Pregare

Quando penso alla preghiera mi immagino un funambolo, una persona che cammina in equilibrio su un filo. Questa persona cammina su una soglia tra il suo stare in piedi e il cadere nel vuoto. La sua è una situazione altamente drammatica. E tuttavia il buon funambolo è tale perché ci fa dimenticare i pericoli e ci abilita a pensare solamente alla bellezza dei suoi movimenti. Il suo legame con la terra è leggero, sottile, forse invisibile, ma è questa sua leggerezza a renderlo solido, dando al contempo la sensazione di totale libertà. Facendo il giocoliere o il ballerino, il funambolo esprime un guizzo che ci coinvolge, esprimendo il nostro desiderio. L’uomo che cammina sul filo è buona immagine per la preghiera. Ma perché?

L’uomo che prega non si sente affatto “appeso” a un filo. Si sente invece “sostenuto” da un filo, quasi impercettibilmente. E questa è una differenza enorme perché chi è “appeso” è l’uomo vittima del destino avverso, chi è “sostenuto” invece è l’uomo che si affida. Si tratta di due condizioni precarie. Siamo davanti a due condizioni precarie. Cosa hanno di comune? La condizione precaria è quella dell’uomo che sa di non essere stabile, fissato, ancorato alla terra, a un luogo determinato. E’ l’uomo che si confronta apertamente con lo spazio che lo circonda, sapendo però che ne n’è altro ancora oltre quello che lui può vedere.

Tutto questo è avvertito dall’uomo precariamente “appeso” a un filo come una minaccia. Sa che se il filo si sganciasse lui precipiterebbe giù. L’uomo che prega vive in realtà la stessa condizione. Sente che vive sull’orlo di un abisso che è il nulla da cui proviene e verso cui sembra essere destinato. Tuttavia questo abisso che gli si spalanca non lo fa inorridire, e non lo fa neanche tremare di spavento. Questo abisso non lo spinge, in realtà, come si potrebbe immaginare, neanche a lanciarsi nel vuoto. No: lo spinge invece a ballare, a giocare, a fare acrobazie,… Questa è la preghiera: un’acrobazia che si slancia sulla fiducia che la propria umanità è quel filo sottile ma teso che gli permette di aprirsi sull’abisso con fiducia.

Il funambolo sul cavo, specialmente se a grande altezza, esegue esercizi che creano ed esprimono una sensazione di libertà illimitata. Parlare con Dio, col Creatore del cielo e della terra non è cosa da meno. La familiarità di un colloquio spontaneo con… Dio ha la stessa grazia naturale di un funambolo, e, se vogliamo, anche la sua ebrezza sorgiva. Chi non fa questa esperienza vive certo anche lui di slanci e tensioni, ma tutte storiche, intramondane. A grandi altezze cresce Dio – chi prega / deve scalare orizzonti, ha scritto Emiy Dickinson. Chi sa che cos’è la preghiera, anche se non sa pregare, comprende che qui si tratta di un’altra esperienza, di qualcosa che è in grado di toccare l’origine dell’essere.

Divo Barsotti, grande figura spirituale dei nostri tempi,  annotava nel suo diario nel 1955: «Come si può osare di credere che la nostra parola veramente gli giunga ed Egli l’ascolti? Ma se lo credi non puoi più vivere che di preghiera». D’altra parte è anche vero che la preghiera è anche legata all’immagine di una devozione da guardare con sufficienza e forse compassione da parte di persone serie e “ragionevoli”. E così accade anche al funambolo, difatti, la cui arte non è mai stata presa molto sul serio, perché di solito si esprime in un circo.

La condizione precaria che invece si realizza nell’essere appesi a un filo fa vedere quel filo come l’unica ancora di salvezza dal baratro. Quel filo diventa non un luogo di libertà ma un’ancora di salvezza. Non è raro che quella corda finisca per chiudersi attorno al suo collo. Purtroppo il precariato come condizione sociale rischia di generare il panico perché sposta la precarietà sul piano della sussistenza, della sopravvivenza. Il funambolo sa *perché* vivere, il precario non sa *di che* vivere.

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  1. Carlo ha detto:

    Grazie Antonio per questo splendido editoriale.

    Mi è servito tanto, venendo da un periodo difficile. Ultimamente però, potrebbe insinuarsi un dubbio: non potrebbe essere che la scelta di ballare, giocare, fare acrobazie sulla corda della propria esistenza sia solo un modo per non guardare in faccia il baratro che ci attende, quasi un ‘tranquillante’? Cos’è che rende oggettivo, sicuro, certo, che “la nostra parola gli giunga ed Egli l’ascolti”? Solo uno slancio di fiducia della nostra umanità?

    Grazie,
    C.

  2. Florinda Realacci ha detto:

    Nel leggere questo editoriale su un tema così delicato, mi è tornato alla mente, con infinita tenerezza, un racconto riportato sugli svariati libretti ‘Piccole storie per l’anima’ e ve ne voglio rendere partecipi riportandolo di seguito.

    “Andrea aveva un solo grande desiderio: una bicicletta. La bicicletta gialla super-accessoriata che aveva visto in una vetrina della città. Non se la poteva più togliere dalla mente. Vedeva la bicicletta gialla nei sogni, nel caffellatte, nella figura di Carlo Magno che c’era sul libro di scuola.
    Ma la mamma di Andrea aveva tante cose da pagare ancora e le spese aumentavano ogni giorno. Non poteva certo comprare una bicicletta costosa come quella sognata da Andrea.
    Andrea conosceva le difficoltà della mamma e così decise di chiedere la bicicletta direttamente a Dio. Per Natale. Tutte le sere Andrea cominciò ad aggiungere una frase alle sue preghiere: ‘Ricordati di farmi avere la bicicletta gialla per Natale. Amen’.
    Ogni sera la mamma sentiva Andrea pregare per ottenere la bicicletta gialla ed ogni sera scuoteva tristemente la testa. La mamma sapeva che Natale sarebbe stato un giorno ben doloroso per Andrea. Non ci sarebbe stata la bicicletta ed il bambino ne sarebbe stato mortalmente deluso.
    Venne il giorno di Natale e naturalmente Andrea non ricevette alcuna bicicletta.
    Alla sera, il bambino si inginocchiò come al solito accanto al lettino per dire le preghiere.
    ‘Andrea – gli disse dolcemente la mamma – penso che sarai scontento perchè non hai ricevuto la bicicletta per Natale. Spero che tu non sia arrabbiato con Dio perchè non ha risposto alle tue preghiere’.
    Andrea guardò la mamma.
    ‘Oh no, mamma. Io non sono arrabbiato con Dio. Ha risposto alle mie preghiere. Dio ha detto: ‘No!'”.

  3. Gabriele ha detto:


    Un elefante si dondolava
    sopra il filo di una ragnatela.
    E siccome il gioco si faceva interessante
    decise di invitare un altro elefante.
    Due elefanti si dondolavan…

    E’ la filastrocca che la mia piccola Rebecca sta ripetendo all’asilo per imparare a contare.
    Quanti grossi elefanti ha portato e porterà la sottile corda della preghiera? Perchè non invitarne qualcun altro, visto che questo gioco è davvero interessante?

  4. Paolo ha detto:

    Trovo la sua riflessione preziosa e stimolante alla Vita

  5. Emanuela Scicchitano ha detto:

    Appena letto l’editoriale sul verbo “pregare” mi sono tornate alla mente, vivide, le parole di Andrea Zanzotto che nella poesia “Al Mondo”, al centro della sua raccolta più importante “La Beltà”(1968), tesse la sua preghiera laica all’esistere che nel suo incipit così recita:
    Mondo, sii, e buono;
    esisti buonamente,
    fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
    […] su bravo, esisti,
    non accartocciarti in te stesso in me stesso.
    La porta d’accesso al significato della preghiera sta nel “non accartocciarsi”, nel non essere monadi: nell’essere interlocutori verso un Tu superiore che non si chiude e non ci chiude ma che, come dice Zanzotto, va «oltre tutte le preposizioni note e ignote» e che ci offre come modello paradossale dell’esistere quello del barone di Münchausen, capace di risollevarsi dalla palude tirandosi su dai capelli: contando sulle proprie forze ma tendendo sempre la mano verso l’alto:
    Fa’ di (ex-de-ob- etc.) –sistere
    E oltre tutte le preposizioni note e ignote,
    abbi qualche chance,
    fa’ buonamente un po’;
    il congegno abbia gioco:
    Su, bello, su,
    Su, münchausen.

  6. Blues ha detto:

    «Come si può osare di credere che la nostra parola veramente gli giunga ed Egli l’ascolti? […]».

    Perché l’ha detto Lui.

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