Dove e quando nasce il seme fecondo della scrittura?
Quando zampillò dapprima quella fonte che doveva riempire papiri e biblioteche, riversarsi nel grembo accogliente degli scriptoria medievali e poi abbracciare la carta stampata, beffando chi non mancò di affermare che quei nuovi libri prodotti in serie su materiale cartaceo non avrebbero retto all’usura del tempo, per smaterializzarsi, infine, sullo schermo del computer adesso?
Percorrendo un cammino a ritroso troveremmo che presso date civiltà l’uso della scrittura fu inizialmente legato a necessità di controllo politico-economico da parte di un potere centrale su un territorio ad esso soggetto, ma chi e quando per la prima volta nella storia della letteratura occidentale diede spessore culturale a quel gesto di indubbia utilità pratica? Perché e in quale contesto una tale istanza poteva sorgere?
Ecateo di Mileto così racconta: scrivo queste cose come mi sembrano vere, infatti, le tradizioni – dei Greci sono molte e, nel modo in cui mi si presentano, risibili.
Eccolo: scrivo, non più quel verbo dal significato piuttosto generico, usato anche da Omero, “traccio segni”, ma proprio lui, proprio nell’accezione che noi gli riconosciamo: scrivo, cioè mi siedo, raccolgo le mie energie intellettuali e do una forma al mondo, traccio segni che sono colori, suoni, immagini, un nome, il mio, ma anche quello di tanti altri. È il VI secolo a.C., la diffusione della scrittura è assai limitata e le opere, anche se scritte, non sono pensate per la pubblicazione, ma per pubbliche letture: almeno fino al naufragio del sogno universalistico di Alessandro magno quella greca sarà una civiltà che veicolerà il suo sapere, come esemplifica il paradigma omerico, attraverso il tramite della voce e dell’ascolto, soltanto quando il moto degli eventi indurrà stravolgimenti d’ordine politico e sociale tali da generare un mondo sostanzialmente nuovo la tesaurizzazione del sapere attraverso il mezzo scritto, pena anche la conseguente limitazione della sua diffusione, diverrà preponderante.
Ecateo è un logografo, cioè uno scrittore di logoi, opere in prosa, contrapposte all’epos, l’opera in versi. Egli non è il padre di un nuovo genere letterario, la logografia è il frutto del fervore culturale che permeò la sua città d’origine Mileto, ricca e intellettualmente feconda.
Fino al principio del V secolo, quando Atene raggiungerà vette di prestigio e di fascino destinate a perdurare nei secoli, le città ioniche sulla costa occidentale dell’Asia minore furono una fiorente officina, una regione che dalla sua collocazione e dai frequenti contatti commerciali traeva stimoli costanti.
Proprio a Mileto sorse la prima scuola filosofica che la storia ricordi, animata dalla ricerca dell’arché, cioè dell’elemento all’origine di tutto ciò che è, e sulle coste della Ionia nacquero la maggior parte dei logografi di cui oggi conosciamo il nome, ovvero scrittori di genetliaci, fondazioni di città, opere di geografia e di etnografia, che, vista l’intensità dei rapporti intrattenuti dalla gente della Ionia, dovevano avere un fine pratico non indifferente, ma che spesso, per affascinare l’orecchio dell’ascoltatore, indulgevano all’aneddotica e al meraviglioso.
Fu per l’appunto tale fervore d’interesse storico e scientifico, questa ricerca del principio in senso storico e fisiologico a generare la prosa, fu nel momento in cui si iniziò a guardare intorno, rivolti al mondo, e indietro, rivolti al passato, a elaborare domande, abbozzare spiegazioni, preconizzare soluzioni che scrivere divenne necessario, ovvio, caro. Se il patrimonio enciclopedico, che l’epica si portava appresso con il suo repertorio formulare, era fatto per tramandarsi ed essere recepito per mezzo della voce umana, l’attività di riflessione sul mondo richiese di disegnarsi con un supporto grafico soprattutto per essere consegnata alle generazioni future e perché chi scriveva potesse nell’ariosità della scrittura vedere il proprio pensiero prendere una forma nella quale si riconoscesse.
Ecateo fu, dunque, autore di un’opera di contenuto storico Le Genealogie e di una di contenuto geografico La Periegesi della Terra, ma rispetto ai suoi predecessori egli mostra una vena critica e polemica che lo fece salutare già nell’antichità come il primo autore di un’opera storica.
È per questo suo merito che, sia pure in misura esigua attraverso citazioni e frammenti, i suoi scritti hanno fuggito l’oblio, perché per la prima volta usò la scrittura non per riferire quanto appreso dalla tradizione ma per raccontare quei miti, per dire ciò che ne pensava, per introdurre un principio d’opinione che discernesse quanto era veritiero e quanto non lo era o, meglio ancora, quanto gli sembrava veritiero e degno di fede e quanto no.
Non solo una narrazione, dunque, ma un io al principio della narrazione: Ecateo e non altri scrive queste cose, Ecateo e non altri pensa quanto si sta per riportare. Questo sbocciare dell’autore in incipit, quale prima parola e principio assoluto della sua opera, è rilevante perché non si tratta semplicemente di una assunzione di responsabilità, che pure sarebbe plausibile vista la specificazione successiva, è la rivendicazione del ruolo che si sta assumendo quale punto di vista privilegiato per chi ascolterà/leggerà i suoi scritti, è il sunto perfetto di come, quando un’opera nasce, si porta dentro, insieme a quel pezzetto di mondo che vuole rac-contare, anche un po’ del suo autore.
Non è un caso che Erodoto in diversi luoghi delle sue storie faccia riferimento a fatti della biografia di Ecateo: sapere che egli suggerì ai suoi concittadini in guerra contro i Persiani di impadronirsi degli enormi tesori del tempio di Apollo a Didime, cioè che consigliò loro di compiere un’empietà, perché potessero dotarsi di una flotta che gli desse qualche speranza di vittoria, ci restituisce l’immagine di un uomo laico, mosso da una solida razionalità non meno nella sua azione politica che nella sua attività di scrittore. Comprendiamo così come egli potesse affrontare i miti della tradizione, che si erano rinnovati da una generazione all’altra nel canto degli aedi sotto l’egida della protezione divina, insinuando dubbi e avanzando ipotesi, con che spirito riferisse, per esempio, che non Cerbero, il cane degli inferi, sarebbe stato aggiogato da Eracle, bensì un serpente, detto per l’appunto cane de-gli inferi a causa gli effetti nefasti del suo veleno.
Altresì è rilevante che Erodoto ricordi di una discussione di Ecateo con dei sacerdoti egizi a proposito della sua origine divina: solo chi si apre alla conoscenza e al confronto con l’altro può guardare con criticità alla propria storia. Ma di Ecateo sappiamo che non si fece scrupolo di assumere posizioni contrarie al comune sentire anche quando si oppose allo scoppio della guerra contro i Persiani.
Dunque è questo che accade quando la scrittura fissa un racconto, esso si imbeve di chi se ne fa tramite e ci spinge verso di lui per poi scoprire quale senso del mondo egli ci ha riportato.
Eppure nel proemio di Ecateo c’è dell’altro, ci sono un autore, un racconto e l’ossessione di ogni scrittore, un destinatario. Mettendo in primo piano sé stesso non come mercante di verità, ma come scrittore di cose che gli sembrano vere può pungere il suo lettore/ascoltatore con lo stesso pungolo critico che lo aveva mosso, può spingerlo a mettere in dubbio e a rivalutare quanto sta per proporgli, può fargli corrugare la fronte nello sforzo di capire e di giudicare come già lui ha fatto. Per tale ragione Ecateo è il primo storico degno di questo nome, non perché critica, ma perché induce a criticare.
Soltanto quando il principio della narrazione non è più una dea col suo canto , ma un autore col suo potenzialmente fallace punto di vista può dispiegarsi quel fascino che insinuandosi ci costringe ad affastellare biblioteche, quello che ci strega in un pugno di frasi o una manciata di versi, qualcosa di molto più concreto di quanto molte edulcorate rappresentazioni possono farci ritenere, il bisogno di scardinare certezze e il desiderio di ricostruirle, il fardello di un sapere che, nel momento in cui si destituisce dall’ispirazione divina per divenire umano, perde assolutezza e dalla propria umanità trae il senso rassicurante della propria relatività.
Dalla cultura del suo tempo Ecateo traeva l’istinto verso una verità a misura d’uomo che ha la sua forza non nel fatto di essere incontrovertibile, ma di stimolare il giudizio e persino la falsificazione.
La scrittura fissa un ordine, una sorta di io ci vedo questo che è pronto umilmente a farsi da parte all’inizio di ogni lettura, perché in poche parole il senso, il fine della scrittura – senza il quale sarebbe semplice sfarzo di vuote parole – è la sua capacità di incollarci gli occhi a una pagina in bianco e nero, il piacere della lettura, la gioia di vedere illuminarsi nuove vie di senso, la voluttà di lasciarsi commuovere e divertire, ma anche turbare e contraddire nelle nostre certezze, la libertà di contraddire noi stessi quanto leggiamo, di dire che non ci piace, che non ci sembra vero, l’umiltà e il sollievo, infine, di riconoscere con Borges che le parole non sono altro che simboli creati “per la complessa scrittura di quella strana / cosa che siamo, numerosa e una”.
bello davvero bello!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!