Credere nelle storie

Ogni immagine che l’essere umano vede è sempre storica: ha una storia, è il pezzo di una storia, persino la cosiddetta “pura immaginazione” o fantasia. Esse infatti fanno appello, combinano e rilanciano elementi della nostra memoria o della nostra realtà: senza il reale non esisterebbe l’immaginazione.

A sua volta l’immagine può raccontare una storia esattamente come il racconto di una storia può (anzi: deve) suggerire immagini. Sappiamo bene che la lettura di un romanzo spesso è in grado di trasformarci in “registi” di film che “proiettiamo” solo grazie alla nostra immaginazione.

Semplifichiamo: chi fa arte può essere attento all’autenticità e al valore dell’esperienza o alla forza e alla persuasività dell’immaginazione. Nel concreto spesso questi estremi si toccano, ma certo stiamo parlando di due “poli”:
– il raccontare eventi (la narratività, lo “storytelling”), cioè la storia
– il vedere forme (la visività, il “visual”), cioè l’immagine.

Un esempio: Edward Hopper, un pittore americano, nei suoi quadri, trasforma immagini colte dalla vita ordinaria in storie, anzi in un’epica del quotidiano. Dietro le sue immagini si legge una storia e le sue immagini sono, a loro volta, colte da una storia.

In principio c’erano le storie.

Nell’anno che si apre nelle Officine di BombaCarta si parlerà di storie. Il tema dei nostri incontri sarà: Credere nelle storie. È questa, crediamo, la strada per credere anche nelle immagini, che nelle storie hanno il loro vero fondamento.


La boa e la vela

Dal 27 maggio al 5 settembre 2004 nelle sale della Tate Modern di Londra ha luogo un’ampia mostra antologica dedicata al grande pittore statunitense Edward Hopper (1882-1967). Si tratta della più ampia retrospettiva mai dedicata in Europa al pittore americano.

Tra i quadri esposti però sono purtroppo assenti quelli caratterizzati da una fresca luminosità marina quali l’acquerello Yawl Riding a Swell del 1935, e gli oli The Lee Shore del ’41, The Martha McKean of Wellfleet del ’44 e Ground Swell del ’39. Sono opere che emanano un’intensa luce solare, evocano la brezza ed esprimono la passione di Hopper per le barche e il piacere delle lunghe estati trascorse a Cape Cod, dove la costa del Massachusetts incontra l’Oceano Atlantico.
In particolare mi soffermo su Ground Swell.

Il quadro presenta una barca vista da poppa sulla quale si trovano tre (forse quattro) uomini e una donna. Dominano le sfumature d’azzurro del cielo e del mare solcato da onde ampie, profonde e regolari, e i bianchi dei cirri, della barca, della vela spiegata e dei pantaloni di due uomini. Hopper usa il fermo immagine. La barca sembra sospesa in una sorta di solidità fluttuante davanti a una boa inclinata, della quale si vedono anche i bordi corrosi dall’acqua marina e, sulla sommità, una campana che certamente, nella posizione in cui si trova, sta suonando.

I volti dei personaggi sono tutti rivolti verso di essa e il suo suono. Il loro è uno sguardo intenso, assorto, come se stessero contemplando un oggetto carico di significati nascosti e profondi: una terra di mezzo, a suo modo? un limite invalicabile? oppure una direzione? un senso? una salvezza? Forse tutto questo insieme. Barca e boa delimitano un triangolo di cui il lato più ampio allaccia la punta sinistra della boa (che comunque segna un limite, un confine) all’estremità superiore della vela spiegata (che è segno del viaggio in corso). La direzione è data da un triangolo di cirri nel cielo luminoso che rivolge il suo vertice in direzione dell’orizzonte ininterrotto.

Hopper dunque fa vibrare il suo vivo desiderio di una forma di «annunciazione» anche alla fresca brezza marina e al brillante chiarore del bianco e dell’azzurro… L’importante è trovare una boa e una vela, nella scrittura come nella vita.


Felicità delle storie

Come finiscono le storie?
Chi lo sa? Nessuno. Lo si può intuire, forse. Si può andare per indizi, sospetti, tracce. Si può intuire qualcosa dallo svolgimento della trama (o dagli eventi della vita). Ma si può dire che ogni fine sia la logica conclusione di premesse date? Se così fosse, la vita sarebbe un sillogismo. No, in genere, no. Almeno per le storie che hanno a che fare con l’uomo e la sua libertà. Se però non ci fossero fili di connessione tra l’inizio, lo svolgimento e la fine, allora la storia sarebbe inumana, astorica, in fondo inutile.
Allora ogni storia, ricca (o povera) del suo passato, è aperta a qualunque cosa possa accadere. Spesso è proprio la conclusione (insieme con l’incipit) a dire la qualità di una storia narrata. È qui che si gioca l’abilità di un narratore.
Tra le tante forme di conclusione ne esiste una un po’ banalizzata, in verità: è l’happy end, il lieto fine. Lo conosciamo tutti: “E vissero tutti felici e contenti…”. Come mai un finale del genere irrita molte persone, specialmente se adulte?
Sì, certo, perché la vita è complessa e ormai chi si può permettere di dirsi “felice e contento”?
E se invece la felicità con cui si può concludere una storia fosse la stessa linfa che la sostiene in sottofondo e che, a tratti, emerge come da una falda sotterranea? Alcuni filosofi hanno trovato nell’angoscia la sensazione emotiva originaria dell’uomo. E se invece fosse la meraviglia, lo stupore, la consolazione, la felicità? Quali sono le storie che si riconoscono radicalmente nell’angoscia? Quali quelle che si riconoscono nella felicità? Un dato è comune tra le seconde: il senso della novità inaspettata, del chiarore, dell’inizio. Così come la storia in forma di poesia scritta da Raymond Carver e che si intitola Happiness, appunto, Felicità:

Talmente presto che fuori è ancora buio.
sto alla finestra con il caffè
e le solite cose del mattino presto
che passano per pensieri.
A un tratto vedo il ragazzo e il suo amico
salire per la strada
per consegnare il giornale.
Portano berretto e maglione,
e un ragazzo ha una borsa sulle spalle.
Sono così felici
che non dicono niente, questi ragazzi.
Penso che se potessero, si prenderebbero
sottobraccio.
È mattino presto,
e stanno facendo questa cosa insieme.
Essi avanzano, lentamente.
Il cielo si sta facendo più luminoso,
anche se la luna ancora pende pallida sul mare.
Una tale bellezza che per un attimo
morte e ambizione, perfino amore,
non riescono a intaccarla.
Felicità. Arriva
inaspettata. E va al di là, davvero,
di ogni chiacchera mattutina su di essa.


La storia è altro da sé

La storia è sempre altro da sè.
Mi spiego meglio: chi vive una storia (cfr l’editoriale del mese scorso) la vive in prima persona e dunque ne è, in qualche modo, protagonista. Se giochi a calcio, se vivi un grande amore, se cominci a svolgere un lavoro, se rispondi a una vocazione, sei tu a farlo. Questo è chiaro. Tuttavia quel che vivi è una situazione che non coincide con te stesso e che ti spinge fuori di te. La storia che vivi non sei tu, ma è la storia che ti sollecita, ti chiama, ti interpella, ti interroga, ti smuove,…

Vivere veramente una storia è sempre un’esperienza di alterità nella quale ci si gioca. Chi è che non vive storie? Chi è imbozzolato dentro se stesso, chi è chiuso a riccio, chi è indisponibile a essere toccato dall’esterno. Chi scrive storie è colui che sa farsi scalfire, che è disposto a uscire da sé, a osservare, a farsi coinvolgere. In caso contrario la scrittura sarà solo un girare attorno a se stessi e dunque a vuoto.

Le storie dunque vanno attese più che cercate. Le storie ci vengono incontro come in una “visitazione”. A volte cioè avviene d’improvviso come in una illuminazione e allora diciamo: “ecco, lì c’era una storia e io non lo sapevo! Me ne rendo conto solo adesso!”. A volte invece ci vengono incontro lentamente, prendono forma biologicamente in noi e davanti a noi e magari ce ne accorgiamo solo dopo averle vissute. Così le storie ci raggiungono – per dirlo con i versi di Ruth Fainlight nella poesia Visitation – come

un’onda crespa di spuma chiara e silente
come un foglio di vetro che scivola attraverso
la ghiaia che bagna i tuoi piedi prima
che tu te ne accorga e si smorza e svanisce

Allora ecco il compito dello scrittore: aprirsi a una nuova nascita, distillando (non semplicemente “usando”) la propria energia. Si possono applicare altri versi di Ruth Fainlight (The Other):

E questo sarà il compito più lungo: dare attenzione,
aprirmi. Distillare la mia energia
è più difficile che usarla.
Eppure di certo a rivelarne la presenza.
Sarà il suo andare contro le vene della mia natura
che sempre invoca una scelta. Lo sento, sarà doloroso
e forte come una nascita in cui non c’è pausa.

Vivere storie e narrarle significa riconoscere radicalmente e assolutamente che non siamo fatti solo per noi stessi.


I serbatoi di tutte le storie

Da dove vengono le storie?
Alcuni anni fa in Italia è stato pubblicato un volumetto dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi che aveva esattamente questo titolo: Da dove vengono le storie. Proprio un titolo azzeccato, ma non conforme all’originale che invece suonava: Something given, cioè “qualcosa data” o “qualcosa di dato”. Tuttavia titolo vero e titolo inventato rappresentano una bella domanda e una bella risposta.

Dunque: da dove vengono le storie? Le storie sono sempre dei doni che ci vengono dati, dei regali che ci vengono fatti col fatto stesso di essere al mondo. Sono una “grazia”, cioè qualcosa che si riceve gratuitamente. Una vita umana senza storie è impossibile. Le storie esistono: bisogna attendere, aprire bene gli occhi, ascoltare. Se lo scrittore è attento, allora è in grado di elaborare e ordinare quel che sembra un caos e cioè l’esperienza quotidiana. Nelle storie essa viene “convertita” fino a raggiungere quella particolare “presenza reale” propria del simbolo.

Dentro questa “conversione” stanno le domande che costituiscono l’unico vero soggetto per l’artista: qual è la natura dell’esperienza umana? Cosa significa essere vivi, soffrire, provare sentimenti? Cosa significa amare o avere bisogno di un’altra persona? Fino a che punto possiamo conoscere gli altri? O noi stessi? O la realtà che ci circonda? Che senso hanno gli eventi?…
Ma una risposta esauriente e definitiva a queste domande non si può dare una volta per tutte. Allora lo scrittore, come ogni lettore, d’istinto si rivolge a chi una risposta l’ha già cercata e in qualche modo formulata, sebbene provvisoriamente: cioè legge le storie scritte da altri, alla ricerca di risposte, ma anche di domande giuste da porsi. Quanto è difficile porsi le domande giuste!

Tra queste storie, ce ne sono alcune fondamentali, delle storie talmente grandi da costituire un vero e proprio “serbatoio” di storie da cui attingere all’infinito. Giusto per limitarci all’immaginario occidentale, pensiamo alla Bibbia, a quante storie contiene e quante storie ha generato; pensiamo ai miti dell’antichità greca e latina o ai miti nordici; pensiamo alla figura di Ulisse, a quella di Abramo e di Enea. Se si torna sempre alle “grandi storie” è sostanzialmente per un motivo: contengono molte risposte, ma soprattutto molte domande “giuste”.


Scazzottando con l’angelo

A mio padre piaceva il pugilato. La letteratura è stata spesso intesa come un «cruento atto esistenziale» (B. Cattafi), un «corpo a corpo» (P. V. Tondelli), che vive nello spazio di un ring. Ho scoperto (con troppo ritardo) che il pugilato è uno degli sport più «letterari» che esistano.

La scrittrice americana Flannery O’Connor, all’interno di una lettera del 17 gennaio 1956, si descrive così in un ricordo biografico: «Ho fatto i primi sei anni di scuola dalle suore. […] Fra gli otto e i dodici anni avevo l’abitudine di chiudermi ogni tanto a chiave in una stanza e facendo una faccia feroce (e cattiva), vorticavo torno torno coi pugni serrati scazzottando l’angelo. Si trattava dell’angelo custode del quale, secondo le suore, tutti eravamo provvisti. Non ti mollava un attimo. Lo disprezzavo da morire. Sono convinta di avergli addirittura mollato un calcione finendo lunga distesa».

Il senso di quest’immagine va ben al di là del momento al quale risale come esperienza vissuta, fino ad essere chiave di lettura della sua esistenza di scrittrice: Flannery O’Connor rimase una bambina che scazzottava con l’angelo custode che non la mollava un attimo. Ce lo conferma un suo saggio, frutto di una conferenza tenuta alcuni mesi prima della morte, nel quale sostiene che lo scrittore deve lottare «come Giacobbe con l’angelo […]. La stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale».

Questa visione pugilistica va precisata e definita meglio per scoprire alla fine come questo «scazzottare l’angelo (socking the angel)» non sia che il travaglio di un parto drammatico e folgorante, privo di ogni ninnolo consolante o fiocco agghindato.

Da questa lotta nasce l’«arte» della O’Connor, che scrive in maniera netta, quasi perentoria: «io, per arte, intendo scrivere qualcosa che in sé ha valore e funziona (works in itself)». Il testo «lavora in se stesso», cioè è efficace, se questa lotta (che viene nominata in vari modi: wrestle, encounter, il verbo to sock proprio dello slang) è attiva.

Se un testo non «funziona» così, allora è estraneo all’arte.


…che mondi possa aprirti

Esistono storie grandi e storie piccole.
Parliamo qui di storie narrate in racconti, romanzi o anche poesie.
Qual è la differenza tra storie grandi e storie piccole? Cose le distingue? In che senso una storia è grande e una è piccola? Non si tratta di una differenza di valore nel senso che una storia più è grande più vale. No.
Proviamo a capire cosa le distingue.
Per “grande” si può intendere una storia che deve rappresentare una totalità capace di dar conto insieme sia di uno sfondo universale, ampio (il conflitto tra bene e male o anche un confronto tra due potenze,…), sia degli avvenimenti degli individui o, se vogliamo, dell’eroe che su questo sfondo “epico” si staglia. La storia piccola invece può essere quella che vive in uno spazio più ordinario, normale, dando vita a quella che qualcuno definisce l'”epica del quotidiano”.
Abbiamo detto ciò che le distingue. Ma cosa unisce una storia piccola e una storia grande, ma entrambe di grande valore?
A mio parere l’esatto contrario di ciò che scriveva Montale nel suo celebre verso
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti.
Le storie possiedono in se stesse la formula capace di aprire un mondo. Raccontare una storia che significa «spremere» la realtà, cogliendone la sostanza (in senso letterale: ciò che sta sotto, a suo fondamento), ma anche assistere alla sua espansione, alla sua «dichiarazione», per usare ancora un termine di Montale.
Se una storia non dichiara un mondo e non lo spalanca davanti al suo lettore – non importa se in modo realista, o surrealista – non fa compiere al lettore una vera esperienza, non fa conoscere nulla: è vuoto e noia. Anche Montale ha visto un «croco», un bel fiore giallo: coglie la sua grazia, ma l’esplosione fallisce, resta il silenzio, la grazia rimane sorda. Rimane la polvere:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Un racconto che non apre mondi può ridursi solo a polvere (e cioè a tre cose: a ideologia, a sentimentalismo o a «esperimento» linguistico. Polvere, appunto).
Le storie hanno un altro destino.