OpenLab – pt. 11 e 12: Knausgard e Lewis
Prosegue l’OpenLab nella sua versione virtuale, adatta al momento che stiamo vivendo e sperimentazione di un “modello” per la condivisione e il commento di un testo a distanza.
Diego: L’isola dell’infanzia (Karl Ove Knausgard)
Si sarebbe portati a credere che queste fotografie rappresentino una specie di memoria, un insieme di ricordi, anche se privi di quell’“io” da cui essi normalmente scaturiscono. Viene allora naturale chiedersi che cosa significhino. Ho visto un numero infinito di foto, scattate in quegli anni, di famiglie di amici e di fidanzate che sembrano così paradossalmente uguali da confondersi. Gli stessi colori, gli stessi abiti, gli stessi spazi, le stesse occupazioni. Eppure a queste immagini io non collego niente, in un certo senso risultano prive di significato, insignificanti, e questo aspetto diventa ancora più palese quando io osservo le foto delle generazioni precedenti, si tratta soltanto di un aggregato di esseri umani, con indosso indumenti esotici insoliti, che stanno per compiere qualcosa che mi risulta imperscrutabile. È il tempo quello che noi ritroviamo nelle foto, non gli esseri umani che vi compaiono, loro non si lasciano catturare. E questo valeva anche per le persone che facevano parte della mia cerchia più intima e ristretta. Chi era quella donna che si era messa in posa davanti ai fornelli dell’appartamento in Thereses gate, con indosso un abito azzurro chiaro, con un ginocchio premuto contro l’altro e i polpacci separati, in quella posizione tipica degli anni sessanta? Quella con i capelli raccolti e cotonati? Gli occhi azzurri e quel sorriso dolce che era così dolce da non parere quasi un sorriso? Con lei che stringe una mano intorno al manico del bollitore di metallo dal coperchio rosso che si usava per preparare il caffè? Si, era proprio mia madre, la mamma in persona, ma chi era? A cosa stava pensando? Come vedeva la propria vita, quella che aveva vissuto fino a quel momento, e quella che l’aspettava? Lo sa solo lei, e la foto non dice niente di tutto questo. Una sconosciuta in una stanza sconosciuta, tutto lì. E quell’uomo che dieci anni dopo è seduto su una roccia e sta bevendo il caffè dallo stesso coperchio rosso poiché si è dimenticato di infilare nello zaino due tazze quando sono partiti, chi è? Dalla barba nera, ben curata e i capelli neri e folti? Quell’uomo dalle labbra sensibili e gli occhi allegri? Oh sì, certo, era mio padre, il mio papà in persona. Ma chi era per sé stesso, in quel momento come in tutti gli altri, nessuno lo sa più.
Vi propongo questa pagina per tre ragioni.
La prima: descrive esattamente quello che provo io di fronte agli album di famiglia. Quando ho letto per la prima volta questo pezzo, mi sono ritrovato catapultato in un battito di ciglia, senza rendermene conto, in quell’angolo del soggiorno davanti al mobile basso in legno che da sempre è preposto a contenere gli album delle fotografie della storia della famiglia. E ha evocato alcune foto di me bambino e dei miei genitori giovani che, per qualche strana ragione, persistono nella memoria tra tante altre.
La seconda ragione per cui vi propongo questa pagina è la sua carica “materica”. Perché descrive nel minuzioso dettaglio i particolari delle persone nelle fotografie così bene che diventano consistenti. In questo senso trovo che la lingua (anche se si tratta di una traduzione, beh questo lo posso dire…) sia più che materiale, appunto materica.
La terza ragione è che questa pagina contiene due frasi secondo me bellissime: una è “È il tempo quello che noi ritroviamo nelle foto, non gli esseri umani che vi compaiono, loro non si lasciano catturare”; la seconda è “Ma chi era per sé stesso, in quel momento come in tutti gli altri, nessuno lo sa più”.
Tiziana
Ho letto con grande curiosità il testo che ci hai proposto. All’inizio non riuscivo ad “entrare”, poi quella capacità figurativa che la scrittura ha manifestato un po’ a sorpresa mi ha consentito di trovare una strada.
Mi sono fatta aiutare anche dal tuo commento e confesso che per la prima volta mi è capitato di guardare alle foto con occhi nuovi.
Già, cosa pensa il soggetto della foto proprio nel momento dello scatto? E’ il frutto di una serie di passaggi di vita o è “solo” un momento catturato e fissato sulla pellicola?
Le foto hanno un compito strano e particolare: essere un ricordo. Ma ricordo è tante cose.
La descrizione precisa della mamma e del papà ha in questo testo qualcosa di commovente perché anche a me ricorda una serie di fotografie della mia famiglia. E credo sia una sensazione “universale” per chi legge queste righe.
Perché ci sono foto del cuore (non vorrei sbagliare, ma Cecilia le definirebbe flash bulb) che rimangono incise dentro la nostra memoria e rendono i ricordi più vivi, reali, vividi.
E in realtà ogni immagine, ogni foto rappresenta, come dice molto bene il testo, un estraneo, uno sconosciuto.
“… ma chi era? A cosa stava pensando? Come vedeva la propria vita, quella che aveva vissuto fino a quel momento, e quella che l’aspettava? Lo sa solo lei, e la foto non dice niente di tutto questo. Una sconosciuta in una stanza sconosciuta, tutto lì.”
Tutto lì: ma è difficile da accettare. Un’immagine ci “impone” quasi sempre una lettura, una interpretazione. Qui l’autore sembra chiederci rispetto per un momento intimo, per un individuo pressocché ignoto, per una vita che, in fondo, vediamo ma non conosciamo.
Greta
Concordo con Tiziana sul carattere “universale” del testo: anch’io, inevitabilmente, ho pensato alle foto dei miei genitori da giovani. Quelle foto per me rappresentano un’ingiustizia: non potrò mai conoscere quelle persone, mentre loro conoscono me, ovviamente, fin dalla nascita (capite quindi che hanno un considerevole quanto ingiusto vantaggio).
Per questo motivo le domande che il testo ci propone con insistenza mi sembrano pregne di un’ansia di conoscenza, anche se con la consapevolezza di non poter giungere a delle risposte, perché “nessuno lo sa più”. Questo finale mi ha lasciata un po’ con l’amaro in bocca perché, ancora, mi ricorda un’esperienza personale: quando chiedo ai miei genitori di raccontarmi di quando erano giovani, i loro racconti non mi soddisfano, perché manca qualcosa. I ricordi che emergono dalle loro parole sono simili a quelli evocati dalle fotografie e ben descritti nel testo; manca quell’ “io” di cui parla il narratore nelle prime righe.
“Viene allora naturale chiedersi che cosa significhino”: è naturale cercare un significato nel ricordo, o meglio, ricercare una persona reale, andata perduta, nel ricordo. Forse per questo i ricordi, qualsiasi sia la loro natura, ci sembrano tristi: racchiudono e insieme celano qualcosa che non può tornare più ma che non possiamo fare a meno di cercare.
Alessandro
Mi è piaciuto molto e mentre lo leggevo senza accorgermene mi sono accorto che mi facevo domande sul mio rapporto con la fotografia e a non tutte trovavo delle risposte. Intanto è molto bello da un punto di vista descrittivo facendo vedere in immagini quello di cui parla.
Poi quella frase “E’ il tempo quello che noi ritroviamo nelle foto, non gli esseri umani che vi compaiono, loro non si lasciano catturare.”
Ecco, questa mi ha messo in “crisi”, perché mi sono accorto che in casa non ho foto appese. Le foto le vado a cercare spesso negli album di famiglia o nelle cartelle del computer /cellulare, ne avverto un’attrazione e al tempo stesso un volerne stare lontano. Le sbircio per un tempo limitato. Non tanto con quelle delle generazioni che mi hanno preceduto, quanto con quelle della mia, forse perché man mano che ci avviciniamo a “noi” il fatto che qualcosa non si possa catturare è tremendo e tremendamente bello. Per questo ogni volta l’effetto che mi fa è quello di vedere qualcosa che non è più o peggio qualcosa che si è perso. Mi succede anche con quelle che posto sui social, quindi anche con quelle recenti. È questa idea di inafferrabilità di ciò che siamo noi, le persone che amiamo e del nostro rapporto con questo che più mi ha colpito.
Cecilia
Il brano proposto mi ha fatto riflettere prima di tutto sull’impossibilità di recuperare davvero il passato che precede la nostra nascita. Mi viene in mente un episodio successo anni fa: la sorella di una mia amica, che all’epoca avrà avuto quattro anni, sosteneva che il mondo fosse nato con lei e che tutte le cose che conosceva si fossero create nel momento in cui era venuta al mondo. Noi che eravamo già nell’età della ragione ne ridevamo, ma oggi mi trovo a pensare che in qualche modo aveva ragione lei. Per noi le persone che vivevano, amavano e soffrivano come noi ma che non appartengono alla nostra epoca sono solo “esseri umani, con indosso indumenti esotici insoliti, che stanno per compiere qualcosa che mi risulta imperscrutabile”, come a dire che non possono essere più che personaggi di racconti. Anche se le fotografie ne conservano l’immagine e i filmati la voce, siamo costretti ad aggiungere, per figurarceli davvero, talmente tanti dettagli di fantasia che alla fine non ci sembra ci sia tanta differenza, ad esempio, tra un autore del passato e il protagonista di una sua opera, come se fossero inventati allo stesso modo e rielaborati solo dalla nostra mente. E poi ho riflettuto sulla funzione straniante delle fotografie rispetto alle persone che conosciamo ma anche rispetto a noi stessi. E qui riprendo la frase che mi sembra abbia colpito tutti: “è il tempo quello che noi ritroviamo nelle foto, non gli esseri umani che vi compaiono, loro non si lasciano catturare.” Ma quale tempo? Non il tempo dei nostri ricordi e delle esperienze vissute, non il tempo che fa parte di noi, definisce la nostra personalità e ciò che siamo. Una fotografia coglie il tempo esterno, quello oggettivo che non ci appartiene e, anzi, ci sfugge anche concettualmente. E mi torna in mente il pensiero di Sant’Agostino, che scriveva che “né il passato, né il futuro esistono” e che è sbagliato dividere il tempo in passato, presente e futuro perché “queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’anima e non le trovo altrove”. Forse non siamo in grado di riconoscerci nelle fotografie perché quello catturato dall’obiettivo è un tempo falso, non meno dei personaggi del passato inventati dalla nostra fantasia.
Veronica
Alessandro: Dieci anni dopo, in Prima che faccia notte (Clive Staples Lewis)
Quattro fini colonne sostenevano il soffitto dipinto, e tra loro pendeva una lampada che era un capolavoro di oreficeria. Sotto a questa, con la schiena contro una delle colonne, una donna, non più giovane, seduta a filare la sua conocchia, come una grande signora potrebbe sedere nella propria casa, centinaia di chilometri lontano dalla guerra. Menelao aveva passato delle imboscate. Sapeva quanto costa anche a un uomo d’esperienza trovarsi sempre sul ciglio di un pericolo mortale. “Quella donna potrebbe avere sangue divino nelle vene” pensò, Decise di domandare dove poter trovare Elena. Glielo avrebbe chiesto cortesemente.
Lei sollevò lo sguardo e interruppe la sua filatura, ma ancora non si mosse.
“La bambina” disse a voce bassa, “è ancora viva? Sta bene?”
Allora, aiutato dalla voce, egli la riconobbe. E assieme al primo istante di riconoscimento, tutto quello che aveva costituito il nerbo del suo pensiero negli ultimi undici anni crollò in una rovina senza speranza.
Né quella gelosia o quel desiderio, quella rabbia o quella tenerezza sarebbero tornati mai più. Non c’era niente in lui di adeguato per quello che vedeva. Per un istante dentro di lui non ci fu niente e basta.
Perchè non si era immaginato che lei potesse apparire così; mai sognato che la carne si accumulasse sotto il mento, che il viso potesse essere tanto grasso e allo stesso tempo tirato, che avesse capelli grigi sulle tempie e rughe sotto gli occhi.
Persino la sua altezza era inferiore a quella che lui ricordava. La magnifica levigatezza della pelle, per cui un tempo sembrava gettar luce sulle braccia e dalle spalle, se ne era andata del tutto. Una donna che invecchiava; una triste, paziente donna composta, che chiedeva di sua figlia. Della loro figlia.
Lo sconcerto di tutto questo gli strappò una risposta prima ancora di sapere bene cosa stesse facendo. “Non vedo Ermione da dieci anni” disse. Poi si bloccò. Come poteva lei avere la sfacciataggine di chiedergli una cosa del genere, come farebbe una sposa fedele? Sarebbe stato mostruoso per loro due finire in un’ordinaria conversazione da moglie e marito come se niente fosse successo. Eppure quello che era successo lo trovava meno impedito di quello che adesso si trovava davanti.
Ho pensato a questo testo perchè mi sembra collegato idealmente a quello precedente proposto da Diego.
In particolare del testo mi piace la descrizione della scena dentro/fuori del personaggio principale e l’idea che, alla fine dell’attesa, troviamo sempre una realtà inattesa che non corrisponde a ciò che avevamo costruito come visione dentro di noi (“mai sognato che la carne si accumulasse sotto il mento”). Infine, l’idea che proprio questo sia ciò che ci spiazza di più (“Eppure quello che era successo lo trovava meno impedito di quello che adesso si trovava davanti.”) e che ci chiede di non fermarci all’apparenza delle cose.
Cecilia
Mi sorprende come nel testo i personaggi del mito classico si trasformino in uomini e donne moderne. D’improvviso l’immagine cristallizzata per tremila anni di una donna dall’aspetto proverbiale, della semidea figlia di Giove, viene cancellata per lasciar posto a quella di una persona che come tutte è destinata a cedere al tempo. Ancora più moderni sono i pensieri di Menelao. Ogni eroe dell’antichità perseguirebbe il proprio scopo senza incertezze e raggiungendolo sarebbe soddisfatto. Invece Menelao ha fatto male i suoi conti, si rende conto che non desiderava davvero raggiungere l’obiettivo dichiarato di riprendersi sua moglie e che forse il suo desiderio era riavere una persona che esiste ora solo nel suo ricordo. Questa discordanza tra desideri coscienti e incoscienti è molto distante dal mito classico. Mi è sembrato di leggere una riflessione analoga a quella che Pirandello fa fare ad uno dei suoi personaggi de “Il fu Mattia Pascal” sulla tragedia di Oreste. Se per un momento Oreste mettesse in dubbio la liceità della sua vendetta nei confronti della madre Clitemnestra, assassina del marito Agamennone, ci ritroveremmo ad assistere al più moderno dramma del dubbio di Amleto. Un altro dei modelli classici che appare ribaltato è quello del riconoscimento. Fondamentale per lo sviluppo della trama di molti miti, qui il riconoscimento rappresenta una delusione e quasi sembra ostacolare la progressione degli eventi, facendo smarrire a Menelao la volontà che lo spinge all’azione.
Tiziana
Veronica
Federico
Di questo brano mi è piaciuta molto la descrizione dell’invecchiamento di Elena. Una presenza che non corrisponde all’immagine mentale che Menelao ha di lei. Nemmeno l’altezza corrisponde al suo ricordo. Si tratta quindi di un’idealizzazione della figura di Elena o è il semplice scorrere del tempo? Interessante vedere come il soffermarsi un po’ nostalgico di Menelao su dettagli insignificanti quali i capelli grigi, la carne sotto il mento, o le rughe di una non più giovanissima Elena sia stato interrotto dalla concretezza di una madre desiderosa di rivedere sua figlia. Quasi a voler dire che la maturità si acquisisce nell’attesa di chi torna dalla guerra e non di chi la guerra la va a fare.
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