L’infinito in una frase
Quante parole possono stare in una frase? È un interrogativo buffo, ma non certo privo di senso e incredibilmente ricco di spunti. A proporlo (indirettamente) è nientemeno che Piergiorgio Odifreddi, professore ordinario di logica matematica presso l’Università di Torino. Sull’ultimo numero del mensile “Le Scienze”, Odifreddi punta l’attenzione sul’eclettico letterato francese Raymond Queneau e sul suo “Fondamenti della Letteratura secondo David Hilbert” (1973).
Ne “I fondamenti della geometria” (1899), il celebre matematico tedesco David Hilbert presenta gli assiomi che costituiscono i fondamenti della geometria, perfezionando dopo due millenni il lavoro di Euclide.
Ma la Matematica è meravigliosa perchè le sue leggi sono invarianti rispetto all’oggetto del contendere. Se al posto di “punti” e “rette” si trattasse di “parole” e “frasi”, gli assiomi matematici rimarrebbero comunque validi. Si passerebbe solo da una sistemizzazione della Geometria a una della Letteratura. “Voilà” deve aver pensato monsieur Queneau, che nel suo libro ha effettuato esattamente questa trasposizione, cercando poi di comprenderne le implicazioni.
Ora, tra i vari assiomi citati dall’Odifreddi ce n’è uno che mi ha colpito in modo particolare. Ecco cosa scrive il “matematico impertinente”.
“Il teorema che si dimostra a partire dagli assiomi di ordine afferma che “tra due parole ce ne sono sempre infinite altre“, benché a prima vista sembri che ogni frase ne contenga solo un numero finito. La soluzione di Queneau all’apparente dilemma è geometrica: sull’esempio della geometria proiettiva, facciamo appello a “parole all’infinito”. Ovvero, la maggior parte delle infinite parole che il teorema assicura essere presenti in ciascuna frase, stanno appunto all’infinito, e non sono leggibili a distanza ravvicinata: il che attribuisce all’oscurità proiettiva della Letteratura, e non all’incapacità espressiva dei letterati, la condanna dei testi a dire sempre meno di quanto avrebbero potuto e dovuto.”
(Piergiorgio Odifreddi, da “Le Scienze” n°495, Novembre 2009)
Questo concetto delle “parole all’infinito” mi ha intrigato a tal punto da divertirmi a dedurne delle conseguenze, che a mio avviso sono straordinariamente “bombacartacee”:
* ogni testo racchiude più cose di quante siano rappresentate dalle singole parole che lo compongono
* ogni testo è un rimando a un universo più ampio, perfino diverso e sconosciuto rispetto al nostro, che non si esaurisce tra la maiuscola d’inizio frase e il punto di fine periodo. Le parole che compongono la frase rappresentano solo la chiave per accedere a questo mondo
* il significato di un testo va oltre quello che è stato pensato dall’autore, proprio perchè esso rimanda a infinite altre parole.
Corollario al punto precedente: è proprio per questo che lo stesso testo dice a ogni lettore qualcosa di differente
* non esiste il testo perfetto. Ogni testo è di per sè imperfetto, ovvero non esaurisce e soddisfa in pieno l’intenzione dell’autore (e ciò è meraviglioso!)
* esistono infiniti testi equivalenti che possono essere scelti per esprimere lo stesso concetto. Si tratta solo di manifestare parole differenti e nascondere tutte le infinite altre. Eppure, l’autore ne può selezionare sempre uno e uno solo. Questa sì è una deliziosa e terribile condanna!
Vi sfido a trovare altre considerazioni che “discendono” dall’assioma di Queneau e a condividerle insieme nei commenti.
Gabriele Guzzetti
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