Una bambina impudente che vuole imparare
Il talento di Katherine Mansfield, scrittrice di origine neozelandese, ma inglese di adozione, è unanimemente riconosciuto essere nella forma breve del racconto. Amica e rivale di Virginia Woolf, frequentatrice della Londra bohemienne degli anni Venti del Novecento, Katherine Mansfield – il cui vero nome è Kathleen Mansfield Beauchamp – con una prosa scarna e decisa, indaga in modo spietato il nucleo di verità che ogni persona porta dentro di sé, rivelandone spesso e volentieri le caratteristiche di finzione e auto-inganno. Uno sguardo anticonformista, realistico e visionario, capace di veicolare l’inquietudine, l’insofferenza e la ribellione di chi, come lei, fuggendo dal provincialismo dell’ambiente culturale di Wellington, si è gettata nelle passioni a capofitto, travolta da un caos emotivo ed esistenziale, in nome di una libertà senza limiti e norme.
Quando ero uccello e altre poesie (Bagno a Ripoli – Firenze, Passigli, pagine 77, euro 10) è il titolo della raccolta di versi che restituisce di Katherine Mansfield un profilo se non inedito, sicuramente sfumato e complesso. “Ahimé mia cara, non ho poesie. Io non sono un poeta”, recitano le righe di una sua lettera indirizzata a Virginia Woolf. Se la narrativa, infatti, rimane il vero il campo di battaglia in cui sostenere una “lotta” ad armi pari, il confronto con il verso, invece, restituisce alla scrittrice un senso di insufficienza a volte paralizzante: “Tutto! Tutto ciò che io scrivo (…) tutto ciò che io sono (…) resta sulla riva del mare. È una specie di gioco. Vorrei mettervi tutte le mie forze, ma, non so perché, non posso“. L’atteggiamento rispetto alla poesia è quello del timore rispettoso, del dubbio nelle proprie possibilità, dovuto alla percezione, come ben sottolinea il curatore della raccolta, Federico Mazzocchi, “di misurarsi con qualcosa che essa sente, in realtà, come pieno di significato e potenza”.
Il senso di “inferiorità” e inadeguatezza che caratterizza il rapporto di Katherine Mansfield con i suoi componimenti poetici – la maggior parte non concepiti come destinati alla stampa – fanno emergere toni e contenuti diversi rispetto alle prove narrative. In Quando ero uccello, i versi che danno il titolo alla raccolta, il tono è intimo, fiabesco, sommesso; lo sguardo si volge indietro, all’infanzia. L’identificazione Katherine-uccello non rimanda alle planate, alle picchiate, alle migrazioni, ma bensì al tema del nido di foglie “soffici come piume” sull’albero di karaka. Un lessico semplice e fanciullesco esprime un senso di smarrimento, di esilio da una pienezza, un bisogno di protezione. Emblematico a questo proposito l’attacco di Stelle: “Dio d’immensa pietà, / guarda amorevole / questa bambina impudente / che vuole imparare”. Sono lontani i toni impietosi e sarcastici dei racconti, atti a smascherare le debolezze dei propri simili; a cambiare, ora, è la traiettoria dello sguardo, rivolto stavolta verso l’alto: “E c’erano più stelle, molte più / di quanto – persino io! – / avessi mai sperato. / Ero stupita, / Glorioso Augusto! Ero letteralmente sbalordita, / Onnipotente Giusto! / In una parola ero vinta, / buon Dio degli Ospiti – Signore!”. La bambina Katherine non ha paura di mettersi in gioco, di lasciarsi trasportare da un moto di stupore per la bellezza del creato: bellezza imprevista, insperata, eccedente. Esperienza di bellezza che, in quanto veicolo di trascendenza, diviene intuizione di un’alterità, sapienza in attesa di una rivelazione esterna e gratuita.
Nei suoi anni inglesi – gli anni della maturità – Katherine Mansfield pur sperimentando la possibilità di vivere come vuole, si ritrova confinata in un’insoddisfazione senza via d’uscita. È sposata al critico letterario John Middleton Murry, un uomo debole ed egocentrico, incapace di starle vicino; scopre di aver contratto la tubercolosi e inizia a viaggiare da sola per le stazioni termali di mezza Europa. Ma la sua salute continua a peggiorare: prostata, confusa, gravemente malata, cerca le vie più eterodosse per guarire; si rifugia a Fointainebleau, presso la discussa confraternita mistico-esoterica del russo George Gurdjieff, riponendo una disperata fiducia in una sorta di misticismo totalmente disincarnato. Nel gennaio 1923, dopo un lungo periodo di separazione, Murry la raggiunge in Francia, mezz’ora prima che sia colta dalla crisi definitiva che la porterà alla morte a soli 34 anni.
Creatura fragile e vulnerabile, compromessa all’eccesso con la vita, Katherine Mansfield è stata un’artista capace di porre l’interrogativo radicale implicito in ogni uomo: quello che riguarda il superamento della separazione, del sentirsi cioè abbandonato su questa terra, prigioniero di un’autonomia che si fa inesorabilmente sinonimo di solitudine. La sua produzione poetica, in maniera più accentuata rispetto ai racconti, ha dato voce a un desiderio di senso, di superamento di sé, di pienezza, di salvezza, riconoscibili là dove il limite è stato percepito e sofferto, dove la ferita si è aperta, anche se in modo confuso. Quella di Katherine Mansfield, artista perduta tra terra e cielo, rimane una voce, in attesa, sulla soglia.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 dicembre 2009)
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