia
e in tutta la città
facevano a pezzi il cuore dei miei occhi,
quando soffocarono con il fazzoletto nero della legge
gli occhi infantili del mio amare
e dalle tempie pulsanti della mia speranza
sgorgavano fiotti di sangue,
quando la mia vita ormai non era più nulla,
nulla, se non il tic-tac di un orologio,
capii che dovevo amare,
amare, amare follemente.Chiedi allo specchio
il nome che ti salverà,
la terra che freme sotto i tuoi passi
non è più sola di te stessa?
In questo modo la finestra si trasforma in uno specchio e la compassione per il dolore altrui ritrasforma la voce narrante da vittima in salvatrice.