Antonia Arslan: l’ultima lezione

Antonia Arslan

«Verso sera per le strade deserte / passa un carro cigolando. / Un cavallo sauro lo tira, dietro / cammina un soldato ubriaco. // È la bara dei massacrati che va / al cimitero degli Armeni. Il sole al tramonto distende / sul carro una sindone d’oro». Sono versi del poeta Daniel Varujan (1884-1915), arrestato a Costantinopoli la notte tra il 23 e il 24 aprile durante la sevkiyet, la deportazione armena del 1915. Varujan è anche la porta attraverso cui la scrittrice Antonia Arslan, traducendolo in italiano, ha riscoperto le proprie radici. Il secondo passo è stato svolgere dare voce agli scampati del genocidio che l’ideologia dei Giovani Turchi scatenò contro l’etnia armena. Infine, con l’addensarsi dei ricordi, sono maturati i romanzi. Prima La masseria delle allodole, oltre 30 edizioni, portato sul grande schermo dai fratelli Taviani; poi La strada di Smirne, che va nella stessa direzione. L’ultima fatica è Il libro di Mush (Skira 2012), emblematica storia di due donne che, durante il Metz Yeghérn (“Grande Male”) del 1915, traggono in salvo un antico volume miniato di oltre 20kg. Una zavorra che intralcia la fuga, tanto ingombrante quanto irrinunciabile: ecco cos’è la Memoria.

C’è poi un altro libro meno noto, al quale tuttavia Antonia Arslan tiene molto. È Ishtar 2, le “cronache del risveglio” dell’autrice dal coma che la confinò per venti giorni al reparto di Rianimazione. «Un evento – ci spiega la scrittrice – giunto inaspettato, senza sintomi o segni premonitori. Io credo che nella vita si impara sempre e questa improvvisa caduta nel limbo del coma mi ha insegnato tante cose. È stato come una sorta di apprendimento per capire un mondo che crediamo tanto distante da noi e che, improvvisamente, diventa tutto il tuo mondo». Rischiare la morte… una lezione di vita? Antonia Arslan sorride. «Ci sono stati picchi terribili, certo, eppure nel sottofondo restava sempre un’idea: “Guarda, un’altra enorme esperienza: speriamo di farcela a poterla raccontare!” In qualche modo è stata anche una cosa gioiosa». Dolcemente agguerrita, ecco come si potrebbe definire la scrittrice padovana. Sarà che il suo cognome significa “leone”, e suona non a caso tanto simile ad “Aslan”, il leone-Cristo che C.S. Lewis immaginò di incontrare sul mondo di Narnia.

Ishtar 2 è un libro inconsueto per molte ragioni. Racconta un nuovo apprendimento della vita in tutte le sue fasi primarie, dal respirare autonomamente al bere e parlare, fino a ritrovare il controllo di un corpo che non obbedisce più. E affronta con intelligenza temi che si tendono a tacere o a esibire – malattia, anzianità, morte – le tre tappe che, secondo i Padri della Chiesa, concludono l’itinerario di formazione del cristiano. Eppure, assicura Arslan «la gente ha desiderio di sapere: sente parlare di coma, è frastornata e confusa. Gli incontri con i lettori sono stati molto partecipi, perché si fidano della mia testimonianza e sono consolati di sapere che, in questi frangenti, per il malato non tutto è negativo». Perché alla fine quello che ci si domanda è questo: cosa prova chi è in coma, sospeso tra presenza e assenza? «È stato quasi come si fosse assottigliata l’intercapedine tra la nostra parte razionale e quella più profonda, dove abitano la nostra individualità, i ricordi, le ossessioni, le predilezioni e tutto ciò che abbiamo vissuto… Durante quei giorni mi tornavano alla memoria ricordi bellissimi che neppure sapevo di avere. Immagini sepolte chissà dove. Per esempio, mentre ero come risucchiata dall’incubo, ecco la scena di mia madre che giocava a carte con le sue cugine su un tavolo verde e mi diceva: “Vieni!”. È stato qualcosa che mi ha riportato verso la consapevolezza. Ne ho avuti diversi, di questi momenti. Affioravano paesaggi del cuore: il cimitero sulle Alpi bellunesi, una piazzetta di Venezia con il Leone di San Marco… paesaggi che avevo già visti con mio padre. E poi dimenticato per anni, decenni».

Nel suo racconto si percepisce disorientamento, paura, ma anche un presentimento positivo.
«In me c’era una lotta profonda. Da un lato avvertivo i sussurri che uscivano da una sorta di rettangolo nero – la finestra che dava su un’altra stanza, ho scoperto poi – che mi dicevano: “Basta, lasciati andare! Ormai è finita per te”. Dall’altra c’era la sensazione di qualcosa che mi difendeva. Che le preghiere di mia figlia mi proteggevano. Ho poi saputo che in alcuni villaggi armeni hanno pregato per me giorno e notte, per ventiquattrore continue».

Colpisce l’immagine della Signora solenne e giocosa che la visita nel limbo del coma…
«Anche solo a parlarne, mi si riscalda di nuovo il cuore. Non parlerei di apparizioni, quanto di “immagini” di questa giovane donna che era allo stesso tempo l’Alta Signora delle rappresentazioni medioevali e una ragazza che sgranava lenticchie. Era sempre lei, lo avvertivo distintamente. E poi mi riaffioravano alla memoria versi del Paradiso di Dante, sentivo – senza ricordarlo – che uno di essi era proprio per me. Appena mi tolsero il tubo dalla gola, chiesi a mia figlia che mi portasse il XXXIII canto e trovai la frase che cercavo: La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre. Lei porta aiuto prima ancora che tu abbia parole per chiederlo».

Nei suoi romanzi la malattia e la morte si apprendevano in famiglia, secondo un saggezza antica. Che ricordo ne ha?
«Da un lato c’erano i racconti delle morti tragiche in Anatolia, a noi distanti nel tempo ma che sapevamo essere realmente accaduti, come la decapitazione del fratello di mio nonno, lo zio Sempad, o di Aznif, che ho raccontato nella Masseria delle allodole. Dall’altra parte c’era invece la morte quotidiana. Nell’ultimo capitolo del Deserto dei tartari, Dino Buzzati scrive che “la morte è cosa semplice e conforme natura”. Ed è realmente così. Io ho assistito alla morte di mio nonno Yervant che si è spento in casa, semplicemente. La morte di mia nonna avvenne prima, in maniera molto familiare e quasi scherzosa. Come ogni pomeriggio, ero stata portare a giocare da lei. Era malata di cuore. A un certo punto mi ha dato delle caramelle: “Adesso portate via la bambina, non è più spettacolo per lei”. Se n’è andata un quarto d’ora dopo. Poi è venuta la zia Henriette, mi ha detto: “La nonna è morta, vieni a darle un bacio”. Che lezione. Non la dimenticherò mai».

Oggi però bambini e anziani non crescono più sotto lo stesso tetto…
«Trovo assurdo demonizzare la morte quasi fosse qualcosa di vergognoso da tacere. Qualche anno fa, prima che mia madre morisse, il parroco venne in ospedale per darle il sacramento dell’unzione. Un familiare molto stretto disse che così la spaventavamo. Ma come si può spaventare una donna di 91 anni ancora abbastanza cosciente da volersene andare nel modo giusto? Avviene lo stesso con bambini e ragazzi. Il problema è che vedono troppe morti finte, e mai una vera».

Il recupero della coscienza è un tema che l’ha sempre coinvolta. Ritrovare la sua stessa identità armena, d’altra parte, è stato un lungo viaggio di riscoperta, proseguito libro dopo libro. Oggi, in Italia, avverte un mutamento di sensibilità circa la questione armena?
«Noto, anche all’estero, che troppo spesso gli italiani parlano male di se stessi. Eppure il pubblico italiano si è dimostrato incredibilmente partecipe e avido di sapere. Teniamo presente che i cittadini italiani di origine armena sono appena duemila, pochissimi, certo non abbastanza da giustificare il successo di vendite dei romanzi. Sono stati quindi gli italiani ad appassionarsi. C’è stata poi la produzione del film dei fratelli Taviani che – nonostante le pressioni subìte dal governo turco e dalla sua ambasciata, giunte fino al blocco dei fondi presso una banca italiana – sono andati avanti. E ora sorgono convegni, mostre fotografiche… avverto un’affettuosa sensibilità attorno al mondo armeno. È un cammino che si sviluppa anno dopo anno. Quindi non si dica che gli italiani sono xenofobi».

La questione armena, per contro, continua a essere scottante per la Turchia.
«Inutile nascondersi che vi siano tensioni fondamentaliste e alcuni giornali titolino: “È stato avvistato un missionario che fa proselitismo sulle colline sopra Trebisonda…”. Si trattava del povero don Andrea Santoro. Come si può temere il “proselitismo” in un Paese con 73 milioni di musulmani e 100mila cristiani, assommando tutte le confessioni?».

Anche la diffusione dei suoi romanzi viene ostacolata?
«Alcuni giorni fa il mio editore Ragıp Zarakolu – un uomo di straordinaria rettitudine e visionarietà – è stato messo in prigione per l’ennesima volta. La Strada di Smirne, come altre mie opere, è già stato tradotto in turco. Ma non può essere messo in commercio».

La libertà di opinione è dunque limitata.
«Secondo lo scorso Rapporto Osce sono 57 i giornalisti imprigionati in Turchia. Persone coraggiosissime che dicono le cose come stanno e che ammiro moltissimo. Altri invece incitano all’odio. Cui si aggiunge la posizione ufficiale governativa, ancora straordinariamente negazionista: per loro il genocidio non è mai esistito, si criminalizza sostenendo che gli armeni erano dei cospiratori, e ci si giustifica dicendo che durante la Prima Guerra sono morti altrettanti turchi. Nonostante sia stato dimostrato in maniera inequivocabile che nel 1915 le minoranze armena, sira e dei così detti “greci del Ponto” sono state massacrate secondo un preciso disegno. D’altra parte, però, ci sono fermenti di cambiamento».

Ci può fare qualche esempio?
«Il 22 aprile 2007 è apparsa sulla maggior testata turca una mia intervista di due pagine, dove usavo addirittura la parola “genocidio”. E ricordo la “Petizione di Scuse verso i Fratelli Armeni” lanciata sul web da un gruppo di intellettuali turchi nel dicembre 2008, un documento davvero commovente firmato in una settimana da oltre 40mila persone. Rischiarono tutte di essere processato. Ma riesce a immaginarselo, un processo a 40mila persone?».

 

[intervista compara QUI]

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