Tensioni
L’attesa con cui oggi stiamo facendo i conti è strana e difficile da definire: da una parte ci sentiamo inchiodati nel presente, dove siamo costretti ad aspettare, dall’altra siamo trascinati verso il futuro dove avverrà ciò per cui attendiamo, anche se non sapremmo dire cosa attendiamo (se veramente attendiamo) e soprattutto se questa attesa ha un senso. Ci troviamo “stesi”, o meglio, tesi tra questi due poli, il presente e il futuro, come panni appesi a un filo, tenuti per le estremità soltanto da due mollette di legno, aspettando il bel tempo.
È questo il clima in cui poco tempo fa mi sono ritrovata a leggere un romanzo di Benjamin Tammuz, Il minotauro; il significato profondo del libro mi è sembrato essere racchiuso proprio in un’attesa, apparentemente insensata:
Sulla parete era appesa un’acquaforte, un regalo spedito loro da Parigi, dove si vedeva un mostro dalla testa di toro e dal corpo di uomo, che si piegava sulle ginocchia in un’arena, pronto a morire. Dalla tribuna vicina una donna gli tendeva la mano, come cercando di toccare la testa dell’essere agonizzante; tra la mano tesa e la testa gigantesca era rimasta una piccola distanza, e Aleksandr sapeva che se la mano avesse toccato la testa, il moribondo si sarebbe salvato. Aspettò a lungo, forse il miracolo sarebbe accaduto e la mano, nonostante tutto, avrebbe toccato la testa. Ma il miracolo non accadde e Aleksandr chiuse gli occhi.
Tammuz descrive qui un’incisione calcografica di Picasso, la Minotauromachia , che stimola la fantasia dell’osservatore: Aleksandr sente che al quadro manca qualcosa, un miracolo grazie al quale la distanza avrebbe potuto essere colmata e la salvezza raggiunta; un miracolo che egli aspetterà tutta la vita.
Se lo osserviamo anche noi, possiamo notare che la distanza tra la mano della donna e quella del minotauro è ancora minore rispetto a quella tra la mano e la testa. Diventa quasi intollerabile sapere che queste due creature tese l’una verso l’altra, cristallizzate in un quadro, non potranno mai incontrarsi.
Così come è intollerabile credere che la quasi insignificante distanza che c’è tra la mano di Adamo e quella di Dio nell’affresco di Michelangelo, La Creazione di Adamo, rimarrà per sempre lì. In questo caso, la tensione sembra essere tutta concentrata nella figura di Dio (perfino nel Suo volto) che si protende dall’alto verso Adamo, il quale, invece, porge mollemente la mano. Dio è colto nell’attimo in cui ha appena creato Adamo e si sta allontanando da lui oppure sta tentando di raggiungerlo? E l’attesa di ricongiungersi è vissuta più intensamente da Adamo o da Dio?
La tensione dell’attesa sembra essere segretamente racchiusa nel gruppo scultoreo del Ratto delle Sabine del Giambologna: tre figure verticali avvinghiate le une alle altre, colte nel bel mezzo di una lotta per la vita, imprigionate in un’azione che non ha la possibilità di attuarsi pienamente (ma che in un certo senso attende di compiersi); in particolare è la donna a vivere un destino sospeso tra il rapimento e la salvezza, da una parte intrappolata dall’uomo che cerca di trascinarla verso basso, dall’altra tutta protesa verso l’alto, con il braccio sinistro disteso fino allo stremo.
Se potesse muoversi, riuscirebbe a balzare via da quella stretta o non potrebbe far altro che soccombergli? Non c’è modo di trovare una risposta né sembra aver senso attenderla, perché quella davanti a una statua o un quadro è un’attesa che non ha possibilità di finire, eppure un sentore di essa rimane.
Quindi a cosa “tende” un’attesa del genere? Qual è il suo significato?
Per descrivere la sua performance Rest energy, Marina Abramovic, usa queste parole:
Era la rappresentazione più estrema della fiducia. Eravamo entrambi in uno stato di tensione costante, ciascuno tirando dalla sua parte, con il rischio che, se Ulay avesse mollato la presa, avrei potuto trovarmi con il cuore trafitto.
A volte, aspettare in uno stato di tensione è l’unica cosa che si può e che si deve fare. Un’attesa del genere sembra statica, ma in realtà contiene un’energia sì “a riposo”, ma comunque presente. E se c’è energia, c’è anche la possibilità di agire, magari non subito e non qui, magari non nel modo che ci aspettiamo. Attendere un “miracolo” che non può avvenire non è un’attesa vana: la nostra fantasia, nell’attesa, crea scenari possibili, si attiva e ci attiva, anche se magari non ce ne rendiamo subito conto. Di certo c’è che noi non siamo inchiodati sulla tela di un quadro o imprigionati nel marmo di una statua e non possiamo fare a meno di muoverci e di cambiare.
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