Le verità attendono in tutte le cose

“Tutte le verità attendono in tutte le cose (All truths wait in all things)”.

Si tratta di un verso tratto da Foglie d’erba di Walt Whitman.
La sua densità è esplosiva.

Le cose non affrettano né ostacolano la manifestazione della loro verità, ma stanno lì, attendono di essere viste, ascoltate, toccate, gustate, annusate, contemplate.
Senza attesa e senza realtà non si fa arte.
L’arte nasce anche dalle fratture tra realtà e verità, come nel caso di Pirandello. E allora si sprigiona la tensione tremenda e possente della realtà in cerca della sua verità o del personaggio in cerca del suo autore o della sua origine. E allora ecco scaturire l’attesa.

Così anche per il testo letterario. Esso sta lì, attende e senza lettore non esiste neppure. Poi arriva il lettore e la verità di quel testo, rimasta in attesa, può manifestarsi in un approccio interpretativo infinito.
Un caso particolare ed esemplare è quello della traduzione. E’ vero che un testo andrebbe sempre letto in originale. Ma l’imprescindibilità di tale lettura in originale è maggiore quanto minore è il suo valore. Infatti il valore di un testo si misura anche dalla resistenza che oppone alle traduzioni, uscendone indenne o quasi. Perché?
Perché la verità che attende in tutte le cose e in tutti i grandi testi è resistente e generosa.


Il sentimento del tempo

L’espressione creativa deve confrontarsi con il tempo, che è una dimensione fondamentale dell’esistenza di ogni uomo. Il tempo non scorre mai senza tensione dell’animo. Esiste sempre un “sentimento del tempo”. Vorrei indicare almeno tre sentimenti fondamentali: la nostalgia, la percezione della presenza e la tensione dell’attesa.

Tutte e tre hanno prodotto capolavori. C’è bisogno di fare esempi? Basti pensare allo sguardo rivolto al passato dall’Odissea alla Recherce di Proust, allo sguardo rivolto al reale da Verga a Flannery O’Connor, allo sguardo slanciato in avanti dai romanzi d’avventura di tutti i tempi ai Promessi Sposi di Manzoni…

Ma non sempre i termini sono chiari.
– Lo sguardo al passato è forse solo il doloroso vagheggiamento di un tempo tramontato o di un luogo perduto?
– Il presente è forse solo la superficie visibile, attuale, ma fuggente ed effimera della vita?
– Il futuro è forse solo una alternativa eccentrica a ciò che è attuale e concreto?

Non ci sono alternative?

Noi pensiamo che lo sguardo al passato sia da intendere come un’apertura verso ciò che sempre ci supera dal basso: le nostre radici, le origini della nostra storia, dei nostri pensieri e della nostra emozionalità, il desiderio originario di senso.

Noi pensiamo che il presente sia la crosta di terra che ci sostiene, ma anche la capacità di percepire la realtà che investe il significato del gesto che compiamo, delle forme che ci riempiono gli occhi.

Noi pensiamo che il futuro sia attesa di una apertura radicale e profonda che si iscrive nella nostra carne quotidiana e di cui abbiamo già, in qualche modo, una anticipazione e un presentimento.

Ecco una sfida per l’espressione creativa: il confronto con il tempo che passa e che resta.


Tre forme di scuole di scrittura

Esistono varie forme di “scuole di scrittura creativa”.

Dal compositionis exemplum della Ratio studiorum dei Gesuiti (fine del XVI secolo) e passando per le storytelling activities delle scuole universitarie di creative writing statunitensi (inizio del XX secolo), si giunge alle formule sperimentate nel nostro Paese a partire dalla fine degli anni ’80.

Quanti “tipi” di scuole esistono in Italia? Schematicamente posso distinguerne almeno tre:

– il primo tipo è quello che definirei “professionalizzante”, funzionale all’apprendimento di tecniche e competenze. Queste scuole sono gestite, in genere, da una istituzione orientata a fornire docenti validi e strutture efficienti. Spesso offrono prospettive di un impiego in ambiti affini a quello della scrittura.

– il secondo tipo è quello che definirei “artigianale”. Queste scuole sono legate all’idea di una bottega dove l’artigiano (in questo caso uno scrittore) condivide la sua esperienza e le sue competenze con apprendisti, realizzando con loro un rapporto individuale. La vera scuola, in questo caso, si identifica con lo scrittore, il quale crea per i suoi apprendisti anche occasioni di incontri con altri artigiani.

– il terzo tipo è quello che definirei “militante” perché centrato su un progetto culturale, su idee condivise e su una forte dimensione comunitaria. In questa tipologia di “scuola” ciò che conta è che l’apprendimento della scrittura (e delle sue tecniche) avvenga sempre all’interno di una “visione” e di una formazione attraverso la scrittura, intesa come esperienza di vita dotata di senso. La “scuola” allora diventa un laboratorio in cui si fa un lavoro di èquipe e in cui le competenze sono diffuse e condivise. La formazione si gioca in una dialettica tra rigore e accoglienza, professionalità e amicizia, esercizio e gioco, fantasia e ascesi.

BombaCarta è nata (il 12 gennaio 1998) e si è sviluppata (in questi cinque anni di attività) come una “scuola” del terzo tipo e fonda tutte le sue attività su un Manifesto condiviso.


Le strade del romanzo

Guardando al futuro, mi sembra di riconoscere più bivi che autostrade. Enumero brevemente possibilità e rischi per il romanzo. Su questi incroci e sulle scelte di percorso, a mio parere, si gioca oggi la partita del romanzo e del racconto:

– La possibilità di valorizzare l’immaginario come luogo di simboli e metafore della vita e il rischio di costruire un catalogo di fantasie futili e gratuite e di storie da raccontare all’infinito.

– La possibilità di recuperare il valore specifico dello scrivere e il rischio di rendere la scrittura subalterna ad altri linguaggi e modelli.

– La possibilità di “inventare” (= dal latino “invenio”, trovare) la realtà e il rischio di appiattirsi sulla cronaca.

– La possibilità di costruire strumenti ottici per guardare in direzione del reale e il rischio di perdere la dimensione dell’interpretazione per carenza di modelli.

– La possibilità di essere ancorato alla vita, alla storia, all’esperienza “umana” e il rischio di perdere il legame fisico con l’esperienza e acquistare quello con la manipolazione.

– La possibilità di recuperare il senso della soggettività narrante e il rischio di perdere il valore e il senso dell’ “autore” come soggetto.

– La possibilità di valorizzare, al di là di folklorismi, in maniera “divergente” le tradizioni culturali del nostro paese e il rischio dell’assoluta omologazione a modelli ed etichette.


La presenza del reale

Per uno scrittore ci sono almeno tre possibili modi (che qui estremizzo) di porsi davanti alla realtà.

La prima: egli parte dal reale per per poi arricchirlo talmente di connotazioni che la sua scrittura diventa una trasfigurazione fantastica, onirica, visionaria. In una parola: “surreale”.

La seconda: egli parte dal reale per poi soffermarsi talmente sul suo personale ed intimo rapporto con esso che la sua scrittura diventa psicologica, passionale, interiore. In una parola: “sentimentale”.

La terza: egli parte dal reale per poi provare a comprenderlo, a ingabbiarlo in una forma, a difendersi da esso che la sua scrittura diventa razionale, refertuale, osservativa. In una parola: “tecnica”.

Tutte e tre le possibilità hanno generato grandissima letteratura.
Ma esiste un’altra possibilità.

È possibile che lo scrittore faccia esplodere sulla pagina il significato della realtà stessa, facendola rimanere quella che è, senza che sia necessario una trasformazione in altro, cioè senza evadere verso l’esterno (tecnica) né verso l’interno (sentimentalità) né verso i bordi (surrealtà).

La letteratura a cui alludo è quella della “presenza reale” della realtà stessa nella parola. La letteratura, se vuol essere se stessa, comunque non può divemtare mai mero strumento di controllo (potere) o fuga (alienazione interiore o fantastica, che sono poi la stessa cosa), ma luogo di immersione, di esplorazione, di contemplazione. Perfino dell’Assoluto, che mai si identifica con l’Astratto.


La coscienza e la realtà

O la coscienza o la realtà. Bisogna scegliere. Chi fa espressione creativa ha davanti due strade: la strada della coscienza e dei suoi stati e quella della realtà e delle sue cose.

La prima conduce a panorami interiori, a visioni che bucano ciò che la vista propone, a deragliamenti dei sensi e paradisi artificiali, a un disagio del reale e ad un’ansia di assoluto, accompagnata a volte dalla percezione di un limite innaturale che la vita comporta.

La seconda conduce a panorami e paradisi terrestri, a gioiosi o dolorosi adeguamenti alla realtà del mondo, a una umiltà che permette di accogliere ciò che cade sotto i sensi, a una percezione del mondo come creato buono, a volte accompagnata dalla percezione della durezza e della resistenza che le cose oppongono all’uomo e che egli lima e addomestica col suo lavoro. Ma queste due strade, quella della coscienza e quella della realtà, non sono mai scisse: scorrono parallele e costituiscono insieme un binario. Senza il reale la coscienza è vuota e se essa lo rifugge si trova solo davanti al nulla, pur essendo alla ricerca dell’assoluto. Senza la coscienza la realtà è un fatto bruto, una superficie fredda che si impone come cosa anonima e muta.

L’arte, secondo BombaCarta, vive dunque di coscienza e di realtà: la coscienza accoglie e legge il reale attraverso l’espressione della propria creatività; la realtà apre la coscienza con la sua concretezza, fino anche alla meraviglia o al terrore.


Svolta di respiro

“Atemwende” è il titolo di una raccolta del poeta di origine rumena Paul Celan. In italiano questo titolo è tradotto con l’espressione “Svolta di respiro”. Quale il senso di questo titolo?

Il poeta assume, “inspira”, la realtà che gli sta intorno, la elabora per mezzo dell’arte e la restituisce, la “espira” come poesia. Nella sua semplicità, questo flusso d’aria rende perfettamente il senso della poesia nel suo rapporto con la vita. Il poeta, infatti, non può che respirare la propria aria, quella che lo circonda e i suoi polmoni la elaborano per espirarla in forma poetica. La poesia insomma è “respiro”. Ma se l’aria intorno alla realtà si fa irrespirabile? Se l’aria si fa densa di polvere? Cosa accade al poeta? Smetterà di restituire poesia? Il suo respiro non potrà che diventare rantolo e sarà sufficiente appena per un grido, incapace di dire il reale e appena utile a denunciarne l’indicibilità. La situazione critica sembra condurre la poesia sull’orlo di se stessa, come scrive Celan in un suo saggio: l’unica cosa che si salva è la parola, ma essa deve attraversare “le proprie impossibilità di rispondere, la propria tendenza ad ammutolire”.

Ecco il punto: la poesia non ha la natura di un “pauroso ammutolire”. Non è “qualcosa che toglie […] il respiro”, nè tende a diventare “respiro di pietra” (“Steinatem”). Per Celan la parola può attraversare “mille tenebre” ma alla fine la capacità di parola si salva dal mutismo, dall’afasia sempre incombente. Resta dunque l’attesa, la speranza, la prospettiva di una salvezza della parola.