Parresìa, una virtù scomparsa
Papa Francesco, nel saluto che il 12 febbraio scorso ha rivolto ai Cardinali riuniti per il Concistoro del Collegio Cardinalizio, ha chiuso il suo discorso invitando tutti i presenti ad esprimersi con parresίa nel corso dei lavori assembleari.
Forse molti, leggendo questa parola sui quotidiani, se ne saranno chiesti il significato e magari, avendola cercata sui vocabolari, non l’avranno trovata. Infatti di questo vocabolo del greco antico in italiano non è entrato neppure il calco tramite la traslitterazione, per una questione di traduzione dal greco al latino, ma anche per il fatto che nel corso dei secoli si è perso il valore della virtù che essa indica, per cui è davvero importante che oggi dal Papa venga un invito al recupero, non tanto della parola, ma soprattutto del valore di questa virtù, difficile da praticare, come si può vedere approfondendo il significato del vocabolo.
Parresίa è una parola composta dalla radice pan- nel significato di “tutto” e dalla radice rhe- col significato di “dire”, per cui, in senso etimologico, significa “dire tutto” o meglio “avere la libertà, la possibilità di dire tutto”, per cui in italiano si potrebbe rendere con “franchezza”.
È una virtù che ha fatto la sua comparsa nel V secolo a.C. e di cui si sono perse le tracce nel V sec. d.C., una virtù, quindi, in auge per dieci secoli, poi sparita. A riportare l’attenzione su di essa, nella contemporaneità, è stato Michel Foucault in una serie di conferenze tenute all’Università californiana di Berkeley nel 1938, oggi disponibili nel volume Discorso e verità nella Grecia antica (Donzelli 2005).
L’origine del concetto e della pratica della libertà di parola risale all’antica Grecia, in particolare alle pólis con regime democratico, dove la parresía, cioè il dovere morale di dire la verità, rappresentava la facoltà per i cittadini di condizione libera di esprimere liberamente la propria opinione durante le assemblee pubbliche che si svolgevano nell’agorá.
Il termine compare per la prima volta nella tragedia Φοίνισσαι (Fenicie v. 391) di Euripide, databile tra il 411 e il 408 a.C.
Anche Socrate, Platone e Aristotele ritengono che vi sia uno stretto collegamento tra politéia, esercizio politico del potere, e parresía, cioè il comportamento morale del buon cittadino che parla in pubblico dicendo la verità. Questo avvenne appunto ad Atene quando alla parola autoritaria si contrappose il dialogo filosofico con la possibilità di mettere a confronto le opinioni dei partecipanti, e di conseguenza al posto della tirannide si impose la democrazia. In questa visione si pensava che non ci dovesse essere differenza tra ciò che uno pensava e ciò che diceva. La costituzione democratica ateniese, infatti, si fondava sui tre pilastri della isegoría (uguale diritto di parola nelle assemblee), isonomía (uguale partecipazione al potere politico) e parresía, ma ad un certo punto proprio la parresía divenne un ostacolo al corretto uso della politica, quando, potendo ognuno dire sinceramente la sua opinione, che valeva come quella degli altri, ne conseguì una confusione tale da impedire il raggiungimento della verità. Da qui nacque l’esigenza di designare colui che, essendo in grado di conoscere il vero, assumesse il potere politico a cui avrebbe dovuto corrispondere l’obbligo di obbedire.
La parresía si può anche considerare l’esatto contrario dell’astuzia di cui, nel mito, è esempio Ulisse, per cui può essere vista come la sua contrapposizione, ma non il suo superamento, perché anzi, a tempi lunghi, sarà quest’ultima a prevalere nei rapporti tra le persone.
In certi ambienti della Grecia antica, divenne, però anche un’incontrollata e smodata propensione a parlare. In questo senso la parresίa fu uno dei principi filosofici del cinismo, come dimostrano gli aneddoti relativi alla figura di Diogene di Sinope e al suo modo franco e persino un po’ scorbutico di rapportarsi con gli altri, quasi come un cane che abbaia a chi lo disturba.
Leggiamo, infatti, nella Vita di Diogene il Cinico, scritta da Diogene Laerzio:
«[Alessandro] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. “Io sono Alessandro, il gran re”, disse. E a sua volta Diogene: “Ed io sono Diogene, il cane”. Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: “Mi dico cane perché faccio le feste a chi mi dà qualcosa, ma abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi.”»
Della parola parresía si appropriò il Cristianesimo, che nei suoi inizi diede molta importanza al valore della libertà di parola, ma poi anche nel suo ambito questa virtù decadde.
L’uso del termine e degli altri della stessa famiglia è piuttosto raro nell’Antico Testamento nella versione dei LXX: compare solo dodici volte come sostantivo e sei volte come verbo (παρρησιάζομαι = parlo con franchezza). Ad avere questa facoltà nel parlare è la potenza della parola di Dio, la cui Sapienza «nelle piazze fa udire la voce» (Pr 1, 20-21), ma, poiché Dio si alza nell’assemblea divina e giudica in mezzo a tutti, anche al fedele viene rivolto l’invito a «parlare davanti all’assemblea» (Sal 81) con libertà e franchezza. Ma nell’Antico Testamento c’è già in nuce il significato che determinerà il mutamento semasiologico di questo vocabolo con l’avvento del Cristianesimo. Infatti in alcuni passi indica l’atteggiamento dell’uomo che si rivolge con la preghiera a Dio con apertura d’animo e fiducia ( Gb 22,26; 27, 9-10) e anche con una venatura di gioia (Sap 5,1).
Il vocabolo parresía è frequente (31 occorrenze) nel testo greco del Nuovo Testamento dove viene usato con accezioni diverse, ma per lo più per indicare il coraggio e la sincerità della testimonianza che i seguaci di Cristo devono dimostrare di fronte agli altri. È la caratteristica della vita di chi segue Gesù ed è quello che Gesù chiede ai suoi. La parresίa poi nell’assemblea diventa l’ultima possibilità di recupero del rapporto con il fratello che ha sbagliato: in Mt 18,15-17 la correzione fraterna è resa possibile proprio dalla franchezza nel parlare.
Giovanni afferma che Gesù opera con παρρησίᾳ (al dativo), nel significato di “apertamente”, volendo indicare che la sua predicazione si svolge nella sfera pubblica (7,26; 11,14.54; 18,20; cfr. Mc 8,32), però in un senso diverso da quello che intendevano i suoi fratelli (7,3-5): Gesù parla apertamente, non per allusioni (11,14; cfr. 10,24-25) o in parabole enigmatiche (16,29). C’è da dire, però, che Gesù si esprime con franca apertura solo nei confronti del credente (16,25-29); al mondo, invece, parla in parabole, che il mondo non può capire, poiché non vive nella fede.
Il vocabolo compare anche negli Atti degli Apostoli, sia come sostantivo (5 volte), sia come verbo (7 volte). Gli Atti mostrano come alla parresía di Gesù corrisponda la franca testimonianza degli Apostoli: essi, soprattutto Pietro, Paolo, ma anche altri, si presentano e annunciano con tutta franchezza le opere di Dio davanti a giudei e pagani (2,29; 4,13; 9,27; ecc.), anche se questo loro comportamento suscita meraviglia (4,13), divisione (14,3-4) e persino persecuzione (9,27).Tale atteggiamento dei seguaci di Gesù non è un qualcosa che l’uomo possa produrre da sé: esso è frutto dello Spirito Santo (4,31) che dà la possibilità di parlare «μετά παρρησίας» che in questo caso potremmo tradurre “con coraggiosa franchezza”.
Il sostantivo compare anche in Paolo (8 volte e 2 volte nel verbo derivato). Egli vede nella franchezza del testimone l’attuazione dell’autentica predicazione dei misteri di Dio (Ef 6,19). A suo giudizio, la franchezza deve essere mantenuta in ogni momento, anche nella prigionia (cfr. Ef 6,20): per questo parresía diviene in certi casi sinonimo di “audacia” e di “coraggio” (1Ts 2,2), un coraggio però che all’uomo è dato da Dio (ibid.) o si ritrova in Cristo (Fm 8).
C’è poi un altro significato di parresía, molto importante: è la fiducia in Dio, che significa certezza della salvezza, superamento del sentimento di colpa. Il credente pertanto attende con fiducia il giudizio, ma perché il futuro non sia sotto il segno della paura occorre rimanere in Cristo (1Gv 2,28; Eb 3,6; 10,35), che ha già pubblicamente (ἐν παρρησίᾳ) trionfato sulle potenze (Col 2,14) e ha aperto una via d’accesso al santuario (Eb 10,19; cfr. 4,16). Paolo dice anche che chi esprime la fede in Cristo in un amore concreto (1Gv 4,17; 1Tim 3,13) potrà rivolgersi a Dio nella preghiera in tutta franchezza e fiducia, e non sarà svergognato da Cristo alla sua venuta (1Gv 5,14; 2,28).
Anche se il vocabolo ricorre in tutto il mondo letterario greco, fino ai testi patristici del V secolo d.C. con l’ultima attestazione in Giovanni Crisostomo, ed è molto usato nella tradizione cristiana, specie agli inizi, come contrario di ipocrisia, non entra nella lingua latina per il fatto che non viene ripreso come calco da Girolamo nella Vulgata, dove invece è reso con termini latini diversi, secondo il significato specifico e le circostanze. Quando si vuole indicare il parlare franco ed aperto, si usano gli avverbi palam, manifeste o audenter, mentre per esprimere l’audacia e il coraggio si usa il vocabolo constantia, per indicare l’atteggiamento fiducioso con cui ci si rivolge a Dio, il sostantivo fiducia o l’avverbio confidenter, mentre per tradurre il verbo derivato, che indica l’agire con determinazione e fermezza, ci si serve della locuzione fiducialiter agere.
Anche nell’ordinario della Messa in latino, nella formula liturgica che introduce la recita del Pater Noster, l’originaria parresía era stata sostituita con la perifrasi «audemus dicere».
Con il passaggio dalla Grecia classica all’età bizantina e al Medio Evo, come ebbe a dire Michel Foucault, questa virtù non fu più annoverata come tale e progressivamente si perse anche il coraggio di dire la verità, anche perché la morale cristiana imponeva di “non mentire”, non di dire “tutta la verità”. Ma già nel mondo classico dire tutto non sempre era considerato un pregio. Già Platone, ad esempio, riteneva pericoloso per una buona democrazia rivolgersi ai propri concittadini dicendo loro qualunque cosa, anche la più stupida o la più offensiva che venisse in mente. Questo cattivo uso della parresía è menzionato di frequente nella letteratura cristiana dove si indicano, come rimedi, la prudenza e il silenzio. Forse anche queste cautele fecero sì che cadesse in disuso, anche per l’affermarsi di impostazioni più accomodanti nei rapporti interpersonali e pubblici, dettati dalla prudenza e dall’imporsi delle modalità diplomatiche.
La pratica di fare apertamente rilievi sulla vita degli altri perdurò nelle comunità monastiche, nello spirito della correzione fraterna consigliata dal Vangelo, e di qui sarebbe derivata un’espressione tipica dei dialetti dell’Italia nord occidentale. Infatti, come osserva Primo Levi nel suo L’altrui mestiere, in Piemonte e in Liguria era diffusa l’espressione popolare “leggere la vita” sia per “dire in faccia quel che uno si merita”, sia con il significato di “sparlare, spettegolare”. Questo deriverebbe dal fatto che nei conventi, a mattutino, «dopo la lettura delle Sacre Scritture e in specie del Levitico, il priore si rivolgesse individualmente ai singoli monaci, lodandoli per i loro adempimenti e più spesso rimproverandoli per le loro mancanze». A poco a poco «leggere il Levitico» o «i Leviti» avrebbe assunto il significato di «fare una ramanzina» e si sarebbe in seguito trasformato, per prossimità di suono, in «leggere la vita».
Chissà se nel corso dei secoli si è persa questa virtù perché abbiamo perso la parola “parresìa”, o se abbiamo perso la parola perché non si riferiva più a nulla e a nessuno?
Oggi veramente diamo molta importanza alla libertà di parola, ritenuta un concetto basilare nelle democrazie liberali. Il diritto alla libertà di parola non è tuttavia da considerarsi illimitato: i governi possono, nell’ambito delle Nazioni Unite e dei Paesi che vi prendono parte, decidere di limitare particolari forme di espressione, come, per esempio, l’incitamento all’odio razziale, nazionale o religioso, oppure l’appello alla violenza contro un individuo o una comunità, comportamenti che di solito nel diritto di moltissime nazioni, come in quello italiano, costituiscono reato.
Possiamo infine ancora notare che oggi, secondo il diritto internazionale, le limitazioni alla libertà di parola devono rispettare tre condizioni: essere specificate dalla legge, perseguire uno scopo riconosciuto come legittimo ed essere necessarie (ovvero proporzionate) al raggiungimento di quello scopo. La libertà di parola e di espressione in genere può comunque essere praticata solo all’interno di comunità che consenzientemente ne riconoscano il valore, altrimenti possono diventare occasione di scontri e di conflitti, come i recenti fatti di Parigi e di Copenaghen purtroppo dimostrano. Ed anche il Papa, nel suo discorso, si riferiva ad una comunità chiusa e ristretta, quella del Collegio dei Cardinali, in cui il fondamento della Verità è comune e anche la correzione fraterna è riconosciuta come virtù.
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