Ci vediamo da Giolitti
Questa notte è morto Antonio Giolitti. Non posso certo dire che fosse un mio amico, ma posso dire di avere avuto un regalo da lui: il racconto di alcuni suoi cari ricordi.
Non entro nel merito della personalità che fu Antonio Giolitti. Lo ricordo con la stessa semplicità con cui accettò di rilasciarmi un’intervista che mi era stata commissionata e mi invitò a casa sua, senza conoscermi, senza avermi mai visto. Ci incontrammo nel novembre del 2005. Il mese successivo l’intervista uscì sulla rivista “Le colline di Pavese” e di nuovo mi accolse da lui quando gliene portai alcune copie. Non ci vedemmo invece quando un riadattamento dell’intervista venne pubblicato nel volume Un viaggio mitico. Pavese “intertestuale”. Alla ricerca di se stesso e dell’eticità della storia. Non ci siamo rivisti più.
C’è qualcosa nella scomparsa di Antonio Giolitti che va al di là, per me, della semplice commozione, del rispetto; è qualcosa a cui faccio fatica a trovare un nome.
In tutto avrò trascorso con lui poco più di un paio d’ore. Eppure mi sembra di rivedere davanti agli occhi il salotto in cui mi fece accomodare. Su un basso tavolino da caffè c’era la copia di “Espiazione” di Ian McEwan, nell’edizione economica appena uscita a quell’epoca presso Einaudi. La mia intervista aveva come tema il suo rapporto con Cesare Pavese: la chiacchierata iniziò con McEwan. Ricordo che mi chiese se avevo letto quel romanzo; lui lo aveva iniziato e non era ancora riuscito a farsene un’idea. Gli dissi che lo avevo letto qualche anno prima e gli parlai delle perplessità che aveva suscitato anche in me, ma come avrei fatto con un amico, senza pensare che i suoi strumenti critici dovevano essere ben altri dai miei. La cosa che lo rendeva maggiormente perplesso, mi disse, era il titolo. Forse un po’ troppo incisivo, tranchant, definitivo. E poi mi raccontò del suo amico Pavese. Mi raccontò di episodi molto intimi, di quelle cose che succedono fra amici, di quei momenti che uno porta dentro di sé come costitutivi di un sodalizio.
Ad esempio di come rammentasse alla perfezione il giorno in cui incontrò Cesare Pavese nella sede romana dell’Einaudi, a via degli Uffici del Vicario. Pavese lo accolse e gli disse semplicemente: “Ecco il tuo tavolo!”. Essere compagni di scrivania non è sempre una cosa semplice: Cesare Pavese aveva un’abitudine che un po’ infastidiva Antonio Giolitti: mentre lavorava si grattava sempre la testa… Eppure con Cesare Pavese si lavorava bene, in tranquillità; era una persona esigente che parlava poco. Lui si occupava di letteratura mentre a Giolitti erano affidati i testi di storia e di economia.
Giolitti mi disse di aver conosciuto Cesare Pavese e Giulio Einaudi a Torino, prima della guerra. Entrambi vennero a Roma all’inizio degli anni ’40 per la prima sede della casa editrice, un piccolo appartamento in via Claudio Monteverdi. Fu solo dopo la guerra che la sede si spostò nella zona centrale di Roma, proprio vicino alla Camera dei Deputati.
“Pensi – mi raccontò – c’era anche un modo di dire fra noi einaudiani della capitale, che in qualche maniera mi riguardava… “Ci vediamo da Giolitti”… Metteva un po’ in difficoltà le persone perché non era chiaro se l’appuntamento fosse alla gelateria che porta il mio stesso nome e che si trova poco distante dalla sede o… da me!”
“Le giornate con Pavese non erano mai noiose. Capitava, a volte, che parlassimo di letteratura. Fu lui che, ad esempio, mi fece scoprire Hemingway che da poco aveva iniziato a circolare in traduzione italiana. Mi raccontava con pochi e rapidi cenni di ciò che stava scrivendo, qualcosa che riguardava i suoi posti, le sue colline e più spesso mi diceva della sua attività di traduttore, del suo impegno di divulgazione della letteratura americana.”
“Quando Pavese morì, la notizia mi fu portata da Augusto Monti, che era stato anche professore di liceo di Pavese. Era agosto e io mi trovavo a Cavour. Monti arrivò a casa mia piangendo a dirotto con la ferale notizia. Io partii subito per Torino e mi precipitai alla casa editrice dove trovai tutti i collaboratori in lacrime. Ma la persona che mi colpì di più in quella circostanza fu Italo Calvino. Al funerale era il più straziato, il più disperato fra tutti noi. Quando la bara fu trasportata fuori dalla stanza in cui era stata allestita la camera ardente, Calvino quasi vi si gettò sopra in un abbraccio dolorosissimo dal quale fu difficile scioglierlo. Per Calvino questo fu davvero l’addio definitivo, la vera separazione dal suo amico. Io assistetti alla scena profondamente commosso mentre mia moglie cercava di calmare il pianto di Italo. Al cimitero di Torino, dove la bara fu tumulata, poi, mi trovai accanto a Giulio Einaudi che, ricordo bene, mi disse: “Quanto gli sarebbe piaciuto questo posto!” perché nell’angolo che gli era stato riservato c’erano due alberi che potevano in qualche modo rammentargli il paesaggio campestre che tanto amava.”
Queste sono le parole con cui Antonio Giolitti ha descritto l’addio al suo compagno di scrivania.
Queste mie righe sono un ben più semplice addio, ma pieno di rispetto e di gratitudine per la semplicità con cui Antonio Giolitti ha condiviso con me alcuni pezzetti della sua vita. Oltre alle impressioni su McEwan e il suo avvicinarsi ad Hemingway.
Grazie per questo ricordo! E’ strano come incontri singolari, non decisi da noi, ci restino impressi a fondo. Anche nel breve spazio di un’intervista una persona può rivelarsi completamente e sembrerà di conoscerla così tanto… Poi la notizia improvvisa della scomparsa ti lascia stranito, come quando venne a mancare quel vecchio zio al quale eri affezionato, anche se non lo vedevi da anni.
Mi sono sentita esattamente così… del resto capita spesso che diciamo ad uno sconusciuto molte cose di noi, più di quante non siamo soliti confidare ad un amico di lunga data.