“Io non faccio letteratura”

Io non faccio “letteratura”. La mia vita, la nostra vita, quella di mia moglie e di mio figlio Eric, che adesso ha sei anni e mezzo, è stata davvero sconvolta dai Signori Tedeschi, che sono rimasti proprio gli stessi.

20040923elpepicul_4_I_LCOCosì scriveva Paul Celan in una lettera del 19 gennaio 1963. In quest’affermazione c’è tutta la specificità della poesia celaniana.
Specificità con cui si sono confrontati grandi maestri del pensiero come Adorno, Heidegger, Gadamer, Levinas e Derrida. Dietro ogni confronto è palpabile la volontà di accogliere quel dono insito nella poesia-soglia di Paul Celan.
Poesia-soglia: soglia tra memoria e dimenticanza, soglia in cui si rende possibile l’incontro con la testimonianza del “maggior poeta europeo del periodo successivo al 1945″. È un incontro voluto e cercato, incontro-confronto anche con la concezione che dell’arte ha Celan. Quest’incontro poteva avvenire soltanto nello spazio del Gedicht, la parola che il poeta ha cercato INFONDOALLANEVE. Lì, tra i “sassi muti” da conquistare per tracciare un percorso che, sin d’ora, ci impegniamo a riprendere e continuare.

L’intima coesione che caratterizza l’opera di Paul Celan, ravvisabile nell’unità tematica che collega le prove giovanili della Sabbia dalle urne alle ultime, criptiche e postume di Parte di neve, ci autorizza in virtù del principio ermeneutico della circolarità tra le parti e il tutto a cercare nel corpus poetico un punto attraverso cui guadagnare l’inizio. Abbiamo scelto di “attraversare” la soglia delle ventuno poesie del ciclo ATEMKRISTALL, uno dei risultati più notevoli di tutta l’opera celaniana.

Sulla scia di quella “possibilità condizionale di partecipazione intellettuale-emotiva”  che caratterizza ogni approccio interpretativo, premettiamo sin da queste primissime righe che abbracciamo l’interpretazione che del ciclo ha dato Giuseppe Bevilacqua, storica “voce italiana” di Paul Celan.

Nel farlo, terremo presente anche la monografia che Hans Georg Gadamer ha dedicato al ciclo ATEMKRISTALL, sottolineando però come il grande ermeneuta, trincerandosi dietro la sua concezione a-metodica della verità, riesca a dare quanto meno “personalissime” interpretazioni di alcune poesie del ciclo.

Tra le molteplici differenze d’approccio degli interpreti con cui continuamente ci confronteremo, c’è almeno un vistoso punto di contatto. Esso riguarda la primissima sensazione che accomuna i lettori di Celan. Le poesie di Celan (spesso) sembrano impenetrabili, soprattutto quelle dell’ultimo periodo.

Dinnanzi alla complessità di alcune metafore celaniane il lettore ha la sensazione di doversi confrontare con le kenningar degli antichi Germani. Più che leggere, si cozza contro il testo, un testo che, per usare un espressione del ciclo, sembra quasi prenderci a cornate. A tal proposito Giuseppe Bevilacqua ha parlato di un azzardo che di necessità accompagna ogni lettura: “chi vuole interpretare la poesia di Celan deve abituarsi al rischio”.

Gadamer è riuscito a condensare le sensazioni connesse a questa principale difficoltà in quella che suona come una sentenza non appellabile: “le poesie di Celan ci raggiungono, ma noi non riusciamo a coglierle”.

Consci di questo rischio sempre latente, nell’accostarci all’intima unità del ciclo, cercheremo soprattutto la centralità e la ricorrenza del tema della “testimonianza” che sta lì ad aspettare nel favo di ghiaccio. Sta lì, rinchiusa nel cristallo di respiro. Messa da parte l’arte-sabbia delle prove giovanili, tutta la parabola umana e poetica di Celan coincide nel costante sforzo verso questo ATEMKRISTALL. In questo conato la sua poesia accantona la sua natura di nullapoesia, tende a diventare parola di luna. L’io del ciclo deve scivolare in fondo alla neve, solo lì può rispondere alla sfida lanciata dal celeberrimo monito adorniano sulle possibilità della Poesia nel dopo-Auschwitz. Il poeta si gioca la vita in questa sfida. Conosciamo già il tragico epilogo: Celan ha scelto infine il silenzio in fondo allo scorrere della Senna.

Il nostro percorso si articolerà in sei capitoli. Partiremo da un appunto biobibliografico in cui cercheremo di sottolineare gli snodi fondamentali della vita del poeta. Un unico filo, dall’infanzia tra gli alberi di gelso di Czernowitz al ponte Mirabeau.

Nel primo capitolo la nostra attenzione sarà focalizzata soprattutto sull’infanzia di Celan e sul suo rapporto con i genitori. Nello sviluppo della sua poesia e della sua poetica, la madre e soprattutto la lingua della madre, il tedesco, rimarranno centrali. Cercheremo appigli tra i versi del “ciclo della testimonianza” e quelli della prima fase, l’arte-sabbia, combattuta tra la necessità di coltivare la memoria e la dolce pace del papavero.

Il secondo capitolo ruoterà intorno a una data: il 20 gennaio. Il 20 gennaio del 1942 fu presa la decisione della “soluzione finale”.

Il terzo capitolo rappresenta il fulcro del nostro lavoro, analizzeremo puntualmente i ventuno componimenti del ciclo ATEMKRISTALL (confluito poi nella raccolta ATEMWENDE del 1967). Nel farlo, come abbiamo già detto, ci lasceremo guidare dalla meritoria analisi di Bevilacqua.

Per il quarto capitolo ci baseremo sui brevi e pregiatissimi appunti di poetica del nostro poeta. Esamineremo con particolare attenzione tre figure chiave: il messaggio nella bottiglia, la stretta di mano e il Meridiano. Li accomuna l’apertura all’Altro, tema centralissimo nella riflessione poetologica celaniana.

L’identità ebraica del poeta sarà il tema conduttore del quinto capitolo, cercheremo di coglierla nel fitto dialogo che s’instaura tra la poesia di Celan ed alcuni suoi illustri referenti: Kafka, Adorno, Benjamin, Nelly Sachs e, soprattutto, il poeta Osip Mandelstamm.

Concluderemo spiegando il titolo di questo nostro lavoro: “neve e silenzio”. Nel farlo, “rischieremo” confrontandoci con il delicatissimo e importantissimo rapporto tra Celan e la lingua materna.

Leggi la mia tesi di laurea (pdf, 560 Kb): Neve e silenzio. Paul Celan verso un’estetica della testimonianza, Palermo, 2004 – Relatore Salvatore Tedesco


Il volto violento della Grazia

Questo pezzo è stato pubblicato su Letture

Flannery O'ConnorA quarant’anni dalla morte la scrittrice americana scuote ancora le coscienze dei lettori con il suo cristianesimo tragico e paradossale, avverso a quella cultura che ha eliminato il mistero e ha addomesticato la disperazione.

Il 3 agosto di quarant’anni fa moriva a 39 anni Flannery O’Connor. Era nata a Savannah, in Georgia, il giorno dell’Annunciazione, cioè il 25 marzo, del 1925. La scrittrice considerava sua patria la zona pedemontana della Georgia e la parte est del Tennessee, quella terra che ha generato i Southerners, cioè scrittori quali Erskine Caldwell, Carson McCullers, Tennessee Williams, William Faulkner. Ci ha lasciato ventisette racconti e due romanzi: Wise Blood (“La saggezza nel sangue”) del 1952, da cui John Huston nel 1979 trasse un film omonimo, definito nel dizionario dei film Morandini «divertente e terribile», e The Violent Bear It Away (“Il cielo è dei violenti”) del 1960. All’opera narrativa vanno aggiunte le lettere e le prose occasionali di Mistery and Manners. La sua opera dunque non è immensa, ma è bastata a farla diventare una scrittrice di culto. Molti i riconoscimenti ricevuti in vita: vinse tre volte l’O’Henry Award e ricevette due lauree ad honorem. Nel 1988 la sua opera narrativa e una selezione di quella epistolare e saggistica è stata pubblicata nella prestigiosa collana della “Library of America”. Oltre ai grandi del passato, questo onore fino a quel momento era stato riservato solamente a William Faulkner. Le sue poche pagine dunque l’hanno fatta apprezzare come un’icona, un “mostro sacro”, un modello. Del resto, che cosa c’è in comune tra Bruce Springsteen e Nick Cave, registi quali John Huston e Quentin Tarantino, scrittori come Raymond Carver, Elizabeth Bishop e l’australiano Tim Winton o tra i nostri Luca Doninelli e Carola Susani? Nulla, forse. Tranne Flannery O’Connor, letta, amata, imitata da tutti loro. [Continua »]


Laboratorio di Lettura (Roma)

Giovedì 23 marzo alle ore 19:30 si svolgerà il nuovo incontro del Laboratorio di Lettura “Flannery O’ Connor”.

Tutte le notizie sul laboratorio le trovate qui


Memorie di BombaCarta

116747315_d450c235e1_mRipubblichiamo il doppio report che Manuela Mardin Ardingo e Marco Candida dedicarono alla loro prima esperienza d’Officina BombaCarta. Risalgono a quando Vibrisse arrivava per posta elettronica)…Iniziamo con Manuela:

In Una cosa piccola ma buona di Carver c’è speranza.
Ne Il bagno di Carver c’è disperazione.

Se c’è stata una cosa nitida nella giornata di sabato è questa. Ma questa è solo letteratura.
Poi c’è la vita. E lì non si capisce mai un granché.
Cioè: non puoi dire questa cosa è speranza, quest’altra è disperazione. Mai.
Tutto appare confuso e senza confini: in molte speranze c’è disperazione e, spesso, nella disperazione un po’ di speranza.

Sabato ero a Roma per Bombacarta, una simpatica associazione culturale.
Bombacarta organizza incontri, eventi e corsi.
Ma non è proprio una scuola, nel loro manifesto si legge: impariamo l’arte dell’amicizia vivendo l’amicizia per l’arte.
Ed è davvero così.
Poi una volta al mese si svolge un incontro speciale: l’Officina, dove si ascoltano interventi multimediali tenuti dai Bombers e si approfondisce il tema dell’anno.
Il tema di quest’anno è la persona, il personaggio.
Il tema dell’Officina di sabato era: speranza e disperazione del personaggio.
E io ero lì, in quella stanza lunga e stretta piena di gente.
Ascoltavo le osservazioni lucide di Antonio Spadaro, presidente e fondatore dell’associazione.
Parlava della speranza negli incipit letterari.
Di come un racconto che inizi in equilibrio debba per forza approdare al caos.
Di come non sia vero il viceversa.
Di quanto nella vita sia lo stesso.
Poi ho visto una ragazza, Marzia Castiglioni.
Camminava leggera sul confine tra speranza e disperazione e ho pensato che era la cosa più vera cui avessi assistito.
Camminava sulla strada che, in un certo senso, negavamo alle pagine di Carver e Fenoglio.
Era lì, con i suoi pantaloni allegri  fondo rosso e disegni colorati ovunque  e con i suoi occhi di un celeste sereno e largo.
Insieme a De André, la moglie dell’eroe morto e la graziosa di Via del Campo. Quella con occhi grandi color di foglia.
Con Fellini e la sua Cabiria.
Con Chaplin più moglie bastone sorrisi e bombetta.
Con Dylan e la Magdalena di Romance in Durango.
Con Fenoglio e con Milton. E forse anche con Fulvia, ma un po’ più indietro.
E con Beckett, Vladimiro, Estragone, Godot e tutti i suoi amici irlandesi.
Tutti su quella strada.
Camminavano ognuno col proprio passo, attenti a non scivolare: né da una parte, né dall’altra.
Ché anche la speranza è risposta e di solito meglio le domande.
Così loro andavano e in un certo senso, semplicemente, vivevano.
Io osservavo tutto, cercando di discriminare.
E giuro che mai verbo mi è sembrato più adatto: tutto aveva un contorno sfuocato.
Come se tutta Roma fosse su quella strada con Marzia e gli altri. Ma andiamo con ordine.

Sabato mattina sono scesa alla stazione Tiburtina, era presto.
Lo spazio dipende dal tempo. Come la velocità. Si sa.
E un posto non è mai lo stesso in tempi diversi. Lo so.
Eppure quando vedi decine e decine di corpi allineati a dormire sotto la tettoia della stazione, come in un campeggio estivo.
E pensi che proprio estiva la notte non doveva essere se sono tutti coperti fino agli occhi. Di giornali e cartoni.
E ti trovi costretta a scavalcarli come bucce di banana, cartacce o lattine vuote.
E guardi i tuoi piedi nudi e pensi che anche quelli sono un privilegio.
E scavalchi l’ultimo prima dell’entrata e un titolo da un giornale che gli copre la pancia ti mortifica: MISSIONE UMANITARIA ITALIANA IN AFGHANISTAN.
Eppure, dicevo: quando guardi cose come queste come puoi convincerti che sia tutto vero?
Che esista parallelamente?
Che si ripeta ogni giorno?

E tutti quegli occhi a frugarti nelle tasche nella borsa nel cuore.
Con te che sai che mai il contenuto di un portafoglio potrà risolvere. E figuriamoci il tuo.
Dargli pochi spiccioli servirebbe solo a pagarmi il diritto di ignorare la prossima mano.
Servirebbe solo a credermi vicina a loro.
E invece non bastano pochi spiccioli per comprendere ed essere compresi.
Ognuno ha il suo inferno.
Credo che il mio sia questo: mortificarmi di fronte a occhi.
Così continuo a modo mio.
Osservo tutto, amo tutto e sto male.
E’ giusto. Continuo a ripetermelo.

Compro il biglietto per la metro da una signora distrutta dallo stress di lavorare in mezzo a milioni di mani e occhi e odori e mani e sudori e mani e sangue e sporco e mani e soldi e soldi e soldi.
E il conto da far quadrare la sera e guardarsi da tutto e comunque non vedere niente e essere trasparente dietro un vetro spesso.
Litiga con l’uomo davanti a me, non si capiscono.
È nervosa. Pallida. Stanca.
Ha i capelli scomposti e grida contro l’uomo che le chiede sigarette senza specificare la marca.
Grida aldilà del vetro e il suo urlo attutito è quanto di più triste e impotente.
Finalmente: Marlboro.
L’uomo paga e si gira: ha la guancia destra piena di sangue e un pezzo di ovatta ormai rossa nel naso.
Il mio Buongiorno! Vorrei due biglietti per la metro, per piacere… arriva stridente e inutile.
Come l’ovatta nel naso dell’uomo delle Marlboro. Inconsistente, prendo i due biglietti e dico grazie.
La donna alza la testa, ma è solo per passare al prossimo cliente.
E io scendo giù, sotto terra.
Dove non arrivano neanche le cose garantite.
Neanche l’aria, neanche la luce. Niente.
Posti di un buio pazzesco.
E mille mani mi supplicano e cento bocche mi chiedono.
E io vado avanti e sto male, perché è giusto così.
E alcuni sono untuosi e insistenti e civettuoli quasi.
E mi compiaccio di pensare certe cose.
Perché voglio essere vera. E poi ripenso a La 25ª ora di Spike Lee e alla scena in cui lui nel bagno bestemmia contro tutto e tutti. E li elenca, per tipo razza e colore.
Ed ora eccoli qui, tutti.
Li osservo e semplicemente odio il tipo di giro che ci riduce così.
Che mi costringe a sentirmi colpevole.
Che li autorizza a sentirsi vittime.
Non so se ci siano state elezioni per questo e comunque: io non ho votato. Io non ho votato.
Solo questo: io il giorno in cui si è deciso non c’ero.
Poi arriva la metro.
Un uomo suona il violino in carrozza.
Suo figlio è seduto per terra ai suoi piedi con un bicchiere vuoto del McDonald in mano. Per i soldi.
È piccolo, piccolissimo.
Una signora gli regala un lecca-lecca.
Il bambino poggia il bicchiere e inizia a scartarlo. Sorride.
I suoi piedi quasi non escono dal sedile, tanto è piccolo.
Il padre smette di suonare furibondo, lo afferra per la maglietta sotto il collo, gli fa cadere il lecca-lecca e lo rimette in piedi. Prende il bicchiere dei soldi e lo preme sul viso del bambino.
Poi si avvia verso l’altra carrozza.
Il bambino lo segue senza una lacrima, zitto. È piccolissimo.
Cammina anche lui sulla strada di mezzo, tra speranza e disperazione. Con un’abilità che fa tenerezza e invidia al tempo stesso: alcuni già grandi, per dire, non ne sono capaci.
Poi scendo a Termini e già mi sento meglio.
Sarà la luce, sarà l’aria. Non so.
Sarà che ho appuntamento con Marco Candida.

Sì, proprio lui.
Quello del cappellino di Giulio Mozzi, quello di Ricercare insieme a Papotti, quello del Guantox degli Sparajurij alla Fiera del Libro, quello del numero di orecchie necessarie per leggere un libro.
Il reporter meno convenzionale d’Italia.
Mentre gli vado incontro continuo a osservare tutti.
Una ragazza cammina a testa bassa con il viso fiducioso e sprofondato tra le pagine di un libro.
Un bambino piange disperato.
Un ragazzo cammina sorridendo.
Che bello, penso. Che ci siano persone che camminano e sorridono.
Poi un insieme di dettagli all’improvviso mi piovono addosso, come alle volte nei film polizieschi: il ragazzo che cammina sorridendo è Marco!
Mi giro e sì: felpa azzurra, zaino giallo. È lui.
Sorrisi.
Ce ne andiamo in giro per un’oretta tra vie di Roma ancora troppo vuote per essere vere.
Io, lui e Il suicidio di Angela B..
Parliamo di tutto e di niente. C’è il sole.
Aspettiamo Alessandro Tozzi, davanti alla Feltrinelli di Via dei Tomacelli. Dove al numero 146 c’è la sede di Bombacarta.
Dalle vetrine mi sorride un poster di Doris Lessing, lo vorrei.
Intanto fa caldo e io e Marco parliamo.
Di tutto e di niente, come prima.
Il suicidio di Angela B. è sempre lì, presente.
Più volte abbiamo pensato di metterlo nello zaino di Marco o nel mio, ma poi il libro è sempre lì. Durante tutta la giornata.
Anche alla fine, quando ci siamo salutati sopra le scale della metro di Via Cavour: Il suicidio di Angela B. era lì.

Di Marco dirò solo che lo trovo one&va(sto) e lo dirò in questa forma perché, mi ha detto: mi piace quando metti insieme le parole.
Avrei dovuto anche mitizzarlo per la verità, così mi aveva chiesto.
Ma credo che lo farò la prossima volta.
Occorre conoscenza più profonda per arrivare a mito, è questione di credibilità.
Sappiate però che è onesto.
E vasto di mente aperta e provocatoria.

Poi.
Un ragazzo dietro di noi toglie i lucchetti dalla porta della libreria e io non mi faccio scappare l’occasione.
Mi regali quel poster? Gli chiedo.
Sì. Dice lui. Se ce l’ho… Aggiunge.
E porta sfiga. Perché mentre cerca sento che non ce l’avrà e perché quelli sulle vetrine non si possono staccare.
Già lo so.
Potrei darti questo…
E mi porge un cartoncino con la stessa immagine più piccola e un supporto dietro che mi piace anche di più.
Dopo un grazie e due ciao siamo di nuovo fuori: Alessandro Tozzi è in ritardo. Ci sediamo sul gradino della libreria.
Metto il cartoncino davanti a noi. Gli zaini per terra.
Ogni volta che ridiamo – e ridiamo spesso – ci buttiamo un po’ indietro con la schiena. E la porta della libreria si apre.
Un ragazzo si avvicina e cerca di vendere a Marco una piccola luce per leggere la notte. Così dice.
Dice anche se abbiamo a cuore i ragazzi nelle comunità.
Noi diciamo e non diciamo.
Due euro, datemi due euro.
Noi diciamo e non diciamo. Né sì e né no.
Se ne va, imprecando che siamo tirchi.
Solo due euro e avremmo avuto a cuore i ragazzi nelle comunità. Ancora una volta, stiamo male. Che è giusto.
Passa Antonio Spadaro di occhi vispi, di Carver, di Bombacarta e di critica letteraria. Lo saluto.
Ma non può ricordarsi di me, è ovvio.
Lo indico a Candida, lo rivedremo dopo.
Arriva Alessandro Tozzi, amico avvocato grafomane.
Detto Jotoz.
Esibisco fiera il mio poster da scrivania di Doris Lessing e gli do una busta gialla piena di virgole.
Qualche giorno fa gli hanno rubato il portafoglio e mi ha detto che le conservava tutte lì e che era rimasto a secco.
Così ne ho portate un po’ io, da L’Aquila, ché le sue pagine senza virgole non si possono immaginare.

Poi.
Andiamo in una libreria poco più giù, dove vendono dei libri a metà prezzo.
Davanti alla porta incontriamo Andrea Monda: lui si ricorda di me. E mi saluta.
E lui e Marco si presentano.
E: sai che Andrea Monda ha scritto un libro su Tolkien?
E: sai che Marco Candida è proprio quel Marco Candida lì? Quello di vibrisse…
Ripassa Antonio Spadaro e questa volta si ferma. Presentazioni di rito.
Dice di averci notati prima, seduti sul gradino.
Dice di averlo fatto per via di Il suicidio di Angela B..
Dice di averlo anche lui.
Dice che giulio mozzi è suo amico.
Entriamo ed è pieno di copertine piccole, medie e grandi.
In cuoio, di tela, di carta.
E fogli e libri su libri su libri.
E un odore di libri da farti girare la testa.
Sulla sedia c’è un uomo che inizia a parlare con Jotoz.
E parla, parla, parla. Subito a fianco alla cassa.
Dove un ragazzo mi sta facendo lo scontrino per la mia copia di Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei.
Ché a L’Aquila non lo trovo.
E lui parla, parla, parla. Proprio sotto a una copia del contratto con gli italiani di Berlusconi. Proprio vicino a una vignetta di Altan. Chiacchiera di tutto.
E io mi perdo nei suoi risvolti calcistici. Nei suoi riferimenti culturali. Quasi ipnotizzata da una miriade di microlibri rilegati in pelle davanti a me. Di tutti i colori.
Io e Marco ci guardiamo a tratti.
Alessandro sembra essere più a suo agio.
Si parla di apocalisse. Ma non di apocalisse punto e basta.
Di apocalisse più sfumata, spalmata.
Come lo stipendio dei calciatori. Io e Marco ci riguardiamo.
Ma sì! Aggiunge. Un po’ oggi, un po’ domani, un po’ tra un mese…
E il pancreas e l’intestino e la morte e Nostradamus e gli attaccanti.
Andiamo.
Attraversiamo la strada e, cinque piani più su, siamo a Bombacarta: porta di fronte alla redazione del manifesto. Entriamo e salutiamo qua e là. Prendiamo posto.
Io mi dirigo dritta verso il terrazzo, che già l’altra volta mi era piaciuto.
Nel frattempo per scherzo e per onestà facciamo del terrorismo psicologico sulla penna di Candida e sui suoi resoconti su vibrisse.
Perciò: attenzione.
Il cielo è sereno ma non troppo, l’atmosfera è densa.
Parliamo un po’ con Spadaro e Monda e Jotoz.
Poi arriva Paolo Papotti.
Poi Michela Carpi.
Poi Alessandro se ne va.
Poi si inizia.
Durante l’intervento di Antonio Spadaro, scopro Marzia.
Scopro il caos sotto il suo equilibrio.
Scopro la grandezza di pantaloni così allegri.
Marzia ha scritto un libro.
L’incipit è di una semplicità che agghiaccia.
Prima le dicevano che era uguale a tutti gli altri, poi ha capito di no. Tutto qua.
Raro caso in cui la vita con le sue tresche tra speranza e disperazione entra in un libro.
Marzia scrive semplice e vero.
Ed è molto più vicina alla vita che alla letteratura.
Viene il momento di Michela Carpi.
Con lei ci chiediamo se non si debba passare per la disperazione prima di avere speranza.
Se sia possibile ritrovarsi se non ci si è prima sentiti disorientati. Se, per citare Svevo, non ci si può dire guariti se non si è mai stati malati.
Io guardo Marzia e le sorrido.

Scendiamo a mangiare qualcosa.
Propongo un gelato, Candida me lo rinfaccerà per tutto il giorno: troppo poco.
Andiamo a comperarlo verso il Pantheon insieme a Papotti.
Per strada cerchiamo di annodare fili di discorsi interrotti via e-mail, brandelli di conversazioni un po’ più serie.
Ma c’è il sole e il gelato è buonissimo.
Pistacchio, Amarena, Zabaione e panna.
Così arriva il pomeriggio e con lui il turno di Andrea Monda.
Ci stordisce, quasi slealmente, con Fabrizio De André, Bob Dylan, Federico Fellini e Charlie Chaplin.
Mentre ascoltiamo Romance in Durango di Bob Dylan c’è un’atmosfera dolce e partecipe.
Le finestre sono aperte, c’è il sole, il gelato era buonissimo.
Il nostro analizzare brani per decidere se di speranza o di disperazione si tratti si ferma qui.
Capiamo bene che non potremo andare oltre.
Ci proviamo, ma loro camminano in mezzo.
E tutte le analisi sono giuste e tutte sbagliate.
Dall’equilibrio siamo arrivati al caos.
Dove le regole del caso stazionario non valgono, ma dove ne esistono altre. E ben più affascinanti.

Poi: Massimo Reale, di parole sciolte e sorriso buono, tiene il suo intervento sul terrazzo.
Io mi siedo sul muretto e viaggio.
E lui ci parla di Beckett e del suo modo assurdo e tagliente di addomesticare il caos.

Intanto guardo il cielo, gli uccelli, le nuvole.
Nell’aria c’è tensione, come se stesse per piovere.
E dal terrazzo conosco una Roma più umana.
Vedo i fiori sui terrazzi e piccoli animali domestici al sole e panni stesi ad asciugare.
Mi sporgo per controllare che l’altra Roma esista, che sotto corra sempre il fiume di macchine e motorini.
Sì, quindi c’è speranza.
Ché l’essenziale non si vede e io non me lo ricordo mai.

Massimo finisce e va via con una sedia sulla testa.
Io e Marco salutiamo tutti e usciamo.
Le strade sono invase da una gialla malinconia e da mille persone mille.

Animaletti domestici
di poco peso
di poca memoria di poco dolore.

Così diceva una poesia di Emanuele Trevi letta da Michela qualche ora prima.
Così mi sentivo io: di poca memoria e di poco dolore.
Ma viva e accanto agli altri.
Nello stesso posto, mondo o gabbia che sia.

Nelle prime ore della mattina si parlava di punto di partenza e punto di arrivo di una storia.
E si diceva che un personaggio parte da un luogo e va e che spesso torna da dove è venuto. Che l’importante è che abbia una sua tensione, come una freccia. Come una fionda.
E pensavo che Marco Candida da Tortona ha fatto così.

Insieme siamo tornati a Termini e, dopo un’aranciata in un posto troppo affollato, ci siamo salutati.
L’ho visto andare via dagli scalini della metro di via Cavour.
Lui, lo zaino giallo e Il suicidio di Angela B. in mano.
Bel personaggio.

Poi di nuovo alla stazione Tiburtina, dove mi sembrava di essere più in pace col luogo.
Se sia stata abitudine o consapevolezza non so.
So che, come ne La 25ª ora di Spike Lee, dicendo ciao alle cose ho avuto uno sguardo diverso.
E non c’era un bel bambino nero a scrivermi il suo nome sul vetro, ma c’era una ragazza che mi sorrideva dall’autobus a fianco. E allora ho pensato che: sì, c’è speranza.
E che l’essenziale non si vede ma c’è.

Ed ecco un piccolo classico: il resoconto su BombaCarta di Marco Candida
Caro Mozzi,
questa settimana ho approfittato del ponte e sono stato tre giorni a Roma. Ho così potuto partecipare all’incontro organizzato da Bombacarta sul tema Speranza e disperazione del personaggio, che si è svolto tra le 10.00 e le 17.30 di sabato 31 Maggio. L’incontro si è tenuto nella sede del manifesto a due passi dalla sede del Corriere della Sera, che sta attaccato a una libreria Feltrinelli. Con Manuela Ardingo, che mi è venuta a prendere alla stazione intorno alle 8.30 – sono arrivato alle 6.48 e sono stato tutto il tempo in un bar a leggere Il suicidio di Angela B., che ultimamente mi accompagna un po’ ovunque –, mentre aspettavamo l’ora dell’incontro siamo entrati alla Feltrinelli e Manuela ha chiesto un poster di Doris Lessing. Purtroppo il negoziante non ne aveva più, ma in sostituzione le ha regalato un’immaginetta cartonata 30 x 20 (centimetri) sempre della stessa autrice. Siamo usciti fuori e ci siamo seduti su un gradino della Feltrinelli e siamo stati lì a chiacchierare, lei con l’immaginetta cartonata, io col tomone del Suicidio. Ad un certo punto è passato davanti a noi il regista dei Fatti Vostri, la trasmissione di Raidue. Volevamo rincorrerlo per chiedergli l’autografo ma poi abbiamo lasciato perdere. Poi è passato Antonio Spadaro. Ha guardato il tomone e l’immaginetta cartonata e ha tirato dritto. Io non sapevo ancora che Antonio Spadaro fosse Antonio Spadaro, però ho visto come ha guardato il tomone. Non che il suo sguardo mi abbia stupito. In treno, nello scompartimento, non c’è stato nessuno dei viaggiatori che non abbia fatto un commento sul Suicidio. Tutti commentavano. O sul titolo o sulle dimensioni del libro, o su tutte e due le cose. E tutti mi guardavano come se fossi sull’orlo dal compiere qualche gesto scellerato.

Alla Feltrinelli oltre ad aspettare l’ora dell’incontro, stavamo aspettando Alessandro Tozzi. Tozzi ha trentacinque anni, due lauree (Economia e commercio e Giurisprudenza), è avvocato ed è campione italiano di Jorckyball. Lo Jorckyball è uno speciale tipo di calcio che si gioca a due, attaccante contro portiere. Tozzi è portiere. In effetti ha una stazza enorme, quindi deve essere difficile superarlo. Tozzi è stato selezionato per il concorso Enzimi indetto dalla Minimum Fax. Mi ha mandato 12394556 KB da leggere per posta elettronica – soprattutto cronache forensi. È bravo. Con lui e Manuela Ardingo siamo andati in una libreria di libri antichi, dove incredibilmente abbiamo trovato una copia de Il Suicidio di Angela B. a metà prezzo e Manuela l’ha subito acquistata.

In libreria ho conosciuto Antonio Spadaro.
Mi ha detto: “E così leggi libroni così grossi… Quando ho visto il libro, prima, non credevo che Mozzi fosse già riuscito a venderne uno qui a Roma. Ma tu sei Marco Candida, giusto?”.
Mi ha guardato.
“Insomma”, ha detto, “questo spiega tutto…”.

Il problema è questo.
Anzi: i problemi sono questi.
Plurale.
Perché ci sono una serie di problemi. E le scrivo, Mozzi, perché le chiedo di aiutarmi a risolverli. Inoltre lei è in un certo senso tra i principali responsabili di tutto questo ordine di “problemi”, che adesso le esporrò. E quindi quantomeno chiedo la sua attenzione.
Il primo problema è che a Roma tutto lo staff di Bombacarta temo mi abbia scambiato per una specie di inviato speciale di vibrisse. Magari pensano anche che sia stipendiato da vibrisse. Quindi appena mi hanno visto e mi hanno riconosciuto, per loro è stato del tutto consequenziale pensare che tutto quello che vedessi e sentissi “dovesse” finire in un reportage. Reportage, peraltro, che quanto più sarebbe stato sgangherato, tanto più secondo loro sarebbe riuscito. Per fare un esempio nella libreria di libri antichi Manuela Ardingo mi ha costretto ad appuntare su un pezzetto di carta che c’era uno che continuava a parlare di “apocalissi spalmate” e a spalmare apocalissi dappertutto e che continuava a dire: io peroro, io peroro, io peroro. Le sembrava divertente il fatto di trascrivere in uno dei miei reportage cose come apocalissi spalmate e suoni come la parola peroro.
Ma questa cosa del costringermi ad appuntare, l’hanno fatta un po’ tutti. Non dico che lo facessero espressamente, ma era sottinteso. Io ero lì perché dovevo appuntare. Era il mio ruolo. Per esempio Michela Carpi ha fatto di tutto, non riuscendoci devo dire, per rendere quanto più sgangherato possibile il mio ipotetico reportage. Ad un certo punto durante la sua relazione ha persino scritto sulla lavagna: X Candida RETROPROIEZIONE MITICA. Forse pensava che un’espressione come “retroproiezione mitica” fosse in certo senso il pane dei miei resoconti.
E per un po’ sono anche stato al gioco. Ho cercato di appuntare tutte le cose più ridicole, più sottilmente comiche. Per esempio ho appuntato: Spadaro mangia pesce spada al pepe rosa e bisticcia con un professore della Sapienza per il titolo di un racconto di Carver. Ho appuntato: Nella stanza dell’incontro è entrata un’ape muratrice. Ho appuntato: PAOLO PAPOTTI.
Tutti pensavano che dovessi appuntare e che dovessi assolutamente rimanere lì fino alla fine per appuntare. E quando intorno alle quattro del pomeriggio mentre ascoltavamo una canzone di De André ho smesso di appuntare e mi sono semiaddormentato perché ero stanco per la sfacchinata del viaggio e non ce la facevo più, Manuela Ardingo ha subito smesso i panni della persona amorevole e carezzevole, e con gli occhi rossi e le narici sbuffanti fumo mi ha detto: appunta!

L’incontro si è svolto in una saletta. La saletta era pitturata di bianco. C’erano una serie di sedie nere, con incorporato un piano d’appoggio pieghevole. Erano sedie comode, ho appuntato bene. La cosa migliore era il terrazzo dal quale si godeva di una bella panoramica di Roma. Il terrazzo era pieno di vasi di gerani ed è tra i vasi che ho incontrato Papotti.
Era dai tempi di Ricercare di Reggio Emilia che non vedevo Papotti, ed è stato un piacere.
Lo avevo lasciato aspirante scrittore e adesso lo ritrovavo scrittore. Era più abbronzato. Gli ho subito chiesto dov’era Mattia Signorini, che è l’altro autore del suo libro edito Fernandel. Lui ha detto: Signorini è di Rovigo. Non è che perché abbiamo pubblicato un libro insieme, adesso andiamo in giro tipo fratelli siamesi.
Siamo stati sulla terrazza un po’. C’erano Paolo Papotti, Manuela Ardingo, Alessandro Tozzi. Poi è arrivata Michela Carpi. Poi Antonio Spadaro. Con Spadaro abbiamo parlato di lei, Mozzi. E visto che c’era Papotti nelle vicinanze ad un certo punto, intorno alle dieci e quarantasei, ho cominciato a dire: io di Mozzi parlo sempre male…
Sono subito scoppiati tutti a ridere.
Hanno detto che la mia ironia è inarrivabile.

Poi sono cominciate le relazioni. Sono state in tutto quattro relazioni che trattavano da diversi punti di vista il medesimo argomento: cioè la speranza e la disperazione del Personaggio. Il primo relatore è stato Spadaro.
All’inizio non c’erano molte persone. Dodici persone. Ma piano piano la saletta si è riempita ed è arrivata allo stesso numero di persone del Convegno Leggere&Scrivere di Reggio Emilia.
Al di là delle cose che sono state dette nelle relazioni mi è piaciuto molto lo spirito dell’incontro. Era uno spirito amichevole e di confronto pacifico, dal quale trarre mutuo beneficio. Tutto questo mutuo beneficio andava tuttavia a sbeneficio del mio ipotetico reportage; ma non importa.
Il fatto è che stavo bene nella saletta di Via dei Tomacelli 146: per la prima volta partecipavo a un incontro di scrittura che mi piaceva davvero.
Mi piacevano le persone che ci stavano. C’era il figlio di Ias Gawronski, Stas’ Gawronski – si pronuncia stac come Hutch di Stasky&Hutch. Lavora per la Rai e per la Einaudi ed è un bravo ragazzo. Presto si sposerà con Clementina e si vedeva, perché non si staccavano un momento. C’era un attore che qualche anno fa ha interpretato una parte in Classe di ferro, una fiction di Italia Uno. C’era un’ex annunciatrice della Rai. E c’era Giorgio Chianati. Giorgio è un poeta che ha pubblicato per Airon un libretto autoprodotto di poesie che si intitola Poesie, e fisicamente è la copia esatta di Piero Pelù, l’excantante dei Litfiba. Giorgio mi ha detto che quest’anno partirà per il tour di Piero Pelù, seguendolo in tutta Italia fino a Torino. È una persona simpatica, alla mano. Purtroppo assomiglia moltissimo a Piero Pelù, l’ex cantante dei Litfiba.
E a me tra i cantanti piace solo Adriano Celentano, l’ex cantante dei Ribelli.

Nella saletta accanto a me, vestita di rosso, c’era Marzia Castiglione.
Marzia è bionda, con gli occhi azzurri e la pelle levigata e fantastica. È autrice di un brogliaccio di circa cinquecento pagine, che sono sicuro presto qualcuno pubblicherà. Io ho letto qualche riga del primo capitolo e l’ho trovato assolutamente superbo. Un vero pugno nello stomaco. Mi ha fatto pensare che in fondo scrivere non è altro che raggiungere il lettore per davvero, colpirlo dentro concretamente, al di là di discorsi di tecnica e stile. E se prendiamo per buona questa definizione di scrittura, allora Marzia Castiglione per i miei gusti è sicuramente una scrittrice.
Mozzi, senta solo questo incipit:

Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio. Adesso mi domando quand’è che ho cominciato a capire che avevo qualcosa che mi distingueva dagli altri, qualcosa che non permetteva loro di accettarmi, che li metteva a disagio.

A me sembra un incipit semplicemente straordinario – di una straordinaria leggerezza – considerando che Marzia convive dalla nascita con una grave forma di spasticismo.

Devo confessare che Antonio Spadaro mi è stato subito molto simpatico. Del resto è una cosa comprensibile, visto che sono stato a scuola dalle suore cinque anni e Spadaro è un prete. La sua relazione è stata in realtà una sorta di lunga prolusione. Ha cominciato parlando del concetto di speranza, invitando tutti quanti a dare una definizione di speranza. (Piero Pelù ad esempio ha detto utopia). Poi ha detto che i romanzi e le storie in genere partono sempre o da una situazione di cosmo o da una situazione di caos. Cosmos e caos. Se partono dal cosmos possono finire nel caos ma anche nel cosmos, se dal caos nel cosmos ma anche nel caos. Dipende. Ciò che è certo è che la speranza scaturisce da dentro di noi quando ci troviamo in una situazione di disperazione, tanto, ha detto Spadaro, che non possiamo pensare alla speranza senza il suo opposto, che è la disperazione. Solo trovandosi in una situazione di inesorabilità (io ho appuntato: inesorabilità) nascono le condizioni perché vi sia speranza. Speranza e disperazione sono sentimenti interioriesteriori. Da una situazione esteriore di disperazione trova scaturigine dentro di noi, interiormente, la speranza. Poi Spadaro ha detto che in un’opera letteraria la speranza sta nell’incipit. E qui a me è piaciuto molto. Perché mi è sembrato nonbanale dire che l’incipit di un romanzo è la sua stessa speranza. Per tanto tempo ho sentito parlare di incipit di romanzi come contratti col lettore, accordi preventivi, stipule preliminari, dunque sentire parlare di speranza mi è suonata una cosa se non nuova almeno romantica. L’inizio di un romanzo è la sua speranza. La speranza ha detto Spadaro, e poi molto bene Michela Carpi, è come una fionda della quale tendo il più possibile l’elastico per colpire il punto più lontano possibile. Contrapposto al materialismo plutocratico della scena letteraria veneta e al giovanilismo marxista della scena letteraria emiliana, lo spiritualismo animista della scena letteraria romana quasi mi ha commosso.
Già.

Poi Spadaro ha cominciato a parlare male di Laura Pugno. Ce l’aveva a morte con Laura Pugno. Laura Pugno in una frase del libro La pace con un fiume che ha tradotto, ha saltato due verbi, perché non si è accorta che quella frase è in verità una criptocitazione ripresa da San Paolo. Io ho subito cominciato a prendere appunti. Antonio Spadaro se ne è accorto e ha cominciato subito a dire che Laura Pugno è simpatica, è brava e guai a parlarne male… Così ho subito smesso di prendere appunti. Spadaro ha concluso dicendo che Laura Pugno ha proprio cannato la traduzione.

Nel breve intervallo seguito alla relazione di Spadaro, ho scoperto che Michela Carpi non è una scrittrice di racconti erotici. Quando l’avevo conosciuta a Ricercare, Michela mi aveva detto di essere scrittrice di racconti erotici e allora io le ho subito detto: mandami qualcosa, leggo volentieri. Purtroppo era tutta una bufala e un po’ è stata una delusione. A Michela ho detto che probabilmente non avrei scritto nessun reportage, perché l’ambiente mi piaceva troppo e poi nessuno prendeva strafalcioni. E deve essere stato a causa di queste parole che Michela, desiderosa che io scrivessi il reportage a tutti i costi, e un reportage quanto più sprezzante e corrosivo, durante la sua relazione ha preso una serie di strafalcioni. 18 strafalcioni. Lo ha fatto apposta. Michela ha raggiunto l’apoteosi quando nello spiegare un racconto di Silvio D’Arzio, apposta per me ha disegnato sulla lavagna col pennarello blu una casa a forma di pisello .
Michela ha parlato della costruzione del personaggio. Ha detto che a lei piacciono le storie dove i personaggi partono da un punto A e arrivano ad un punto B, che può essere anche C o Z. Ha anche disegnato alla lavagna una linea che parte da A e arriva a Z e sulla linea, retta, ha disegnato un’altra linea, sinuosa e confusa, che stava a rappresentare tutte le peripezie e le non linearità di un percorso solo all’apparenza non lineare, trovandosi A e Z comunque sullo stesso semiasse cartesiano.
A me quest’idea evolutiva del personaggio è sembrato un approccio molto agostiniano, storicistico, perfettamente in linea con il clima cattolico di Bombacarta. Michela sosteneva che a lei non piacciono i personaggi puntiformi, che ci sono, è vero, ma non le piacciono. Io, che sono il paladino dei personaggi puntiformi, e che peraltro tendo a pensare me stesso e a rappresentarmi come un personaggio puntiforme, inchiodato in se stesso e nelle sue tre o quattro convinzioni irremovibili, avrei voluto scatenare una rissa fisica con Michela, Spadaro e Piero Pelù, per questa cosa, sostenendo che noi tutti non si va da nessuna parte, ma che si rimane quello che si è sempre, e che l’unico cambiamento possibile è un cambiamento di prospettiva nella visione globale di se stessi, per cui tutto ciò che consideriamo difetto, non smettiamo di considerarlo difetto, no, ma semplicemente cominciamo ad adoperarlo, a servircene, a costruirci sopra un business, volendo…. Altro che maturazione, altro che bildung, altro che catarsi… Ma non l’ho fatto. Mi sono limitato ad appuntare.

La relazione di Michela scivolava via liscia, nonostante i diciotto strafalcioni, la casa a forma di pisello e l’espressione “retroproiezione mitica” – che poi lì suonava redrobroiezione mitiga. E io non sapevo che cosa cavolo inventarmi per il mio resoconto.
Per fortuna, alle dodici e ventuno, è sceso un elicottero dal cielo e ha cominciato a mitragliare verso di noi.
Noi abbiamo chiuso porte e finestre e ci siamo buttati tutti sotto le sedie. I vasi di gerani sulla terrazza sono saltati da tutte le parti e sono volate schegge di vetro dappertutto. Spadaro continuava a dire: state calmi, state calmi, non è nulla, non è nulla. Paolo Papotti ha tentato la fuga ma è inciampato e si è pressoché spappolato sull’exannunciatrice della Rai. Stas’ Gawronski e Clementina si baciavano sotto le sedie. Io prendevo appunti.
Poi l’elicottero è andato via.

Durante la pausa pranzo io Paolo Papotti e Manuela Ardingo siamo andati in giro per Roma alla ricerca di un gelato. Abbiamo girato buona parte delle gelaterie tra Via Condotti e il Pantheon. Poi abbiamo preso un gelato nei pressi del Pantheon – io ho preso cioccolato, nocciola e pesca – e abbiamo osservato il Pantheon da fuori. Papotti ci ha anche parlato di un particolare sistema di ventilazione dentro il Pantheon, perché oltre che scrittore è anche ingegnere. Manuela Ardingo, autrice del libro Un pomodoro sull’Hardenhergstrasse e a sua volta laureanda in ingegneria, era molto interessata. Io leccavo il gelato. Ho telefonato al mio amico che lavora a Italia Uno e che mi ha ospitato a casa sua fino a lunedì – e la cui ragazza, Lidia, proprio lunedì, mi ha accompagnato fino a San Pietro dove abbiamo guardato le file di persone che aspettavano di salire sul cupolone o entrare nella Cappella Sistina e che poi mi ha portato a Castel Sant’Angelo e che voleva le prendessi una sedia di legno gialla vicino un bidone della spazzatura perché le piaceva da mettere in casa che ha arredato con altre cose prese dai bidoni della spazzatura e poi dal prato di Castel Sant’Angelo ho chiamato lei, Mozzi, per il cantiere di scrittura, ma ha risposto la segreteria – e gli ho detto che ero arrivato a Roma e che per sera avrei stazionato a casa sua. Poi Papotti, mentre tornavamo, mi ha detto che ormai non ha più libri da scrivere. Poi mi ha detto che presto pubblicherà un nuovo libro, ma non con Fernandel, con un’altra casa editrice. Poi abbiamo parlato di che cosa ciascuno di noi scrive. Papotti mi ha detto: a te che cosa piacerebbe scrivere? Io ho detto: mi piacerebbe scrivere quello che scrivo. Lui ha tirato un sospiro di sollievo. Reportage, dunque. Vorresti fare il reporter, non lo scrittore, dunque: ha detto. Io avrei voluto dirgli che se uno ci pensa bene, non si danno in natura veri e propri scrittori, ma semmai sempre trascrittori, ossia persone che trascrivono esperienze o sentimenti o riflessioni o anche solo cose che li hanno segnati o semplicemente colpiti. Avrei voluto sfoderare subito Dante e dire che a ben guardare Dante è stato in Inferno, in Purgatorio e in Paradiso e poi altro non ne ha fatto che un reso conto, sebbene superbo. Avrei voluto soprattutto dirgli, Mozzi, come diavolo poteva considerare veri e propri reportage quelli che lei mi ha pubblicato su vibrisse.
Ma non ho detto niente perché mi sono accorto di avere metà gelato spiaccicato sulla mano, e sgocciolava.

È stato durante la relazione di Andrea Monda, esperto di Tolkien, che ho cominciato a pensare che fuori dalla saletta di Bombacarta c’era Roma. Ho pensato che Roma è grande. C’è Piazza di Spagna, Piazza Navona, il Colosseo, la Parolaccia. Prima di arrivare a Bombacarta in Piazza di Spagna con Manuela Ardingo avevo visto un cartellone pubblicitario grande come la facciata del palazzo alla quale era appeso. Sul cartellone c’erano due volti, grandissimi. Ho immaginato il mio volto e quello di Manuela Ardingo al posto dei volti sui cartelloni. Poi solo il mio volto, col mio nome sotto – in stampatello color verde speranza. Non c’è niente che mi impressiona di più di un cartellone cinque metri per dieci, o addirittura dieci metri per venti, niente che in un certo senso mi attragga di più. È per questo forse che considero Milano una specie di Paradiso.
Verso la fine del suo intervento – lungo – Andrea Monda ha fatto vedere servendosi di un video registratore le Notti di Cabiria di Fellini, poi un film di Charlie Chaplin, poi il Padrino, tutti esempi di happy end, che nel finale lasciano spazio alla speranza. Alla fine del Padrino, con Al Pacino e James Khan che quasi si prendevano a cazzotti, ma poi facevano la pace e tutto finiva bene, ho visto Andrea Monda, grosso quasi quanto tutta la saletta dove si svolgeva l’incontro, cominciare a lacrimare per la commozione. Poi ha di nuovo preso la parola Spadaro, vero e proprio deus ex machina dell’incontro, e ha detto che la speranza a volte è presente anche in racconti dove si racconta solo disperazione dal principio alla fine e che si manifesta non esplicitamente ma attraverso dettagli all’apparenza insignificanti come porte aperte, finestre aperte, braccia aperte, bocche aperte…
…Peraltro mentre parlava io mi sono accorto di avere la patta aperta…

Per l’ultima relazione abbiamo spostato tutte le sedie sulla terrazza, perché chi teneva la relazione era Massimo Reale, l’ex attore della fiction Classe di ferro e ora attore di teatro. Con gli attori di teatro bisogna andarci cauti, perché quando leggono, gridano, perciò siamo usciti fuori.
Massimo Reale mi è proprio piaciuto. È in gamba. Ha letto dei passi di Samuel Beckett, con molta espressività, leggendo e spiegando il testo, arricchendolo di tanti aneddoti e annotazioni interessanti. (Io ho annotato: I personaggi di Beckett attendono il nulla. Ho annotato: B. mutua dalle slapsticks, cioè dalle comiche mute, gli elementi per le sue commedie. Ho annotato: “Ma Buster Keaton era autistico?”. “No, però non parlava mai”). Beckett è stato un buon pretesto per parlare del nulla, della percezione del nulla e del nonsenso della vita. Ripensandoci non erano discorsi allegri, però il profumo dolciastro dei gerani e il cielo color terriccio Roland Garros sopra le nostre teste, li rendevano piacevoli. Spadaro parlando di Beckett è finito a parlare dell’ironia definendola come “uno sguardo laterale sulle cose”. Ora, io non so cosa voglia significare questo “sguardo laterale sulle cose”, ma per me l’ironia è un modo per esprimere il vuoto di senso della realtà e dei discorsi sulla realtà – specialmente di questi ultimi. Che non vanno confusi con i cosiddetti “tentativi di ironizzare su qualcosa”, che non c’entrano nulla con l’ironia, sono solo atti di presunzione, sono disprezzo, come se le cose avessero prezzo, e quindi una qualsivoglia forma di valore: sono dunque atti che attribuiscono valore (basso) alle cose.
Non c’entrano con l’ironia.
L’ironia è un abito mentale e non è disprezzo delle cose: è compartecipazione alla loro intima essenza, che è il nulla.
L’ironia è una festa amara di fronte al vuoto.

Poi legandosi alla tematica del vuoto e dell’ironia Spadaro, ancora lui, è giunto a parlare della tematica dell’eccesso di formalismo degli scrittori contemporanei. Gli scrittori contemporanei, ha detto Spadaro, ormai scrivono solo badando alla forma, senza più badare al senso di siffatta forma. Io avrei voluto dire che Spadaro dimenticava tutta la lezione del Novecento e degli strutturalisti e avrei voluto citare il libro Della Grammatologia, e ricordare che il messaggio è il medium e che il significato di un’opera è dato dal suo significante, ossia dallo strumento di rappresentazione adoperato nell’opera e dal suo grado di espressività. E poi avrei voluto scagliarmi non contro la forma ma, semmai, contro la formina, la formuletta, lo stilino nei quali troppo spesso si riversa e costringe il talento di un autore.
Ma, insomma, sulla terrazza si stava bene, perché appesantire i discorsi con simili astruserie?

Caro Mozzi, all’inizio dicevo che mi deve aiutare a risolvere i problemi che riguardano la stesura del resoconto. Ho molte riserve in proposito. Perché non c’è molto su cui lavorare. Vede, nell’incontro del 31 maggio si respirava un clima generale di semplicità e di spontaneità e quando si respira un clima del genere, anche di fronte a diciotto strafalcioni, al sosia perfetto di Piero Pelù, a una casa a forma di pisello disegnata sulla lavagna, a un elicottero che scende giù dal cielo e comincia a mitragliare contro tutto e tutti e solo Dio sa cos’altro ancora, ebbene un resoconto ironico, anche di un’ironia che sia del tipo più educato possibile, oppure del tipo il più possibile pecoreccio, non può funzionare, non avrebbe senso, sarebbe esso stesso ridicolo e a sua volta facile oggetto di dileggio. Perché, pur rimanendo una persona puntiforme, se c’è una cosa che ho imparato dall’incontro di Bombacarta è che la cosa più difficile è dire cose semplici con la propria voce. Se una persona riesce a dire cose semplici con la propria voce difficilmente dirà cose poco interessanti, perché ogni cosa, anche se poco interessante, parlerà sempre di lei, e di tutto il mondo dentro di lei, al di là delle cosa detta o non detta, ma proprio per il modo di esprimerla, in virtù di una sorta di metasignificato, di metalinguaggio. E una conquista così importante secondo me non può essere oggetto di ironia.
Così…
Spadaro, Michela e tutti gli altri un po’ si aspettano che sia io a scrivere il resoconto, perché sotto sotto sperano di finire su vibrisse e di segnalarsi a lei, Mozzi, che stimano tanto. E ultimamente grazie alla forza delle sue presentazioni dei miei pezzi, io, ai loro occhi, sono diventato uno strumento importante per raggiungere questo scopo.
E tuttavia…
Credo, peraltro, riceverà a giorni una sorta di resoconto da parte di Manuela Ardingo, così pensavo che potrebbe pubblicare quello.
In conclusione, con la presente, vorrei che mi togliesse da questo imbarazzo.
Che cosa faccio, Mozzi?
Scrivo?



La speranza non è la negazione del tragico. Reazioni alla poetica dello scolapasta

Non capita a tutti d’avere un dialogo quasi quotidiano con uno scrittore, io ho questa fortuna. Demetrio Paolin, giovane promessa mantenuta della letteratura italiana mi dedica spesso attenzione e scrive stimolanti speronate. Lo ripeto: la polarità che va incancrenendosi tra noi due è una delle cose più arricchenti della mia vita. Al pezzo sullo scolapasta, Demetrio oppone la sua visione dello scrivere:

Tonino sarei entusiasta di quello che hai scritto, anche se non amo l’immagine dello scolapasta, perché si poteva fare riferimento alla vecchia metafora del secchio, che usa in un suo racconto Kafka e che poi il buon vecchio Calvino ri-utilizza in una delle sue lezioni.
Ci sarebbe da parlare di questo uso retorico che tu fai delle immagini ‘basse’, quasi il voler aderire per forza per scelta ad una sorta di minimalismo anche nei saggi (mi vengono in mente certe cose di Carver, lo so che forse per te questo è un complimento, mentre per me è una sorta di critica velata), ma andremmo troppo lontano.
Ti ripeto sarei entusiasta, ma poi nasce in me una sorta di fastidio, non per la cosa che scrivi tu né per come la scrivi, ma per questo tuo ostinarti nella speranza.
mi spaventa la potenza salvifica che tu dai alla scrittura, la scrittura può salvarti la vita questo è il sottofondo di quello che tu dici; e non ci sarebbe niente di male se questo discorso fosse solo per te, ma tu parli a nome di un generico noi, in cui ad esempio posso starci anche io, o toni la malfa, o davide bregola. Domanda:
sicuro che per noi tre ad esempio la tua ipotesi di salvezza possa essere valida?
La tua cocciuta ragione di speranza, questo tuo principio di tutte le cose, che ha sempre a che fare con il miracolo – cosa è infatti l’incontro con Maria? se non un miracolo, o un colpo di culo direi io, perché io leggo e consumo soldi e tessere alla feltrinelli, ma ti assicuro che non ho mai trovato l’amore lì – non mi convince.

La storia che si racconta in Big Fish non è la mia storia, neppure quella della Storia infinita.
Di me rimarrà giusto le cose che ho scritte, forse, e non tutte e il segreto più profondo di me, proprio come Iago in Othello, verrà con me nel nulla.
Io spero di poter dire come Pavese di aver lasciato un po’ di poesia alle persone, ma so che questo non mi salverà dalla morte, mia corporale, che le mie scritture non produrranno effetti di salvezza, effetti di resurrezione o di palingesi del mondo.
Scrivere non ci salva e non ci condanna, mai.
Scrivere è un gesto, un atto, come fare il pane, come uccidere, come costruire un ponte, come fare il falegname.
Non ti rende diverso, né migliore né peggiore, non ti consegna qualcosa di diverso da dare, qualcosa di più profondo da esprimere.
Io posso aver scritto il pasto grigio, e tu il più grande capolavoro dell’italica letteratura, ma poi nessuno di noi avrà chiaro il mistero iniquo di questo vivere. Sia che tu scriva sia che tu impasti una pizza margherita, beh quel nulla che tu credi di dilazionare con le parole ti farà suo, come farà suo ogni cosa.

Ammiro il tuo entusiamo, sinceramente, ammiro anche la tua intelligenza, ma c’è nella tua prolusione una ’speranza’ che mi sembra non faccia troppo i conti con il tragico della vita.
Forse il vero problema tonino non è vivere al passato, e operare in modo che il presente appena vissuto, e il futuro appena dietro diventino subito passato; no non è questo il problema.
E’ capire che la speranza non è la negazione del tragico.
Paolo, san, se mi ricordo bene, ma potrei sbagliare, dice una cosa del genere: che Cristo si è fatto peccato per salvarci.
Ecco nel tuo intervento manca questo passaggio, manca completamente.
O forse sono io, solito cieco e ottuso, che non l’ho veduto.

d.