Materiali terrosi

Con i concetti astratti non si fanno storie, lo diceva la grande scrittrice Flannery O’Connor:

«La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella d’affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose».

E quest’abitudine deve mettere radici profonde in tutta la personalità dell’artista. Certi scrittori principianti, a giudizio della O’Connor, purtroppo sono consapevoli di problemi, di temi, di tutto quel che sa di sociologia, ma non di persone, dell’ordito dell’esistenza, di quei particolari di vita concreti che dànno realtà «al mistero della nostra posizione sulla terra». La sensibilità e l’acume psicologico sono poveri strumenti per scrivere di narrativa. È la materia e la concretezza della vita che danno realtà al mistero del nostro essere nel mondo. Di questo si alimenta la narrativa migliore. Scrivere è una «sfacchinata».

I materiali di cui è fatto un racconto o un romanzo possono essere i più «terrosi» e polverosi, i più umili: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa». Da qui un prezioso avvertimento: non è possibile suscitare l’emozione con testi infarciti di emozione o i pensieri facendo fuoriuscire incontenibile il pensiero da ogni angolo del racconto: a queste cose «bisogna dar corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore» : scrivere narrativa (e così anche vivere) non è questione di dire cose, ma di farle vedere, di mostrarle (e dunque di farle).


Di-vertere

Turismo, curiosità, ricerca, distensione… si può intendere e vivere la vacanza in molti modi… Tra i vari modi di far vacanza c’è quello del “giramondo”. Il giramondo vive interiormente sempre una situazione di ricerca, di nostalgia, di richiamo o di nomadismo, di esilio o di speranza in una “terra promessa”. Col turismo di massa questa figura assume una tonalità nostalgica. Il viaggio, diventato “turistico” è ormai come “il misurar la cella del detenuto che cammina su e giù dove altri prigionieri altrettanto mobili e ‘liberi’ hanno già lasciato un solco”(Leed). Il viaggiare, che un tempo era una esperienza eccezionale, rara, ora è un fatto di routine.

Il campo semantico del viaggio è mutato rispetto a quello della tradizione. A viaggio oggi si collega “aereo”, “albergo”, “taxi”, “ristorante”… Certo sono indiscutibili i benefici della tecnologia che accorcia le distanze ed unisce il mondo. È tuttavia necessario pensare come questa dimensione di vita, quella esplorativa, rischi di esser persa. E allora? Proviamo a prendere carta e penna e a muoverci, almeno per una volta, come esploratori nel luogo in cui ci troviamo, sia esso un safari avventuroso, un viaggio organizzato a puntino o un andare su e giù per le strade della nostra città. Proviamo a fare i “giramondo” al di là del contesto in cui ci troviamo e poi proviamo a prendere piccole (anche piccolissime) note, impressioni, emozioni… anche atomi, briciole, flash. Sarà un modo per di-vertere (cambiare direzione), divertirci e scoprire una novità persino nel quotidiano più ordinario. Chi vuole potrà farci avere queste piccole note…


Arte come viaggio

“Il problema si deve risolvere e, una volta risolto, scompare. Il mistero invece deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita. Un mistero che possa essere chiarito, risolto con una spiegazione non è mai stato tale (…). Il mistero esige una spiegazione: ma questa avrà il compito di indicare ove risiede il vero enigma.” (Romano Guardini)

La poesia, la creazione, l’arte vera non può che essere mistero, Ma attenzione: mistero non dice incomprensibilità, ma inesauribilità. Questo è il punto. Così come il viaggio. Il viaggio vero ha stazioni di passaggio, di sosta e di approdo, ma non di arresto definitivo. Il viaggio, se è vero, è assoluto. Così l’arte. Se l’arte è vera è un viaggio inesauribile di esplorazione, conoscenza, sforzo, curiosità, dubbio, fiducia… Se l’arte ha descritto e rappresentato il viaggio in parole, immagini e suoni, il viaggio, d’altra parte, è metafora dell’arte, intesa come percorso inesauribile. L’arte non è mai problema né è mai in sé problematica: se lo fosse sarebbe vana. L’arte è “mistero” che “ditta dentro” (detta al “cuore” e ad esso si impone).


Passeggiate di primavera

È primavera. È il tempo giusto per le passeggiate, per fare quel “cammino compiuto per diporto o per esercizio igienico, spesso in compagnia di una o più persone e senza meta fissa; talvolta associato a un’idea di facilità”, come suggerisce il dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli. Da tale definizione cogliamo la tonalità di questa figura di viaggio, una figura “debole”. La passeggiata non richiede grandi decisioni: “– Andiamo?/ Andiamo pure” (Palazzeschi).

Si può anche non stabilire una meta perchè mete non ce ne sono affatto, non se ne trovano, come non si trovano interessi ed il proprio occhio è come quello di un insetto “che s’è smarrito in un campo di cui non conosce i colori di richiamo, e non vi si può fermare, benché lo desideri” (Musil). L’occhio del passeggiante comunque spesso “vede” ma non “guarda”, a meno che non spunti il “bravo” di turno, come accadde al povero don Abbondio, che per una stradicciola “tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno novembre”. Questa debolezza può anche declinarsi però in “leggerezza”: la passeggiata come “pausa” ha un valore ricreativo e dispone l’animo all’arricchimento improvviso o insospettato in un libero e leggero confronto tra l’uomo e la natura o l’ambiente che lo circonda, fino a raggiungere i “fiori lontani” (Erba).


Viaggi e naufragi

Viaggiare significa anche esporsi al rischio di inciamparee, naufragare etc. etc.
Molti sono i naufragi “artistici”: naufraga Tristano sulle coste dell’Irlanda, l’Ulisse di Dante e gli eroi di Ariosto, Robinson Crusoe, protagonisti o derelitti di E. A. Poe, H. Melville e J. Conrad. Già Ch. Baudelaire aveva notato in L’homme et la mer una congenialità tra il mare e l’uomo, homo abyssus, a un tempo tenebrosi e discreti, insondabili entrambi eppure eterni lottatori «senza rimorso né pietà».
La dicibilità del naufragio dice cosà tutto il proprio tormento perché luce ed ombra, situazione-limite, vertice e vortice ad un tempo. Si potrebbe partire da questa semplice riflessione per comprendere come il naufragio, il contatto drammatico dell’uomo con l’acqua e del suo abbandono in essa, ricorrente nelle letterature e nelle civiltà di tutti i tempi, è, nel suo significato simbolico molto ricca. Fra Omero, Lucrezio, Virgilio, fra Dante e i contemporanei, attraverso il Cinquecento, il topos del naufragio ha subito radicali trasformazioni. Gli «irati flutti» del naufragio sono, nella loro interpretazione più evidente, certamente sinonimo di fallimento, di lacerazione, di morte. Il naufrago è colui che ha perso ogni riferimento, che si è allontanato da ciò che ò certo, da ciò che conosce, che soccombe dinanzi alla forza e alla prepotenza di ciò che non può dominare; il naufragio è da intendere come delusione, come mancato approdo, come crisi di valori.
Ma, al contempo, se esiste una realtà al di là delle apparenze, al di là delle dimensioni del tempo e dello spazio, di ciò che è tangibile ed evidente, occorre «naufragare», abbandonarsi alla «corrente» per intuire, per sentire ciò che esiste «oltre». Ecco la «dolcezza» del naufragio leopardiano che, considerato in questo significato diviene simbolo di un’esperienza mistica. Ecco anche, in altro modo, lo «sregolamento di tutti i sensi (dérèglement de tous les sens)» di A. Rimbaud , poi seguito dal «mito» del rock Jim Morrison nelle sue poesie. Il naufragio può persino essere l’equivalente dell’esperienza religiosa che paradossalmente trova Dio nel fondo del peccato e della disperazione.
La metafora del naufragio è pienamente «umana» e dice insieme un pericolo e un desiderio.


Abitare il cammino

È interessante il fatto che, come ha notato Bruce Chatwin, gli aborigeni australiani usano la stessa parola per dire “paese”, “patria” e “strada”, “cammino”. Perfetta coincidenza: essere per via è essere a casa. Così è per i nomadi: il territorio di un nomade è il sentiero che collega i vari pascoli stagionali. I mandriani rivendicano come proprietà le vie ma “in pratica non chiedono altro che il diritto di passaggio su una data striscia di territorio in un periodo fisso dell’anno. Per loro la terra perde ogni interesse non appena le hanno voltato le spalle” (Chatwin). Questo, in parte, è vero anche per il pellegrino: egli “abita” il suo cammino ed è “pellegrino” in quanto e fino a che si trova per via (di andata o di ritorno in questo caso non è decisivo). La meta sta sempre sullo sfondo, ma alla fine si “rivela”. È la meta che con la sua imponenza viene incontro al pellegrino: non si tratta di una “conquista” della meta ma di un dono ricevuto, di una “grazia”. Il vero pellegrinaggio consiste proprio nel lasciarsi raggiungere, “visitare” dalla meta. E il cammino non è neutro, indifferente. È una palestra che permette un continuo esercizio. La solitudine del pellegrino non è isolamento, l’isolamento di chi cerca solo se stesso e di questo si accontenta, ma è un esercizio di fiducia e di contemplazione: “ogni viaggio è una contemplazione in movimento” (M. Yourcenar). Ma il pellegrino ha bisaccia, bagaglio, valigia? È proprio di un pellegrino portare con sè le proprie cose o lasciarle a casa o perdele per strada?

– Abramo porta con sè tutto ciò che ha, ma si lascia guidare nel suo viaggio da un Voce che lo spinge verso dove egli non sa.
– Figure di vagabondi, come quelli descritti da certa poesia new age, lasciano tutto e si avventurano per le strade, ma spesso esaltati come tante “vispa Teresa”
– Viaggiatori come quello descritto da Montale in “Prima del viaggio” preparano tutto a puntino, ma proprio per questo stritolano il loro viaggio all’interno dell’organizzazione. Qui la novità è impossibile o quasi.
– La Ingrid Bergman del film “Stromboli” di Rossellini perde, nella sua ascesa al vulcano, le proprie valigie e così anche le proprie certezze e presunzioni.

Il bagaglio può essere reale ma anche metaforico: tutti si portano dietro un bagaglio di memorie, affetti, conoscenze… Che ne fai del tuo bagaglio? In cosa consiste il tuo bagaglio? Cosa porti *con te*? Cosa porti *di tuo*? Cosa *ti serve* veramente?


Odissea nello spazio

2001 Odissea nello spazio. Non si può iniziare un anno nuovo dedicato al tema del viaggio senza ricordare il capolavoro di Stanley Kubrick. Il film si apre con le immagini di un monolite e di un uomo-scimmia che scopre che un osso può essere usato come arma di offesa. Quattro milioni di anni dopo, nel 2001, un’astronave, guidata dal computer Hal 9000, parte verso Giove con due astronauti e tre scienziati ibernati. Scopo della missione: cercare di spiegare cosa si nasconde dietro un gigantesco monolite nero, scoperto vicino alla base lunare di Clavius. Il computer si ribella e fa morire i tre scienziati. Uno degli astronauti riuscirà a disattivare Hal 9000, ma verrà risucchiato in un’altra dimensione spazio-temporale che lo farà arrivare in una stanza settecentesca dove, vecchissimo, rivede il monolite nero e rinasce sotto forma di feto che galleggia sopra la Terra. Dunque un viaggio nello spazio che si intreccia con un viaggio nel tempo. Non è chiaro (e non c’è intenzione di chiarezza, del resto) dove approdi questo viaggio e a che cosa.

Il film, del resto, non vuol fare un discorso lineare, ma intende parlare direttamente all’inconscio, ha affermato il regista, attraverso le immagini e l’esperienza visiva che esse producono. Mi viene in mente a questo punto, lasciandomi guidare dal suggerimento di Kubrick, un testo che abbiamo letto di recente in BC-Officina. Si tratta di un racconto di Kafka, Il cacciatore Gracco. Egli, morto, non ha raggiunto l’al-di-là, ma vaga, sospeso, tra cielo e terra senza trovare approdo. In questo viaggio troviamo la figura del viaggio che non riesce ad aver meta, il viaggio che ha come sostanza il “perdersi”, quella dimensione dove nostalgia (Ulisse) e speranza (Abramo) cedono il posto allo spaesamento (Gracco).

Credo che Nostalgia, Speranza e Spaesamento siano le coordinate emozionali che inquadrano il nostro vivere, il nostro essere viaggiatori nell’esistenza. Forse narrare o fare arte significa anche toccare almeno una di queste corde…