Intorno al jazz: a colloquio con Luca Cerchiari

Luca Cerchiari, musicologo e direttore per L’Epos di Palermo della collana “I suoni del mondo” (musica afro-americana, etnica, popular), ha da poco pubblicato “Intorno al jazz. Musiche transatlantiche: Africa, Europa, America” (Bompiani), un bellissimo libro che contribuisce a ricostruire la carta genealogica del jazz. Perché, come scrive Cerchiari, “il jazz è la punta: celebre, densa, terminologicamente irrinunciabile. Ma l’iceberg è la civiltà musicale afro-americana. Un’area vastissima sia in termini temporali sia in termini geospaziali, compresa com’è stata tra il Golfo di Guinea e il Mediterraneo, l’Europa atlantica e i Carabi, il Nord e il Sudamerica.” L’Africa e la semanticità della musica strumentale, il canto religioso bianco e nero, l’incontro-scontro tra la cultura scritta europea e l’oralità africana, la stagione del risveglio confessionale e il retaggio delle religioni naturaliste e spiritiste africane. E ancora il carnevale e l’aspetto processionale della festa, New Orleans, la marcia e le bande militare, la forma-canzone a stelle e strisce, ma anche il corpo della tradizione classica europea: tutto questo è confluito nel jazz. Luca Cerchiari ha risposto ad alcune domande.

Oggi è quasi un luogo comune: viviamo in un’epoca video-centrica. Eppure nella cultura americana ha avuto una particolare ruolo la “voce”: la voce musicale prima di tutto, ma anche la voce dei dialetti, del gergo, la voce della strada, delle macchine, delle automobili, delle fabbriche, della metropoli. La stessa letteratura americana è ossessionata dal fantasma dell’oralità. Si può allora invertire questa gerarchia tra immagine e suono?

Sinceramente io non credo che solo questa sia un’epoca video-centrica. Certo, siamo molto centrati sulla tele-visione e sulla visione-informatica. Ma l’Italia è da secoli pervasa di una cultura perlopiù visiva. Forse in ragione della bellezza e varietà del paesaggio, del territorio e dell’ambiente in senso generale e relativo ai beni culturali. Non a caso le discipline musicali, nell’Università, ove insegno, sono in minoranza quantitativa – quanto a docenti – rispetto a quelle della tradizione visiva. E lo stesso vale nella scuola media e superiore, dove l’educazione al suono e alla musica è ancora in parte un miraggio. Certo, nella cultura statunitense, orale o meno, l’idea della voce è pervasiva, dallo slang stradale a Frank Sinatra, dallo humming afroamericano alla voce-timbro dei cantanti jazz, da Amiri Baraka a Baraka Osama. Il trionfo dell’immagine non mi pare in contrasto con la forza centripeta della cultura vocale, semmai i due universi trovano confluenza nei dominii vasti e in divenire dell’audiovisivo.

In “Intorno al jazz” lei traccia una genealogia del jazz e “incontra” anche i sermoni che, scrive, sono stati una sorta di laboratorio proto-jazzistico. Il predicatore improvvisa partendo dai testi sacri. La predicazione stessa ingloba tecniche musicali come il call and response. Quanto questo esperienza ha contato per lo sviluppo del jazz?

Trovo che la tradizione del sermone (oggi attualizzata in strutture ospitanti anche gigantesche, come quelle predisposte a Houston dal Reverendo Creflo Dollar, attore di spettacolar-deliranti rituali del Sunday Morning) sia affascinante. In esso è riassunto un fermento culturale e musicale ove Inghilterra e Afro-America confluiscono sincretisticamente, sposando le tesi della laicità all’etica protestante, il catechismo al rigore morale, che spesso, nella realtà non solo attuale, esprime nelle vicende dei predicatori, o telepredicatori, il suo rovescio. Quanto al fatto che il sermone costituisce un’antecedente strutturale all’improvvisazione jazzistica, dubito. La struttura responsoriale e antifonale è un universale culturale, anche se spesso la formazione dei jazzmen, nell’infanzia, è avvenuta anche in Chiesa.

I confini tra parola e musica, parola e suono sembrano particolarmente fluidi nelle cultura a stelle e strisce (come ad esempio nel rap). È tipicamente americana questa reversibilità? Da dove proviene?

Anche qui, si tratta di un universale culturale. L’intera vicenda delle forme di poesia per musica, dal madrigale al blues, ne è permeata.

Il jazz è nato dall’incontro-scontro tra la tradizione europea e quella africana, tanto che in esso pulsa una ritualità africana. Quanto oggi la musica conserva valenze rituali? Oppure oggi si è completamente “liberata” di questa dimensione?

Oggi si assiste a una ritualità del rapporto col jazz. La “gente jazz”, come la chiamava Joachim Berendt, partecipa della spettacolarizzazione di questa musica come a un fatto rituale, spesso conformisticamente, talvolta con moti personali. Tutta la musica odierna, del resto, è partecipe di dimensioni rituali. Il discorso si fa anche troppo ampio, in tal senso, e lo demanderei a etnomusicologi, antropologi culturali e sociologi.

Al di là dei territori del jazz, cosa considera oggi interessante musicalmente? Cosa ascolta Luca Cerchiari?

Molto. Cito in ordine sparso: Erki Sven-Tuur, Barbara Casini, Claudio Ambrosini, Jon Faddis, Laurent Cugny, Stochelo Rosenberg. E il vocalese, cui Giuppi Paone ha dedicato l’ultimo titolo della collana L’Epos di saggi musicali “I suoni del mondo”, da me diretta.

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