Odissea nello spazio

2001 Odissea nello spazio. Non si può iniziare un anno nuovo dedicato al tema del viaggio senza ricordare il capolavoro di Stanley Kubrick. Il film si apre con le immagini di un monolite e di un uomo-scimmia che scopre che un osso può essere usato come arma di offesa. Quattro milioni di anni dopo, nel 2001, un’astronave, guidata dal computer Hal 9000, parte verso Giove con due astronauti e tre scienziati ibernati. Scopo della missione: cercare di spiegare cosa si nasconde dietro un gigantesco monolite nero, scoperto vicino alla base lunare di Clavius. Il computer si ribella e fa morire i tre scienziati. Uno degli astronauti riuscirà a disattivare Hal 9000, ma verrà risucchiato in un’altra dimensione spazio-temporale che lo farà arrivare in una stanza settecentesca dove, vecchissimo, rivede il monolite nero e rinasce sotto forma di feto che galleggia sopra la Terra. Dunque un viaggio nello spazio che si intreccia con un viaggio nel tempo. Non è chiaro (e non c’è intenzione di chiarezza, del resto) dove approdi questo viaggio e a che cosa.

Il film, del resto, non vuol fare un discorso lineare, ma intende parlare direttamente all’inconscio, ha affermato il regista, attraverso le immagini e l’esperienza visiva che esse producono. Mi viene in mente a questo punto, lasciandomi guidare dal suggerimento di Kubrick, un testo che abbiamo letto di recente in BC-Officina. Si tratta di un racconto di Kafka, Il cacciatore Gracco. Egli, morto, non ha raggiunto l’al-di-là, ma vaga, sospeso, tra cielo e terra senza trovare approdo. In questo viaggio troviamo la figura del viaggio che non riesce ad aver meta, il viaggio che ha come sostanza il “perdersi”, quella dimensione dove nostalgia (Ulisse) e speranza (Abramo) cedono il posto allo spaesamento (Gracco).

Credo che Nostalgia, Speranza e Spaesamento siano le coordinate emozionali che inquadrano il nostro vivere, il nostro essere viaggiatori nell’esistenza. Forse narrare o fare arte significa anche toccare almeno una di queste corde…


Attraversare un’attesa

Viaggiare sì, ma verso dove? Quale sentimento accompagna il viaggiatore? La speranza o la nostalgia? Il poeta greco K. Kavafis alla fine della sua poesia “Itaca”, allude all’importanza e al significato di “… avere un’Itaca”. Ma che significa esattamente “avere un’Itaca”? Il viaggio ha sempre una meta. Interrogandoci sulla meta del viaggio incontriamo due figure-tipo: Abramo/Enea e Ulisse. Abramo è chiamato ad uscire da Ur dei Caldei per andare in Canaan che è la Terra Promessa: di quella terra egli non sa nulla. Abramo parte per una promessa: non sa nulla del luogo che lo aspetta e proibisce perfino al suo servo di ricondurre suo figlio a quel punto di partenza. Il tempo e lo spazio di Abramo è lineare: sotto il sole c’è la novità sempre imprevedibile pronta a mostrarsi. Così Enea, che fugge da Troia in fiamme per una avventura di cui egli non conosce ancora l’esito nè il luogo di approdo (Roma). Ulisse invece conosce già l’isola che lo attende e che riconquisterà: là c’è la sua casa ed il suo vecchio cane Argo. Il tempo di Ulisse è circolare: egli parte per tornare.

Si viaggia verso Itaca, verso una Canaan o verso Roma?

Chissà… forse la meta non è un luogo preciso. È un orizzonte verso cui si guarda e verso cui si è diretti. Ma non ci si arriva mai e, ogni passo avanti che si fa, più si allontana. Più cresce il desiderio più la mente si allarga. L’unica soluzione è che Itaca ci venga incontro, inaspettatamente.
È la illuminazione, la “rivelazione”. È la sorpresa, lo stupore del trovarsi a casa all’improvviso perché l’approdo ci si è donato, consegnato. A noi resta dunque l’attesa, resta un attraversare l’attesa…

Viaggiare è questo: attraversare l’attesa…


Viaggio: una foresta di simboli

Il TEMA DELL’ANNO di Bombacarta per il 2001 è IL VIAGGIO.
Il “viaggio” è una delle figure più penetranti e pregnanti dell’immaginario collettivo occidentale. La dimensione spazio-temporale della nostra vita viene in esso coinvolta a tal punto che lo si può definire una delle metafore più dense del nostro essere nel mondo. Il viaggio può assumere vari volti: l’avventura, la nostalgia, l’esilio, la missione, il pellegrinaggio, la sequela e, in generale, la ricerca, il volo, il giro del mondo, la passeggiata ,… Più che metafora, lo si potrebbe definire, prendendo in prestito una espressione di Baudelaire, una vera e propria “foresta di simboli”, capace di esprimere in qualsiasi modo la transizione e la trasformazione: la morte (“trapasso”), la vita (“cammino”, “pellegrinaggio”), i momenti della vita sociale (“riti di passaggio”). Come intendere questa dimensione radicale dell’essere umano? Costruiremo qui solo uno dei tanti possibili itinerari alla scoperta del senso del “cammino” dell’uomo.

Ci sono tanti modi di scrivere di viaggio. Forse ciascuno di noi ha scritto almeno una volta un diario di viaggio, ad esempio. Quando ci troviamo in viaggio i nostri occhi divorano il paesaggio e le immagini si imprimono più facilmente nella mente perché sono nuove. Quando ci troviamo in un mondo nuovo siamo maggiormente ricettivi, però nel momento in cui la novità diventa routine, l’ambiente che ci circonda diventa uno sfondo. E’ da quel momento che il luogo di viaggio diviene abitazione, habitat, “home”, “heimat”,… Allora non siamo più “in viaggio”, ma “a casa”. C’è comunque chi trova nel viaggio la propria casa…
Uno scrittore prende coscienza di quello scrive solo dopo che lo ha scritto. Quindi la scrittura è artistica quando il pensiero arriva prima alla penna e poi alla testa. Il “diario di viaggio” in questo senso consiste quindi in un filtro del reale attraverso la coscienza della penna: scrivo qualcosa e capisco meglio l’esperienza che ho fatto mentre la scrivo e dopo averla riletta. Esiste dunque una comprensione del viaggio che si è compiuto che è riservata solo a coloro che ne scrivono, che ne conservano “memoria” scritta. Ma la memoria scritta è spesso “creativa”perché legge la realtà alla luce del tempo e della coscienza. Il viaggio in scrittura diventa dunque percorso interiore, viaggio all’interno del proprio immaginario e della propria interiorità.


Tra arte e amicizia impariamo l’arte dell’amicizia vivendo l’amicizia per l’arte

Officina di BC (2000)Uno dei capisaldi di Bombacarta è il legame arte/vita. Ok. Allora ci si può chiedere: cosa conta *veramente* nella vita? E in questo l’arte che c’entra? Mi sono confrontato anche con scrittori come Lewis, ad esempio (quello del film “Viaggio in Inghilterra”), autore di libri molto noti. Per lui, rispetto a ciò che conta *veramente* anche la cultura e l’arte è spazzatura (stringi stringi). E’ l’unica risposta possibile? No, ovviamente. Ce n’è un’altra, ad esempio. L’arte “conosce” cioè che è veramente importante nella vita. Ma se accettiamo questa definizione, ci sono delle conseguenze chiare. Se consideriamo l’arte come un modo di conoscere la realtà, il mondo, se stessi, Dio (per i credenti)… allora l’atto creativo dell’artista è un’ascesi dell’umiltà non un prometeismo dell’auto-espressione! Cioè – se io, creando, voglio esprimere me stesso, allora l’arte mi chiude stretto stretto in me stesso. Non mi fa conoscere nulla, tranne il mio voler essere me stesso a tutti i costi. E’ una sorta di “inferno” di solitudine e di egotismo che mi fa “morire” in me stesso. – se invece io, creando, mi tengo in ascolto di qualcosa che anch’io non conosco e conoscerò creando, allora sarò assolutamente ricettivo, in ascolto, umile. Sarò in attesa e in accoglienza proprio mentre sarò al culmine della mia attività. La realtà spesso sta nel mezzo, ma credo sia importante distinguere queste due radici: l’arte “sim-bolica” (cioè, etimologicamente, che “unisce”) e l’arte “dia-bolica” (cioè, etimologicamente, che “divide”). Se l’arte è conoscenza significa che bisogna stare in ascolto. Non ipertrofizzare la propria personalità, ma semmai, al contrario, provare a prestare ascolto, a non far troppo chiasso. Come gli antichi pittori russi delle icone. Loro, prima di dipingere facevano digiuni e penitenze. Perché? Perché sentivano il bisogno di mortificare se stessi per poter dare un volto alla Bellezza il meno opaco possibile. L’artista deve avere occhi, orecchie, mani aperte in una tensione che non è iper-tensione ma at-tesa, tensione “ad”, cioè “verso” ciò che sta fuori di lui. L’arte dunque non può esaurirsi nella sola espressione. Se l’arte è apertura, accoglienza, ricettività, allora l’arte è innanzitutto un DONO non un possesso. Non la si può “produrre” (sarebbe solo “tecnica”). Cito un poeta inglese dell’Ottocento, per me straordinario, che è Gerard Manley Hopkins. Scrive in una sua poesia: “there lives the dearest freshness deep down things” (dove “there” è riferito a “nature” che sta nel verso precedente) e cioè: “vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. Questo è il dono dell’arte: cogliere nelle cose, nel reale, nell’uomo, la freschezza che sta nel loro fondo, che è loro intima. E questo è solo un dono. Solo attraverso un dono è possibile cogliere questa sorgività dell’essere. Qualcuno potrebbe dire che la mia è una visione irenica, allegra e pacifica. Anche il dolore, il male ha una sua sorgività, una radice. Allora un pittore terribile come, ad esempio, Bacon (non so se mai avete visto le sue tele), coglie la terribile sorgività del male e la esprime. Alla fine però ti rendi conto che il male è sorgivo per mancanza. Il male è una sorgente a secco e dunque una mancanza di freshness, di “freschezza”, sempre per usare il termine di Hopkins. L’arte è cogliere la freschezza che sta al fondo delle cose, chi la coglie allora ha l’intuizione dell’eternità. E’ una esperienza straordinaria e certamente spiritualmente molto forte. Tra i tanti ce lo insegna, ad esempio, Arthur Rimbaud proprio nella sua “Stagione all’Inferno”, quando scrive: E’ ritrovata! Che? l’eternità. E’ il mare sciolto Nel sole. Anima mia eterna, Osserva il tuo volto benché La notte sia sola E il giorno sia in fiamme E ancora un brano di Pierre Teilhard de Chardin: “Simile a quelle materie traslucide che un raggio racchiusovi dentro può illuminare in blocco, il Mondo appare, per il mistico, come impregnato d’una luce interna che ne intensifica il rilievo, la struttura e le parti profonde” Se ci mettiamo in questa ottica ecco un’altra conseguenza: non esiste più – un “materiale” che sta in basso, volgare, effimero,… – e uno “spirituale” che sta in alto, sublime, eterno… L’arte, se è spiritualmente recettiva e coglie la freschezza e l’eternità (cfr. Hopkins e Rimbaud), opera con la materia (colori, le frequenze dei suoni,…) forgiandola in modo che se ne sprigioni tutta la sua potenza spirituale, tutta la potenza spirituale della Materia, che va captata gelosamente e messa in “opera” appunto nell’opera d’arte.


Un capitale di ricordi

BombaCarta ha ricevuto il primo premio per la produzione video (fascia d’età 19-35 anni) nel concorso “Roma, un capitale di ricordi“, organizzato dal Comune capitolino. Le motivazioni sono state comunicate in due righe:

“Un’impaginazione ricca di spunti ironici. Interessanti il taglio narrativo e l’uso di un linguaggio visivo aggiornato”.

Si tratta di note brevissime che potrebbero essere facilmente dimenticate o non considerate attentamente. Vorrei invece, altrettanto brevemente, riflettere su questa manciata di parole.

1) Innanzitutto si fa riferimento ad una “impaginazione”. Si tratta, ovviamente, del montaggio. Così come in un film, ogni opera ha una architettura propria. Il senso di un’opera spesso è dato sostanzialmente non dai singoli elemneti (colori, parole) ma dal modo in cui sono disposti. Costruire qualcosa nella vita è uno dei modi fondamentali per esprimere significati.

2) Il nostro video, si dice, fa uso dell’ironia in termini positivi e dunque non comuni. Ogni opera d’arte è sempre ironica. “Eiron” in greco indica chi dice meno di ciò che pensa e a questo si contrappone l’ “alazon” e cioè il fanfarone che fa credere di sapere più di quanto non sappia. L’opera d’arte o è ironica o è fanfarona.

3) Il giudizio dice che il video ha “un taglio narrativo” e cioè “racconta” e non solo “registra con distacco”. Scrivere non distacca da se stessi e dalla vita. Al contrario: attacca.

4) L’opera usa un linguaggio aggiornato e cioè sa comunicare e la gente, anche i più giovani, la possono capire e così il messaggio può passare.

L’opera d’arte è sempre linguaggio. Noi non “usiamo” un linguaggio ma “siamo” nel linguaggio: il linguaggio ci precede e si seguirà. Il nostro modo di essere nel mondo è già linguistico sin dalla nostra nascita e il linguaggio organizza il modo di vedere il mondo. Un linguaggio creativo è sempre una novità nel modo di stare al mondo.


Opera necessaria

Quando dipingi, suoni, scrivi… cosa fai?

– Attingi a una situazione particolarissima di vita che in quel momento è solo tua. Cogli la realtà oppure ti apri all’immaginario. Ed allora componi perché devi esprimere con urgenza quello che hai sperimentato: è il tuo modo particolarissimo di interpretare la realtà. La tua opera è “poesia (=creazione)” quando riesci ad esprimere, in una tecnica efficace, la tua particolarissima visione del mondo o dell’immaginazione. Insomma quell’esperienza è tua e solo tua. E tuttavia… accade il “miracolo”… chi vede (o legge) la tua opera può restare colpito, può sentire che tu hai detto “quella cosa lì” che anche lui vive con le parole o i colori o i suoni giusti, come egli non era mai stato in grado di fare fino a quel momento. Può accadere. Allora comprendi che un’opera spesso “colpisce” perché, partendo da un particolarissimo punto di vista, riesce ad avere una risonanza grande, a volte universale e colpire persone che magari hanno esperienze di vita molto lontane.

L’arte mette insieme particolare e universale.

– Sei mosso da una necessità, a volte senti che “devi” scrivere, dipingere, suonare,… Dentro un’opera “vera” c’è sempre una sorta di necessità. Questa necessità fa sì che la tua opera prenda “forma”. È la forma di un’opera (non innanzitutto la materia: inchiostro, marmo,…) che esprime la necessità che hai di crearla. Eppure il mondo dell’arte è quello dell’arbitrarietà, della espressione libera, della mancanza di forme rigide e codificate…

L’arte mette insieme libertà e necessità.

Io amo un’opera d’arte quando – se possiamo scindere forma e contenuto, giusto per intenderci – riesce ad avere un contenuto particolare che riesce a divenire universale (e dunque a “prendermi”) e una forma che, nella sua arbitrarietà e libertà, riesce a esprimere una intrinseca necessità e urgenza.


Obbedienza

Quando ti alzi al mattino e spalanchi la finestra compi un atto preciso di obbedienza. La realtà che ti sta davanti è quella lì: innanzitutto puoi solo riceverla, accoglierla, constatare che c’è ed è lì davanti. Poi puoi chiudere gli occhi e spalancare la finestra della tua immaginazione, ma questo viene dopo. C’è il dolce “fatto bruto” della oggettività del reale che ti sovrasta e che non puoi che ascoltare, udire, anzi, in latino, “ob-audire”… obbedire, “metterti in ascolto verso…”. E questo quando apri la finestra al mattino. Il tuo atto di obbedienza si può trasformare da ascolto in risposta. E così ricevi lo spettacolo che hai davanti, lo dipingi, lo ritrai in poesia, in video,… Ma questo vale anche per le cose brutte del mondo, per il dolore, le lacrime. E questo non avviene solo per il risveglio mattutino. Accade per tutte le vicende della tua vita. Se ti metti in ascolto profondo del tuo mondo, saprai anche trovare le parole, i colori, i suoni… Ma l’importante è che tu non ascolti solo te stesso e le tue reazioni interiori, ma che volga il tuo sguardo fuori di te, alla realtà che ti appare e di cui sei in attesa (“ad-tendere”, tendere verso…). Diceva Karl Rahner che l’uomo è radicalmente un “uditore”, una sorta di parabola tesa verso l’esterno, il cielo, in attesa di captare. Bombacarta vuole avere questa sensibilità e vivere l’arte non solo come una espressione dell’interiore, ma anche un profondo ascolto della realtà, del mondo, della storia… Arte e vita non sono cose separate. Neanche l’utopia è separata dalla vita perché prende il suo avvio dall’ascolto del “qui ed ora” e dalla sua radicale insufficienza.