La barriera della pelle

Ricordo che la prima volta che sentii parlare di Re Mida ero all’asilo. La maestra ci raccontò la storia dell’avido sovrano della Frigia che chiede agli dei di poter mutare in oro tutto ciò che la sua pelle tocca. Dioniso lo accontenta e il re vede il suo sogno realizzato. Si prepara a diventare l’uomo più ricco del mondo, trasformando tutti i mobili della sua reggia, i pavimenti, le pareti, i suoi vestiti in oggetti del prezioso metallo. Mida si esalta, scoppia di gioia, fino a quando non si rende conto che anche il cibo che desidera mangiare e l’acqua che vorrebbe bere sono destinati a trasformarsi in oro non appena toccano la sua bocca. Il sovrano si accorge che il suo desiderio lo ha condannato a morte e lo ha reso un pericolo per le persone che ama, dal momento che ogni suo abbraccio o carezza le trasformerebbe in statue metalliche, provocandone la morte. Re Mida alla fine è costretto a supplicare Dioniso di cancellare il proprio desiderio.  

Il mito, raccontato anche da Ovidio nelle Metamorfosi, è perfetto per insegnare ai bambini quale sia il pericolo insito nell’avidità ma anche l’importanza del cibo e quella degli affetti. Non stupisce quindi che Dysney ne abbia tratto un cartone animato già nel 1935, inserendolo nelle sue Silly Symphony

Tuttavia a me la storia rimase impressa per un motivo diverso che non si accordava proprio con gli intenti pedagogici della mia maestra. Cercavo, nella mia testa, una scappatoia, un modo in cui Mida potesse salvarsi senza l’aiuto degli dei. Come si può mangiare, o bere, qualcosa senza toccarla?

Il re dell’episodio della Dysney, che non a caso s’intitola The Golden Touch, prova a portare il cibo alla bocca con una forchetta, senza pensare che però anche le labbra sono fatte di pelle, anche la lingua, il palato, la gola hanno un contatto col cibo. E dunque no, la soluzione non c’è perché non è possibile eludere la funzione di contatto con il mondo che la pelle ha. Non si può scappare alla propria pelle. Mida usa la sua epidermide per utilizzare il suo potere sugli oggetti, sfruttando la capacità che questa ha di connetterlo alle cose, eppure è come se alla fine si trovasse ad interagire solo con barriere del suo amato metallo: la pelle è anche ciò che ci separa dall’ambiente e dagli altri, che ci rende finiti, limitati. 

Non è detto che l’impossibilità di fusione con ciò che abbiamo intorno sia un problema: la nostra pelle serve anche a proteggere noi stessi e la nostra individualità dagli attacchi, un po’ come quegli animali che la Natura cosparge di veleno per allontanare i predatori. Ne I promessi sposi la popolazione di Milano colpita dall’epidemia di peste si convince che a diffondere la malattia, trasmissibile anche attraverso il tocco, siano gli untori, degli individui che si divertirebbero a spalmare unguenti contenenti la malattia sulle porte delle case o sulle superfici dei luoghi pubblici. Sebbene si tratti solo di una diceria alcune persone vengono uccise per quest’accusa, fine che ad un certo punto rischia di fare anche il protagonista Renzo. 

– pigliatelo, pigliatelo; che dev’essere uno di que’ birboni che vanno in giro a unger le porte de’ galantuomini. Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un’occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. […] La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: – dàgli! dàgli! all’untore! – Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L’ira divenne rabbia, l’angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a’ suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: – chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo. 

Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi persecutori s’eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide (ché il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che s’avanzava, anzi una fila di que’ soliti carri funebri, col solito accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che avrebbero voluto anche loro dare addosso all’untore, e prenderlo in mezzo; ma eran trattenuti dall’impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate. 

Renzo non ci mette molto a volgere a suo vantaggio la paura dei milanesi. Prima minaccia la folla con un coltello che afferma essere “unto” di peste come lui. Poi si getta nel carro dei monatti che trasportano le vittime del morbo, a cui lui è immune dopo esserne guarito. Il protagonista è in questo caso doppiamente protetto, dunque, dalla propria pelle. Ma sappiamo bene come più frequentemente il rischio delle trasmissioni di malattie isola le persone, e in passato la peste e la lebbra rendevano chi ne era affetto un reietto escluso dalla società. Questo perché la natura che la pelle ha di limite fisico nella nostra relazione col mondo è totalizzante e sostanzialmente inevitabile anche quando la via di comunicazione che ci offre non ci sembra abbastanza. 

Non che manchino esempi di persone che ci provano, a uscire dalla propria pelle. Il giallo storico di Matthew Pearl Il circolo Dante racconta la storia di un gruppo di intellettuali americani dell’Ottocento impegnati a tradurre la Divina commedia per diffonderla tra i lettori statunitensi. Ad un certo punto i traduttori si trovano alle prese con il XIII canto dell’Inferno, quello della selva dei suicidi e di Pier delle Vigne, e commentano il passo in questo modo: 

Nel canto in esame, Dante era nella selva dei suicidi, dove le «ombre» dei peccatori erano state trasformate in alberi da cui stillava sangue anziché linfa. Un’ulteriore punizione si abbatteva su di loro: le bestiali Arpie – con volti e colli da donna, corpi da uccello, piedi muniti di artigli e ventri sporgenti – si aprivano un varco tra gli sterpi nutrendosi di foglie e straziando ogni pianta sul loro cammino. Oltre a procurare un dolore lancinante, gli squarci e le lacerazioni rappresentavano però l’unico mezzo attraverso il quale le ombre potevano esprimere la propria sofferenza, e raccontare la loro storia a Dante. «Il sangue e le parole devono fuoriuscire insieme» commentò Longfellow. 

Questo passaggio mi ha fatto comprendere il contrappasso dell’episodio più di mille note esplicative. Per Dante infatti i suicidi hanno scelto di rinunciare al proprio corpo, sì, ma per poter comunicare un messaggio che, restando nei limiti della loro pelle, non avrebbero potuto comunicare. La loro punizione consiste nel non poter comunque, nemmeno dopo la morte e dopo che la rinuncia al corpo li ha trasformati in alberi, raccontare il proprio dolore senza “squarci” e “lacerazioni”. 

Eppure, nonostante sia dannosa, l’idea di parlare attraverso le lacerazioni della pelle è meno rara di quello che sembra. Ne Il seggio vacante, J. K. Rowling racconta di Sukhvinder, una ragazza liceale che mostra comportamenti autolesionisti. 

Si sedette di spalle alla parete, si rimboccò la manica della camicia da notte ed esaminò alla luce della torcia i segni rimasti sul braccio dall’ultima volta, scure ferite a zig zag ancora visibili ma in via di guarigione. Con un piccolo brivido di paura, che esprimeva anche l’imminente sollievo, posò la lama a metà dell’avambraccio e incise la carne. Una fitta cocente, lancinante, e subito sgorgò il sangue (…) La lama risucchiava il dolore dei suoi pensieri disperati e li tramutava in animalesco bruciore di nervi e pelle: a ogni taglio, sollievo e liberazione.

Nell’atto autolesionistico della ragazza la fuoriuscita del sangue è quasi il correlativo oggettivo dell’espressione di pensieri dolorosi che non riescono a manifestarsi in altro modo. Quando la barriera epidermica diventa insopportabile, l’unico modo di liberare la sofferenza è il taglio.

La pelle, come ogni bambino impara dai primi mesi di vita quando esplora l’ambiente circostante con le mani, è dunque un paradosso, è la linea sottile e invalicabile tra noi e il mondo e l’unico strumento che rende davvero in grado di relazionarci ad esso.


P.S.: questo articolo è stato scritto nel proseguimento delle riflessioni svolte nelle ultime due Officine, sul sangue e sulla pelle. Per rimanere aggiornato sulle nostre attività, seguici su Instagram!

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