La grazia della parola

Con “La grazia della parola”, Antonio Spadaro continua l’esplorazione del senso profondo del testo letterario, iniziata nel 2002 con il saggio “A che cosa serve la letteratura?”, aggiungendo elementi di straordinaria suggestione a quella che va configurandosi come l’elaborazione originale di una teoria della letteratura che sia in grado di cogliere la concretezza del mistero delle cose, individuando nella verità della tensione espressiva dell’opera letteraria una voce che interpreti la nostra presenza nel mondo. In questa visione, viene ribadito il nesso (esaltato dalla poetica ermetica, ma certo non solo suo esclusivo) tra letteratura e vita, per il quale il primo termine è apprezzabile come tramite costitutivo del significato dell’esistenza stessa, o almeno, come strumento per una generale capacità di interpretazione della vita stessa. Nel nuovo saggio, restringendo da un lato il suo studio ad un tema specifico, e lavorando su di esso con vigore argomentativo raro, Spadaro saggia la solidità della sua concezione della letteratura affrontando la questione affascinante quanto ardua del rapporto tra poesia, o più genericamente, letteratura e religione (di cui la relazione tra lirica e mistica è, come si vedrà, una specificazione), e lo fa muovendo da un’interpretazione sistematica di cinque saggi del grande teologo tedesco Karl Rahner sull’argomento. La materia è molto complessa, data l’eccezionale densità delle riflessioni di Rahner sul linguaggio della poesia e sulle sue interazioni con la Parola, il Verbo fatto carne, ed uno dei punti di accesso più facilmente praticabile anche per chi non abbia familiarità con le vertiginose speculazioni rahneriane è nitidamente rappresentato da quel senso di nostalgia, che precede ogni approfondimento ma che ne segna del pari il tracciato, convalidando per via di pura intuizione la relazione teologia – parola umana, per i “bei tempi nei quali i grandi teologi erano anche poeti e componevano inni”. La relazione tra mistica e poesia (già indagata da Grandmaison e Bremond all’inizio del secolo scorso) trova origine per Rahner nella constatazione che il valore peculiare della parola scritta deriva dalla rivelazione biblica attuata attraverso le pagine di un libro, anzi del Libro: per ciò stesso, almeno per il teologo, ogni espressione della parola umana, qualunque sia l’argomento trattato, mantiene un privilegiato rapporto originario con il Libro. Ma per essere pienamente operante, la corrispondenza tra poesia e teologia non può limitarsi a soddisfare il teologo, ma deve essere biunivoca, favorendo l’instaurazione di un sistema interpretativo che possa essere condiviso anche in una visione “laica” della letteratura, e con riferimento ad opere che, quanto meno per tema, fuoriescono dal recinto della letteratura religiosa. Ecco allora l’ulteriore passaggio nella definizione che Rahner dà del concetto di parola: la parola, che sia veramente tale, ha il potere di nominare l’innominabile (“La parola della poesia e il cristiano”), ed è pertanto dotata di capacità nominativa ed evocativa ad un tempo. Poiché una simile caratterizzazione della parola ben s’attaglia apparentemente anche alla parola poetica, diventa essenziale allora accertare il rapporto intrinseco tra la Parola della rivelazione e la parola poetica “come espressione della realtà umana”, posto che entrambe stanno dietro alle realtà dicibili ed attualizzano lo stesso perenne mistero dell’inesprimibile, raffigurano la singolarità di ognuno ed evocano l’indicibile. Per Rahner tale relazione consiste nella distinzione tra parole chiare e parole oscure: le prime sono prive di mistero, superficiali ed esatte, le altre invece introducono ad una conoscenza simbolica, hanno forte potere evocativo, sono primigenie od originarie, poiché in esse “la cosa si manifesta nella parola così come nel primo giorno della creazione”. Il poeta, dunque, prosegue l’opera di dare un nome alla creazione, utilizzando quelle parole “originarie”. Rahner colloca queste riflessioni all’interno di un sistema che si fonda su una concezione religiosa della vita, e carica la parola della responsabilità di far percepire al credente il mistero dell’esistenza. In questo senso, si può con Spadaro affermare che “la capacità e l’esercizio di percezione della parola poetica è un presupposto per ascoltare la parola di Dio, ” per quanto, ovviamente, concezione cristiana della vita e poesia non siano certamente “la stessa cosa, come non lo sono la domanda di Dio e la risposte dell’uomo”. Non si può comunque negare una rapporto di affinità tra le due parole (le parole “primigenie” della Bibbia sono indubitabilmente alta poesia, dai Salmi al Cantico dei cantici al Qoelet), affinità che per il credente non può non avere una coloritura particolare. Quali sono allora le conseguenze di una concezione simile nel confronto diretto ed attuale con la parola letteraria? L’affinità intrinseca che può, sulla scorta di queste riflessioni, stabilirsi tra l’arte della parola e il “discorso su Dio” conduce a conseguenze di non lieve entità anche sul piano della fruizione della parola, ovvero sulla condizione della lettura e dell’interpretazione del testo letterario. Da un lato, se, come scrive Spadaro, “il mistico e il poeta hanno qualcosa da dirsi, il teologo e il critico letterario possono reciprocamente dialogare su una base comune”, lo sforzo dell’interprete, sulla scorta di Rahner, deve allora essere teso ad individuare questa area comune di dialogo. D’altro canto, la concezione dell’esistenza di Rahner si connota come caratterizzata dalla completa pervasività della Parola divina, che esiste nel mondo a prescindere dalla circostanza che l’uomo (e nel caso nostro, lo scrittore, o il lettore o il critico) la riconosca o meno. In altri termini, il discorso letterario, in quanto discorso sull’uomo, è “cristiano in ogni caso: per affermazione o per negazione”, e, pertanto, “l’amore per la letteratura ha a che fare con l’amore per l’uomo, la sua condizione, le sue domande le sue tensioni profonde. E questo amore è proprio del cristiano, e a maggior ragione del pastore”. Suggestioni simili a quelle di Rahner si ritrovano anche in alcuni scritti di Romano Guardini, in particolare in “Il linguaggio religioso”, che tuttavia circoscrive la sua analisi alla relazione tra forme espressive del religioso e forme espressive letterarie “mondane”, limitando così l’indagine all’interno dell’area del “fattore religioso”, che “afferma, intensifica, eleva quello mondano, e lo pone contemporaneamente in questione, lo sommuove e lo allontana da esso”. Spadaro, invece, nella sua rilettura rhaneriana, intende tracciare linee di teoria letteraria che siano utilizzabili con riferimento ad ogni tipo di discorso letterario, e possano essere, se non condivisibili, almeno comprensibili anche prescindendo da una lettura cristiana dell’opera letteraria. In questa prospettiva, si evidenzia una conseguenza quasi paradossale. La valorizzazione della parola poetica o letteraria fino a pensarla come scheggia della parola divina, infatti, non comporta affatto indebite acquisizioni di autori ed opere all’universo della letteratura di impronta cristiana o genericamente religiosa, anzi ne postula il massimo rispetto proprio perchè l’analisi che si propone ha un carattere aprioristicamente oggettivo, cioè prescinde dalle intenzioni dell’autore e dalla sua poetica. Di questo particolare approccio, proprio lo stesso Spadaro ha fornito testimonianza piena nei suoi studi tondelliani, in particolare in “Lontano dentro se stessi. L’attesa di salvezza in Pier Vittorio Tondelli”, nel quale la “religiosità” dell’autore di Correggio non viene raffigurata con abusive forzature che degraderebbero l’impegno interpretativo del critico, bensì proposta come nostalgia e straniante consapevolezza di un’assenza, come discorso sull’uomo colto nella sua più autentica drammaticità (e pertanto rahnerianamente religioso di per sé), o anche come (è il caso di alcuni degli ultimi suoi scritti) anelito non s
oddisfatto, desiderio non compiutamente attuato. La definizione sistematica degli studi di Rahner offerta da Spadaro apre orizzonti amplissimi in tema di teoria della letteratura, e contiene spunti di straordinario interesse per studiosi e critici letterari, per la vigorosa sottolineatura dell’intreccio inestricabile tra etica ed estetica presente in ogni opera letteraria che sia veramente tale, e, per conseguenza, per l’enfasi che viene necessariamente posta sul momento della sua ricezione: “ciò che conta non è tanto l’opera in se stessa, il testo nella sua materialità, ma la reazione che è in grado di suscitare nel lettore”. Ritorna qui ciò che per Spadaro, in piena continuità con il saggio del 2002, è il significato ultimo della letteratura: il suo esser “servizio”, il suo essere utile allo svolgimento di un processo inesauribile di comprensione di sé e del mondo, nel quale, per usare ancora una volta le parole di Rahner, la misura del nostro diventare uomini, “si può riconoscere anche – non soltanto – dal fatto, se il nostro orecchio è aperto per ascoltare la parola della poesia”.

Luigi Preziosi

(da “Stilos” del 24.07.2007)

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  1. carmen de mola ha detto:

    Ringrazio il prof. Preziosi per gli utilissimi spunti di riflessione che mi sono stati forniti dalla lettura dell’articolo. Domani saprò cosa dire ai miei alunni di prima liceo classico presentando il programma di storia della letteratura italiana.E a pensare che in molte diffusissime enciclopedie nazionali non c’è traccia di Ranher che probabilmente non è considerato degno di alcuna menzione !
    Un saluto cordiale
    Carmen De Mola
    Polignano a mare (Bari)

  2. luigi Preziosi ha detto:

    Grazie per le belle parole. Ovviamente, il lavoro importante l’ha fatto Antonio, mettendo insieme alcuni saggi sparsi di Rahner e portandoli a una sintesi che è, a mio avviso, una peculiare teoria della letteratura. Ancora più ovviamente, di Rahner ho colto lo specifico letterario (su tutto il resto del suo pensiero, che immagino di straordinaria importanza, non azzardo alcun intervento,non avendo le compentenze per farlo).
    Ricambio i cordiali saluti.
    Luigi Preziosi (non sono professore…)

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