Passeggiate di primavera

È primavera. È il tempo giusto per le passeggiate, per fare quel “cammino compiuto per diporto o per esercizio igienico, spesso in compagnia di una o più persone e senza meta fissa; talvolta associato a un’idea di facilità”, come suggerisce il dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli. Da tale definizione cogliamo la tonalità di questa figura di viaggio, una figura “debole”. La passeggiata non richiede grandi decisioni: “– Andiamo?/ Andiamo pure” (Palazzeschi).

Si può anche non stabilire una meta perchè mete non ce ne sono affatto, non se ne trovano, come non si trovano interessi ed il proprio occhio è come quello di un insetto “che s’è smarrito in un campo di cui non conosce i colori di richiamo, e non vi si può fermare, benché lo desideri” (Musil). L’occhio del passeggiante comunque spesso “vede” ma non “guarda”, a meno che non spunti il “bravo” di turno, come accadde al povero don Abbondio, che per una stradicciola “tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno novembre”. Questa debolezza può anche declinarsi però in “leggerezza”: la passeggiata come “pausa” ha un valore ricreativo e dispone l’animo all’arricchimento improvviso o insospettato in un libero e leggero confronto tra l’uomo e la natura o l’ambiente che lo circonda, fino a raggiungere i “fiori lontani” (Erba).


Viaggi e naufragi

Viaggiare significa anche esporsi al rischio di inciamparee, naufragare etc. etc.
Molti sono i naufragi “artistici”: naufraga Tristano sulle coste dell’Irlanda, l’Ulisse di Dante e gli eroi di Ariosto, Robinson Crusoe, protagonisti o derelitti di E. A. Poe, H. Melville e J. Conrad. Già Ch. Baudelaire aveva notato in L’homme et la mer una congenialità tra il mare e l’uomo, homo abyssus, a un tempo tenebrosi e discreti, insondabili entrambi eppure eterni lottatori «senza rimorso né pietà».
La dicibilità del naufragio dice cosà tutto il proprio tormento perché luce ed ombra, situazione-limite, vertice e vortice ad un tempo. Si potrebbe partire da questa semplice riflessione per comprendere come il naufragio, il contatto drammatico dell’uomo con l’acqua e del suo abbandono in essa, ricorrente nelle letterature e nelle civiltà di tutti i tempi, è, nel suo significato simbolico molto ricca. Fra Omero, Lucrezio, Virgilio, fra Dante e i contemporanei, attraverso il Cinquecento, il topos del naufragio ha subito radicali trasformazioni. Gli «irati flutti» del naufragio sono, nella loro interpretazione più evidente, certamente sinonimo di fallimento, di lacerazione, di morte. Il naufrago è colui che ha perso ogni riferimento, che si è allontanato da ciò che ò certo, da ciò che conosce, che soccombe dinanzi alla forza e alla prepotenza di ciò che non può dominare; il naufragio è da intendere come delusione, come mancato approdo, come crisi di valori.
Ma, al contempo, se esiste una realtà al di là delle apparenze, al di là delle dimensioni del tempo e dello spazio, di ciò che è tangibile ed evidente, occorre «naufragare», abbandonarsi alla «corrente» per intuire, per sentire ciò che esiste «oltre». Ecco la «dolcezza» del naufragio leopardiano che, considerato in questo significato diviene simbolo di un’esperienza mistica. Ecco anche, in altro modo, lo «sregolamento di tutti i sensi (dérèglement de tous les sens)» di A. Rimbaud , poi seguito dal «mito» del rock Jim Morrison nelle sue poesie. Il naufragio può persino essere l’equivalente dell’esperienza religiosa che paradossalmente trova Dio nel fondo del peccato e della disperazione.
La metafora del naufragio è pienamente «umana» e dice insieme un pericolo e un desiderio.


Abitare il cammino

È interessante il fatto che, come ha notato Bruce Chatwin, gli aborigeni australiani usano la stessa parola per dire “paese”, “patria” e “strada”, “cammino”. Perfetta coincidenza: essere per via è essere a casa. Così è per i nomadi: il territorio di un nomade è il sentiero che collega i vari pascoli stagionali. I mandriani rivendicano come proprietà le vie ma “in pratica non chiedono altro che il diritto di passaggio su una data striscia di territorio in un periodo fisso dell’anno. Per loro la terra perde ogni interesse non appena le hanno voltato le spalle” (Chatwin). Questo, in parte, è vero anche per il pellegrino: egli “abita” il suo cammino ed è “pellegrino” in quanto e fino a che si trova per via (di andata o di ritorno in questo caso non è decisivo). La meta sta sempre sullo sfondo, ma alla fine si “rivela”. È la meta che con la sua imponenza viene incontro al pellegrino: non si tratta di una “conquista” della meta ma di un dono ricevuto, di una “grazia”. Il vero pellegrinaggio consiste proprio nel lasciarsi raggiungere, “visitare” dalla meta. E il cammino non è neutro, indifferente. È una palestra che permette un continuo esercizio. La solitudine del pellegrino non è isolamento, l’isolamento di chi cerca solo se stesso e di questo si accontenta, ma è un esercizio di fiducia e di contemplazione: “ogni viaggio è una contemplazione in movimento” (M. Yourcenar). Ma il pellegrino ha bisaccia, bagaglio, valigia? È proprio di un pellegrino portare con sè le proprie cose o lasciarle a casa o perdele per strada?

– Abramo porta con sè tutto ciò che ha, ma si lascia guidare nel suo viaggio da un Voce che lo spinge verso dove egli non sa.
– Figure di vagabondi, come quelli descritti da certa poesia new age, lasciano tutto e si avventurano per le strade, ma spesso esaltati come tante “vispa Teresa”
– Viaggiatori come quello descritto da Montale in “Prima del viaggio” preparano tutto a puntino, ma proprio per questo stritolano il loro viaggio all’interno dell’organizzazione. Qui la novità è impossibile o quasi.
– La Ingrid Bergman del film “Stromboli” di Rossellini perde, nella sua ascesa al vulcano, le proprie valigie e così anche le proprie certezze e presunzioni.

Il bagaglio può essere reale ma anche metaforico: tutti si portano dietro un bagaglio di memorie, affetti, conoscenze… Che ne fai del tuo bagaglio? In cosa consiste il tuo bagaglio? Cosa porti *con te*? Cosa porti *di tuo*? Cosa *ti serve* veramente?


Odissea nello spazio

2001 Odissea nello spazio. Non si può iniziare un anno nuovo dedicato al tema del viaggio senza ricordare il capolavoro di Stanley Kubrick. Il film si apre con le immagini di un monolite e di un uomo-scimmia che scopre che un osso può essere usato come arma di offesa. Quattro milioni di anni dopo, nel 2001, un’astronave, guidata dal computer Hal 9000, parte verso Giove con due astronauti e tre scienziati ibernati. Scopo della missione: cercare di spiegare cosa si nasconde dietro un gigantesco monolite nero, scoperto vicino alla base lunare di Clavius. Il computer si ribella e fa morire i tre scienziati. Uno degli astronauti riuscirà a disattivare Hal 9000, ma verrà risucchiato in un’altra dimensione spazio-temporale che lo farà arrivare in una stanza settecentesca dove, vecchissimo, rivede il monolite nero e rinasce sotto forma di feto che galleggia sopra la Terra. Dunque un viaggio nello spazio che si intreccia con un viaggio nel tempo. Non è chiaro (e non c’è intenzione di chiarezza, del resto) dove approdi questo viaggio e a che cosa.

Il film, del resto, non vuol fare un discorso lineare, ma intende parlare direttamente all’inconscio, ha affermato il regista, attraverso le immagini e l’esperienza visiva che esse producono. Mi viene in mente a questo punto, lasciandomi guidare dal suggerimento di Kubrick, un testo che abbiamo letto di recente in BC-Officina. Si tratta di un racconto di Kafka, Il cacciatore Gracco. Egli, morto, non ha raggiunto l’al-di-là, ma vaga, sospeso, tra cielo e terra senza trovare approdo. In questo viaggio troviamo la figura del viaggio che non riesce ad aver meta, il viaggio che ha come sostanza il “perdersi”, quella dimensione dove nostalgia (Ulisse) e speranza (Abramo) cedono il posto allo spaesamento (Gracco).

Credo che Nostalgia, Speranza e Spaesamento siano le coordinate emozionali che inquadrano il nostro vivere, il nostro essere viaggiatori nell’esistenza. Forse narrare o fare arte significa anche toccare almeno una di queste corde…


Attraversare un’attesa

Viaggiare sì, ma verso dove? Quale sentimento accompagna il viaggiatore? La speranza o la nostalgia? Il poeta greco K. Kavafis alla fine della sua poesia “Itaca”, allude all’importanza e al significato di “… avere un’Itaca”. Ma che significa esattamente “avere un’Itaca”? Il viaggio ha sempre una meta. Interrogandoci sulla meta del viaggio incontriamo due figure-tipo: Abramo/Enea e Ulisse. Abramo è chiamato ad uscire da Ur dei Caldei per andare in Canaan che è la Terra Promessa: di quella terra egli non sa nulla. Abramo parte per una promessa: non sa nulla del luogo che lo aspetta e proibisce perfino al suo servo di ricondurre suo figlio a quel punto di partenza. Il tempo e lo spazio di Abramo è lineare: sotto il sole c’è la novità sempre imprevedibile pronta a mostrarsi. Così Enea, che fugge da Troia in fiamme per una avventura di cui egli non conosce ancora l’esito nè il luogo di approdo (Roma). Ulisse invece conosce già l’isola che lo attende e che riconquisterà: là c’è la sua casa ed il suo vecchio cane Argo. Il tempo di Ulisse è circolare: egli parte per tornare.

Si viaggia verso Itaca, verso una Canaan o verso Roma?

Chissà… forse la meta non è un luogo preciso. È un orizzonte verso cui si guarda e verso cui si è diretti. Ma non ci si arriva mai e, ogni passo avanti che si fa, più si allontana. Più cresce il desiderio più la mente si allarga. L’unica soluzione è che Itaca ci venga incontro, inaspettatamente.
È la illuminazione, la “rivelazione”. È la sorpresa, lo stupore del trovarsi a casa all’improvviso perché l’approdo ci si è donato, consegnato. A noi resta dunque l’attesa, resta un attraversare l’attesa…

Viaggiare è questo: attraversare l’attesa…


Viaggio: una foresta di simboli

Il TEMA DELL’ANNO di Bombacarta per il 2001 è IL VIAGGIO.
Il “viaggio” è una delle figure più penetranti e pregnanti dell’immaginario collettivo occidentale. La dimensione spazio-temporale della nostra vita viene in esso coinvolta a tal punto che lo si può definire una delle metafore più dense del nostro essere nel mondo. Il viaggio può assumere vari volti: l’avventura, la nostalgia, l’esilio, la missione, il pellegrinaggio, la sequela e, in generale, la ricerca, il volo, il giro del mondo, la passeggiata ,… Più che metafora, lo si potrebbe definire, prendendo in prestito una espressione di Baudelaire, una vera e propria “foresta di simboli”, capace di esprimere in qualsiasi modo la transizione e la trasformazione: la morte (“trapasso”), la vita (“cammino”, “pellegrinaggio”), i momenti della vita sociale (“riti di passaggio”). Come intendere questa dimensione radicale dell’essere umano? Costruiremo qui solo uno dei tanti possibili itinerari alla scoperta del senso del “cammino” dell’uomo.

Ci sono tanti modi di scrivere di viaggio. Forse ciascuno di noi ha scritto almeno una volta un diario di viaggio, ad esempio. Quando ci troviamo in viaggio i nostri occhi divorano il paesaggio e le immagini si imprimono più facilmente nella mente perché sono nuove. Quando ci troviamo in un mondo nuovo siamo maggiormente ricettivi, però nel momento in cui la novità diventa routine, l’ambiente che ci circonda diventa uno sfondo. E’ da quel momento che il luogo di viaggio diviene abitazione, habitat, “home”, “heimat”,… Allora non siamo più “in viaggio”, ma “a casa”. C’è comunque chi trova nel viaggio la propria casa…
Uno scrittore prende coscienza di quello scrive solo dopo che lo ha scritto. Quindi la scrittura è artistica quando il pensiero arriva prima alla penna e poi alla testa. Il “diario di viaggio” in questo senso consiste quindi in un filtro del reale attraverso la coscienza della penna: scrivo qualcosa e capisco meglio l’esperienza che ho fatto mentre la scrivo e dopo averla riletta. Esiste dunque una comprensione del viaggio che si è compiuto che è riservata solo a coloro che ne scrivono, che ne conservano “memoria” scritta. Ma la memoria scritta è spesso “creativa”perché legge la realtà alla luce del tempo e della coscienza. Il viaggio in scrittura diventa dunque percorso interiore, viaggio all’interno del proprio immaginario e della propria interiorità.


Tra arte e amicizia impariamo l’arte dell’amicizia vivendo l’amicizia per l’arte

Officina di BC (2000)Uno dei capisaldi di Bombacarta è il legame arte/vita. Ok. Allora ci si può chiedere: cosa conta *veramente* nella vita? E in questo l’arte che c’entra? Mi sono confrontato anche con scrittori come Lewis, ad esempio (quello del film “Viaggio in Inghilterra”), autore di libri molto noti. Per lui, rispetto a ciò che conta *veramente* anche la cultura e l’arte è spazzatura (stringi stringi). E’ l’unica risposta possibile? No, ovviamente. Ce n’è un’altra, ad esempio. L’arte “conosce” cioè che è veramente importante nella vita. Ma se accettiamo questa definizione, ci sono delle conseguenze chiare. Se consideriamo l’arte come un modo di conoscere la realtà, il mondo, se stessi, Dio (per i credenti)… allora l’atto creativo dell’artista è un’ascesi dell’umiltà non un prometeismo dell’auto-espressione! Cioè – se io, creando, voglio esprimere me stesso, allora l’arte mi chiude stretto stretto in me stesso. Non mi fa conoscere nulla, tranne il mio voler essere me stesso a tutti i costi. E’ una sorta di “inferno” di solitudine e di egotismo che mi fa “morire” in me stesso. – se invece io, creando, mi tengo in ascolto di qualcosa che anch’io non conosco e conoscerò creando, allora sarò assolutamente ricettivo, in ascolto, umile. Sarò in attesa e in accoglienza proprio mentre sarò al culmine della mia attività. La realtà spesso sta nel mezzo, ma credo sia importante distinguere queste due radici: l’arte “sim-bolica” (cioè, etimologicamente, che “unisce”) e l’arte “dia-bolica” (cioè, etimologicamente, che “divide”). Se l’arte è conoscenza significa che bisogna stare in ascolto. Non ipertrofizzare la propria personalità, ma semmai, al contrario, provare a prestare ascolto, a non far troppo chiasso. Come gli antichi pittori russi delle icone. Loro, prima di dipingere facevano digiuni e penitenze. Perché? Perché sentivano il bisogno di mortificare se stessi per poter dare un volto alla Bellezza il meno opaco possibile. L’artista deve avere occhi, orecchie, mani aperte in una tensione che non è iper-tensione ma at-tesa, tensione “ad”, cioè “verso” ciò che sta fuori di lui. L’arte dunque non può esaurirsi nella sola espressione. Se l’arte è apertura, accoglienza, ricettività, allora l’arte è innanzitutto un DONO non un possesso. Non la si può “produrre” (sarebbe solo “tecnica”). Cito un poeta inglese dell’Ottocento, per me straordinario, che è Gerard Manley Hopkins. Scrive in una sua poesia: “there lives the dearest freshness deep down things” (dove “there” è riferito a “nature” che sta nel verso precedente) e cioè: “vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. Questo è il dono dell’arte: cogliere nelle cose, nel reale, nell’uomo, la freschezza che sta nel loro fondo, che è loro intima. E questo è solo un dono. Solo attraverso un dono è possibile cogliere questa sorgività dell’essere. Qualcuno potrebbe dire che la mia è una visione irenica, allegra e pacifica. Anche il dolore, il male ha una sua sorgività, una radice. Allora un pittore terribile come, ad esempio, Bacon (non so se mai avete visto le sue tele), coglie la terribile sorgività del male e la esprime. Alla fine però ti rendi conto che il male è sorgivo per mancanza. Il male è una sorgente a secco e dunque una mancanza di freshness, di “freschezza”, sempre per usare il termine di Hopkins. L’arte è cogliere la freschezza che sta al fondo delle cose, chi la coglie allora ha l’intuizione dell’eternità. E’ una esperienza straordinaria e certamente spiritualmente molto forte. Tra i tanti ce lo insegna, ad esempio, Arthur Rimbaud proprio nella sua “Stagione all’Inferno”, quando scrive: E’ ritrovata! Che? l’eternità. E’ il mare sciolto Nel sole. Anima mia eterna, Osserva il tuo volto benché La notte sia sola E il giorno sia in fiamme E ancora un brano di Pierre Teilhard de Chardin: “Simile a quelle materie traslucide che un raggio racchiusovi dentro può illuminare in blocco, il Mondo appare, per il mistico, come impregnato d’una luce interna che ne intensifica il rilievo, la struttura e le parti profonde” Se ci mettiamo in questa ottica ecco un’altra conseguenza: non esiste più – un “materiale” che sta in basso, volgare, effimero,… – e uno “spirituale” che sta in alto, sublime, eterno… L’arte, se è spiritualmente recettiva e coglie la freschezza e l’eternità (cfr. Hopkins e Rimbaud), opera con la materia (colori, le frequenze dei suoni,…) forgiandola in modo che se ne sprigioni tutta la sua potenza spirituale, tutta la potenza spirituale della Materia, che va captata gelosamente e messa in “opera” appunto nell’opera d’arte.