Due film (e il rischio del manicheismo)
Sono due film che apparentemente non hanno nulla in comune. In Jimmy’s Hall, l’ultimo film del noto regista inglese Ken Loach e St.Vincent, il primo film dello sconosciuto Theodore Melfi, invece c’è qualcosa che li accomuna, per contrasto, e questa cosa è il manicheismo. Sì, l’antica eresia cristiana tanto combattuta da S. Agostino, ma che sempre ritorna tenacemente a galla. Senza andare a scomodare i testi di teologia, vale la pena vedersi questi due film per comprendere meglio questa terribile tentazione che poi consiste nell’odiare il mondo, dividendolo nettamente in due parti, separate e contrapposte, un mondo in bianco e nero dove ci sono i Buoni e i Cattivi. È il mondo di Jimmy’s Hall che racconta la storia, ispirata a fatti veramente accaduti, di una grande sala in cui alcuni abitanti di un villaggio, nell’Irlanda del 1921, si riuniscono per danzare, dedicarsi al pugilato, imparare il disegno e partecipare ad altre attività culturali, una sorta di centro sociale ante litteram. Le attività della sala saranno osteggiate per motivi politici e morali e anche la chiesa locale contribuirà alla sua chiusura. Il film coglie il mood della nostra contemporaneità, impastato di rabbia, risentimento e rivendicazione. Le due parole che come poli opposti si fronteggiano sono diritti e autorità; alla chiesa, che pure ascolta la voce del suo popolo, viene rimproverata, per bocca del protagonista, di «ascoltare l’altro solo quando l’altro è in ginocchio». Per capire il punto debole però di questa storia è necessario ricordarsi l’avvertimento del critico Alessandro Zaccuri: «Non è importante che un film sia una storia vera, ma che sia una vera storia». E su questo punto il film mostra qualche crepa di troppo e il problema sta proprio nel manicheismo.
Jimmy’s Hall ci racconta di un mondo semplice, diviso nettamente in due parti: da una parte ci sono i giovani e vitali frequentatori della Hall, e contro di loro si ergono le autorità, religiose e civile, come mortiferi araldi dell’etica, dell’aridità della legge e del suo rispetto formale. È chiaro che questo approccio finisce per appiattire i personaggi, ridurli a macchiette, privi di spessore, come fossero idee che camminano. I baldi giovani frequentatori della Hall subiranno un orribile sopruso e reagiranno, rivendicando i loro diritti e la loro libertà, da qui il sottotitolo del film, Una storia d’amore e libertà (e l’inevitabile successo), però il punto è proprio questo, la libertà, di cui una storia raccontata così è totalmente priva. Dopo pochi minuti lo spettatore non potrà fare altro che parteggiare per il popolo semplice e felice contro i tristi e meschini tutori dell’ordine.
Nessuna libertà per lo spettatore, grave torto, dal punto di vista artistico, perché come ricordava Ludwig Wittgenstein, bisogna sempre lasciare al fruitore di un’opera d’arte ciò di cui è capace. Loach invece, a causa di quell’impostazione manichea, cade nell’errore di cui accusa la chiesa irlandese degli anni ’20: di volerci in ginocchio, “liberi” soltanto di applaudire e di dargli ragione; egli sa già dove vuole arrivare, a quella rabbia e risentimento che è l’humus da cui parte e a cui riconduce questo film.
Niente di tutto questo in St. Vincent di Theodore Melfi, e ancora una volta è il sottotitolo ad essere rivelatore: Tutti i santi sono nati peccatori. Non ci sono qui buoni e cattivi, ma il santo e il peccatore convivono nel cuore dell’uomo. Nessuna semplificazione, ma molta complessità, nessuna visione manichea in bianco e nero ma molto “grigio”, cioè sfumature, spessore, profondità. In questa profondità, nel contemplare l’abisso del cuore umano anche lo stesso regista si perde, egli non sa bene dove arriverà la sua storia, che pure nasce molto semplice: la descrizione di un personaggio, l’anziano Vincent (un Bill Murray se possibile più grandioso del solito) e il racconto della sua paternità adottiva nei confronti del piccolo Oliver, che permetterà la scoperta di una luce che tenacemente brilla sotto la coltre del suo peccato.
Una scoperta continua per tutti, per Vincent, per il regista e per noi, pubblico che non sappiamo mai quello che i personaggi del film faranno finché non lo fanno, un po’ come nei racconti di Flannery O’Connor che non a caso metteva in guardia dal manicheismo, cattivo in teologia e pessimo in letteratura.
In St. Vincent c’è quella vera libertà che manca nel film di Loach e insieme quella pietà che porta a realizzare il detto evangelico «non giudicare», non ridurre l’uomo a una caricatura, non inchiodarlo a uno schema, non appiattirlo dentro una frettolosa visione ideologica. È la “morale” della parabola della zizzania, per cui il padrone del campo chiede tempo ai suoi servi zelanti, che dovranno imparare a far convivere il grano buono con l’erba cattiva, in una drammatica con-fusione che però rende possibile l’avventura della santità, che poi è la felicità. La stessa felicità che prova lo spettatore di questa piccola opera prima, sentimento opposto a quel ri-sentimento che scaturisce dal molto applaudito film di Ken Loach.
(il presente testo è apparso come articolo su Avvenire il 30 dicembre 2014)
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