Scazzottando con l’angelo

A mio padre piaceva il pugilato. La letteratura è stata spesso intesa come un «cruento atto esistenziale» (B. Cattafi), un «corpo a corpo» (P. V. Tondelli), che vive nello spazio di un ring. Ho scoperto (con troppo ritardo) che il pugilato è uno degli sport più «letterari» che esistano.

La scrittrice americana Flannery O’Connor, all’interno di una lettera del 17 gennaio 1956, si descrive così in un ricordo biografico: «Ho fatto i primi sei anni di scuola dalle suore. […] Fra gli otto e i dodici anni avevo l’abitudine di chiudermi ogni tanto a chiave in una stanza e facendo una faccia feroce (e cattiva), vorticavo torno torno coi pugni serrati scazzottando l’angelo. Si trattava dell’angelo custode del quale, secondo le suore, tutti eravamo provvisti. Non ti mollava un attimo. Lo disprezzavo da morire. Sono convinta di avergli addirittura mollato un calcione finendo lunga distesa».

Il senso di quest’immagine va ben al di là del momento al quale risale come esperienza vissuta, fino ad essere chiave di lettura della sua esistenza di scrittrice: Flannery O’Connor rimase una bambina che scazzottava con l’angelo custode che non la mollava un attimo. Ce lo conferma un suo saggio, frutto di una conferenza tenuta alcuni mesi prima della morte, nel quale sostiene che lo scrittore deve lottare «come Giacobbe con l’angelo […]. La stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale».

Questa visione pugilistica va precisata e definita meglio per scoprire alla fine come questo «scazzottare l’angelo (socking the angel)» non sia che il travaglio di un parto drammatico e folgorante, privo di ogni ninnolo consolante o fiocco agghindato.

Da questa lotta nasce l’«arte» della O’Connor, che scrive in maniera netta, quasi perentoria: «io, per arte, intendo scrivere qualcosa che in sé ha valore e funziona (works in itself)». Il testo «lavora in se stesso», cioè è efficace, se questa lotta (che viene nominata in vari modi: wrestle, encounter, il verbo to sock proprio dello slang) è attiva.

Se un testo non «funziona» così, allora è estraneo all’arte.


…che mondi possa aprirti

Esistono storie grandi e storie piccole.
Parliamo qui di storie narrate in racconti, romanzi o anche poesie.
Qual è la differenza tra storie grandi e storie piccole? Cose le distingue? In che senso una storia è grande e una è piccola? Non si tratta di una differenza di valore nel senso che una storia più è grande più vale. No.
Proviamo a capire cosa le distingue.
Per “grande” si può intendere una storia che deve rappresentare una totalità capace di dar conto insieme sia di uno sfondo universale, ampio (il conflitto tra bene e male o anche un confronto tra due potenze,…), sia degli avvenimenti degli individui o, se vogliamo, dell’eroe che su questo sfondo “epico” si staglia. La storia piccola invece può essere quella che vive in uno spazio più ordinario, normale, dando vita a quella che qualcuno definisce l'”epica del quotidiano”.
Abbiamo detto ciò che le distingue. Ma cosa unisce una storia piccola e una storia grande, ma entrambe di grande valore?
A mio parere l’esatto contrario di ciò che scriveva Montale nel suo celebre verso
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti.
Le storie possiedono in se stesse la formula capace di aprire un mondo. Raccontare una storia che significa «spremere» la realtà, cogliendone la sostanza (in senso letterale: ciò che sta sotto, a suo fondamento), ma anche assistere alla sua espansione, alla sua «dichiarazione», per usare ancora un termine di Montale.
Se una storia non dichiara un mondo e non lo spalanca davanti al suo lettore – non importa se in modo realista, o surrealista – non fa compiere al lettore una vera esperienza, non fa conoscere nulla: è vuoto e noia. Anche Montale ha visto un «croco», un bel fiore giallo: coglie la sua grazia, ma l’esplosione fallisce, resta il silenzio, la grazia rimane sorda. Rimane la polvere:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Un racconto che non apre mondi può ridursi solo a polvere (e cioè a tre cose: a ideologia, a sentimentalismo o a «esperimento» linguistico. Polvere, appunto).
Le storie hanno un altro destino.


A che cosa «serve» la letteratura?

A che serve leggere un romanzo o una raccolta poetica? Anzi: a cosa «serve», in generale, la letteratura? Che farsene di parole scarse, e forse senza sole (S. Penna) o di qualche storta sillaba e secca come un ramo (E. Montale)? E’ tutto qui il senso e il peso specifico della letteratura? Sarebbe essa dunque del tutto inabile ad aprire l’orizzonte verso mondi di significato? In realtà, se non si confronta con le tensioni radicali di una vita umana, la letteratura non «serve» a molto. Se un’opera di poesia o di narrativa non tocca queste tensioni è come un «cembalo che tintinna».

Essa infatti riguarda la vita: «Mi interessa la poesia che parla di grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo» (R. Carver). La letteratura può rivelarsi un «cruento atto esistenziale» (B. Cattafi) che vive nello spazio di un ring. Con il testo, sia l’autore sia il lettore, sono cordialmente invitati a fare a pugni.

A cosa serve, dunque, questo saggio? A provare un bozzetto della letteratura. Non intende essere un trattato, ma una sorta di «cantiere» che vuole offrire materiali per la riflessione e l’approfondimento. L’unico tratto marcato dovrebbe risultare il seguente: la letteratura «serve» fondamentalmente a dire la nostra presenza nel mondo e, come uno «strumento ottico» (M. Proust), a interpretarla, a cogliere ciò che va oltre la mera «letteralità» e superficialità del vissuto.

La sola ragione d’essere di un romanzo è di scoprire quello che solo un romanzo può scoprire. Il romanzo che non scopre
una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale

(Milan Kundera)

La verità della poesia è tensione espressiva, lotta con la parole che danno voce all’interpretazione della nostra presenza nel mondo. Il punto di partenza è la concretezza. Con i concetti astratti non si fanno storie. Ma la letteratura non è mai una copia anastatica del mondo. È invece un modo di interpretarlo, cogliendone al suo interno il mistero. Il libro e la lettura sono complici insostituibili di un esercizio interiore. Su queste basi sarà possibile quindi riflettere sul senso della lettura critica, sia accademica sia militante, come anche del significato specificamente teologico dell’esperienza.

A che cosa «serve» la letteratura? (libro)


La verità della fiction

Può una fiction, cioè letteralmente una “finzione”, essere vera?
Quando una fiction è “vera”?
Quando una storia inventata da un narratore risponde a verità?
Secondo un’opinione comune essa è vera se racconta fatti realmente accaduti.

Allora la domanda: i Promessi sposi sono falsi? E l’Odissea? E i Malavoglia? E la Commedia di Dante? Tutto falso? Già sento le voci che dicono “no, nient’affatto”. Cos’è allora che ci spinge a dire che una certa narrazione di un fatto mai avvenuto e frutto della invenzione o della capacità elaborativa di uno scrittore non sia falsa?

Ecco una possibile risposta: la fiction di valore costruisce un mondo. Essa mette al mondo personaggi, storie, vicende, oggetti,… Se la fiction è vera, allora io faccio veramente esperienza di questo mondo che mi si dispiega davanti. Se non lo è, allora mi sentirò come davanti a un videogioco, a uno schermo, a qualcosa che comunque non mi coinvolge nella carne e nel sangue. Se la fiction è vera allora io faccio esperienza di vita.

Ma di quale vita?
Ecco il punto. Non solo di quella narrata! Se fosse così il mio sarebbe solo un di-vertimento, una dis-trazione, un essere portati per un momento altrove. No. Se una fiction è vera io faccio più intensamente esperienza della mia vita e del mio mondo. Se la fiction è vera, il mondo in cui mi immergo nella lettura non è più il mio, quello che conosco (la Yourcenar e i suoi lettori entrano nel tempo dell’imperatore Adriano, come i lettori di Kafka si muovono verso l’irraggiungibile Castello e i lettori di Carroll entrano nel Paese delle meraviglie, etc). Tuttavia sarà proprio a partire dalla lettura di quel testo letterario che io potrò rimettere in questione la mia percezione comune delle cose e la mia personale esistenza.

Ecco allora la virtù paradossale di una fiction vera: farmi entrare in un mondo diverso rispetto a quello della mia vita per farmi fare un’esperienza più viva del mio mondo e della mia esistenza.


Lo schiaffo dello scrittore

Che cos’è la narrativa?
“La narrativa è espressione concreta del mistero: il mistero vissuto”, ha scritto la grande Flannery O’Connor in una lettera alla sua amica Eileen Hall il 10 marzo 1956. E aggiunge che, a suo parere, l’arte del romanzo “è cosa che si vive da soli e allo scopo di cogliere in modo nuovo, attraverso i sensi, il mistero dell’esistenza. Il mistero dell’esistenza è in parte peccato“.

Facciamo il punto della situazione…

– La visione che uno scrittore ha del reale deve essere concretissima. La narrativa deve essere fatta di cose, non di idee. Mai di idee. Tuttavia il concreto vive all’interno di un mistero, il “mistero della nostra posizione sulla terra”.

– Ma come si manifesta questo mistero? Si manifesta, ad esempio, nella forma dell’imprevisto o, addirittura, del grottesco. Allora può accadere veramente di tutto. Anche la violenza gratuita, il bizzarro e il grottesco, misto di comicità e orrore, sono funzionali a una forzatura dello sguardo. Flannery postula la necessità che lo scrittore dia uno schiaffo al lettore, scompigliando la sua intenzionalità visiva nel momento in cui sposta il volto, angolandolo di sbieco. Ciò che salta subito per aria è quel “buon senso” vagamente laico, razionale e illuministico che tanto ammorba la vera ispirazione. È questo il territorio del dramma del bene e del male, della salvezza e della perdizione, della grazia e del diavolo: “Nei miei racconti – scrive la Flannery – il lettore troverà che il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace”. Dunque il senso del male è garanzia del nostro senso del mistero e dunque il diavolo diventa, in qualche modo, “una necessità drammatica dello scrittore”.

(Cfr lettera a Eileen Hall in Flannery O’Connor, Sola a presidiare la fortezza, Torino, Einaudi, 2001 e anche Id., Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Roma, Minimum fax, 2002)


Il sugo di tutta la storia

Cos’è il “sugo” di una storia?
Il sugo, lo sappiamo bene, è un liquido più o meno denso che si forma durante la cottura di un cibo. Qualora bastasse una spremitura si chiamerebbe semplicemente “succo”. Per avere il sugo invece è necessaria una cottura, spesso lenta. Non ci sono scorciatoie. Per cogliere il sugo di una storia è necessario bollirla dentro di sé. Solamente così chi legge coglie il senso di una storia. Il lettore in questo senso è una pentola.

Sugo dunque
– è molto più che “senso”. Il senso di una storia si può intuire da poche battute: esso rappresenta la direzione di una storia, mentre il sugo no. Esso ha a che fare con il gusto e richiede tempo.
– è molto più che “morale” (la morale della favola…) perché la morale è astratta, mentre il sugo è estratto e dunque concreto e concentrato.
Fa bene dunque Manzoni a chiudere i Promessi Sposi con una conclusione che egli definisce proprio “il sugo di tutta la storia” (che guarda caso è “trovata da povera gente”…).

Ma cosa significa assaporare il sugo di una storia (anche della mia storia personale…)? Non significa sapere come va a finire, non significa coglierne il “significato”, non significa capire cosa accade, non significa intuirne la “morale” o gli insegnamenti. No. Almeno in prima istanza, niente di tutto questo.
Significa invece qualcosa di più essenziale e cioè intuire il motore che muove dal di dentro la storia: il suo sangue, i suoi nervi, il suo cuore, ciò che la fa svolgere e guida passo passo il suo sviluppo. Dunque sì, importano i fatti, ma importa ancor di più qual è il motore che li genera.

Così ci sono storie (e ci sono esistenze umane) mosse da un motore potente e altre da un motore asfittico e spompato. Ci sono storie con sugo e altre sciape o “sciocche”, come dicono i toscani. Ci sono storie fatte di “caldo sangue e nervi” (Checov) e storie fatte di acqua distillata.

È questa la vera differenza tra tutte le storie.


Ho una bella storia questa sera?

Si può credere nelle storie?
Alle storie o ci si crede (e allora esse si dispiegano nella loro potenza rappresentativa ed evocativa) o non ci si crede (e allora la pagina e la vita restano mute e dure).
Senza fede non c’è storia che tenga. Samuel Coleridge parlò di una “fede poetica” che consiste nella “sospensione volontaria dell’incredulità (willing suspension of disbelief)”. Aveva ragione.
Le storie richiedono una fiducia di base che conduce all’immersione in un mondo che non è più il nostro, quello solito che conosciamo già. Così la Yourcenar e i suoi lettori entrano nel tempo di Adriano, come i lettori di Kafka si muovono verso l’irragiungibile Castello e i lettori di Carroll entrano nel Paese delle meraviglie,…
Tuttavia è proprio a partire da queste storie lontane che è possibile rimettere in questione sia la nostra percezione comune delle cose sia la nostra personale esistenza. Si avvia un gioco di interpretazioni e significati. Ecco allora la virtù paradossale delle storie: quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso. Occorre dunque entrare con fede in un mondo diverso rispetto a quello della nostra vita per comprendere a fondo il senso proprio del nostro mondo.
Non credere nelle storie significherebbe narcotizzare il reale, spegnerlo, renderlo piatto, superficiale, scarno, secco.
Una vita senza storie e senza fede nelle storie sarebbe ben povera. Lo sappiamo bene: più una persona è ricca interiormente, più ha storie da raccontare e più è disponibile ad ascoltare.
Alla fine di ogni giorno bisognerebbe chiedersi: ho una bella storia da raccontare?