Fenomenologia dello spoiler

Lo spoiler è un’informazione su un’opera che arriva al pubblico prima dell’effettivo contatto con essa: una profanazione e un’anticipazione. Per rendersi conto del valore decisamente negativo di cui si è caricato questo termine negli ultimi tempi, si deve considerare la convergenza di due fattori tra loro strettamente connessi: da un lato il valore fondamentale della “suspense”, che negli ultimi decenni è cresciuto enormemente, specialmente con il progredire delle arti audiovisive, ma che in effetti esisteva già da tempo con i romanzi a puntate; dall’altro il progredire del progresso tecnologico che ha investito le comunicazioni, velocizzandole enormemente. Per ironia della storia negli ultimi decenni sono cresciute le occasioni del “rimanere in sospeso” ma parallelamente sono cresciute le possibilità di “spoilerare”. Basta guardare la proliferazione esponenziale di serie televisive e saghe cinematografiche e il corrispettivo diffondersi virale di spoiler all’uscita di ogni nuovo episodio. Scatta in quei periodi di “avvento” un istintivo meccanismo di corsa ai ripari, di isolamento e quarantena dal mondo, soprattutto da quel mondo, per fortuna ancora di nicchia, popolato da famelici, insonni e sempre aggiornatissimi divoratori di serie. Di qui il successo delle serie in quarantena: il pericolo di spoiler è ridotto.

Ma perché odiamo tanto gli spoiler? [Continua »]


Un arcobaleno senza tempesta, questa sì che sarebbe una festa

Nel 1975 la cantante più reggae dell’allora panorama musicale italiano, Junie Russo, esce alla ribalta con un 45 giri che porta inciso sul lato principale una canzone dal titolo Everything’s Gonna Be Alright: altro non è che la cover di un più famoso brano cantato da Dee Dee Warwick 10 anni prima, We’re Doing Fine e che il pubblico ha molto aprrezzato per l’interpretazione di P.P. Arnold del 1967.

Pochi anni dopo, nel 1977, Bob Marley, insieme con The Wailers, nel secondo lato dell’album Exodus canta Three Little Birds: questo brano rappresenta il canovaccio da cui deriveranno in qualche modo nel 2006 – sempre ad opera di Bob Marley and the Wailers – l’album e la canzone omonimi: Everything’s gonna be alright.

Il testo di tutti questi brani appena citati, nelle sue piccole o grandi variazioni di titolo o di versi, è un invito a non preoccuparsi troppo di ciò che sarà, a non curarsi del destino che attende ogni uomo: una specie di carpe diem in musica che recita “andrà tutto bene”. [Continua »]


Nella selva

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.

Eccoci qua, sprofondati nello sfasamento più totale. Dante ancora non sa che quello è l’inizio del suo grande viaggio, un viaggio che dovrà fare senza averlo deciso, ma ci dice immediatamente di ritrovarsi nello smarrimento, quasi ad ammettere che il primo punto da affrontare è prendere coscienza del proprio limite. E poi quell’uso di nostra vita non concordante con mi ritrovai: di chi sta parlando? Di noi? Di sé? L’effetto di questo gioco è che perdiamo l’equilibrio e ci sentiamo sin dal primo verso risucchiati con lui in quello scenario da brividi.

Cosa ha determinato per Dante questa perdita del ritmo delle cose ordinarie? Troppo spesso, avvicinandoci alla Commedia, ci immaginiamo quello stato di prostrazione come se fosse dovuto solamente ad una condizione alta, intellettuale. Colpa di un certo modo di fare scuola e del suo tentativo di scarnificare la vita degli autori, ponendoli come immaginette sacre sopra altari coperti di incenso, rendendoli cose da addetti ai lavori o tutt’al più roba da secchioni. No. Qui Dante sta parlando di ferite profonde e ancora aperte, di ferite derivanti da una vita pienamente vissuta. Da qualche tempo ha perso Beatrice, la donna per la quale si era acceso il suo cuore per le vie di Firenze; ci sono i dissidi politici con i suoi tanto poco amati concittadini – andate a vedere la condanna con la quale il Sommo venne esiliato in contumacia: accusato praticamente di tutto, se acciuffato, destinato al rogo. E poi la situazione di grave confusione politica dell’Italia e della Chiesa. Ovunque si voltasse, Dante non poteva che sentirsi smarrito. [Continua »]


Vero come la fantasia

Numerose sono le accezioni del termine “fantasia”. La definizione più neutra collega il vocabolo alla capacità, propria della mente umana, di creare immagini e rappresentarsi qualcosa, che sia corrispondente o meno alla realtà. Quest’ultimo inciso è in parte rivelatorio della sfumatura più comune che solitamente vien data alla parola “fantasia”, ovvero quella che la vorrebbe quale sinonimo di “invenzione”.

Chi “ha molta fantasia” è considerato un creativo, chi “si perde in fantasie” è invece un ingenuo, chi “racconta fantasie” è infine un bugiardo. In tutte queste accezioni si dà per scontato che la fantasia coincida con l’invenzione, e che entrambe a loro volta rappresentino un modo di discostarsi dalla realtà, quando non addirittura di mistificarla. In un passo di Cecità, ad esempio, Saramago utilizza il termine quale sinonimo di menzogna, affermando che

“la vita è come un otre, dove fantasia e verità si confondono, Noi siamo tutti ciechi, Ciechi che infilano la mano nell’otre e non sanno cosa tireranno fuori”.

La fantasia, dunque, intesa come contrario della verità. E in tal senso si esplicano anche altre accezioni del termine applicate ai campi delle arti: dai romanzi fantasy e di fantascienza collocati in mondi non reali alle fantasie pittoriche, anche dette capricci, che raffigurano luoghi inesistenti. Eppure, per un verso, il fantasy e la fantascienza spesso utilizzano il filtro dell’irrealtà proprio per raccontare altrimenti la realtà; per altro verso, i pittori nei capricci compongono i loro scorci immaginari riprendendo per lo più paesaggi e motivi architettonici reali. Talvolta può anche accadergli di trovarsi nella situazione paradossale narrata da Julio Cortázar, nel racconto Clio, contenuto in Bestiario, dove un pittore di fantasie, senza averne coscienza, dipinge il luogo realmente esistente in cui, anni dopo, incontrerà la morte. [Continua »]


Fuori dall’Impero

La classica separazione (e opposizione) tra scienze naturali e scienze umane si basa sulla differenza che vi sarebbe tra spiegazione e comprensione del mondo.

Le prime si occuperebbero di fornire una spiegazione della realtà (intesa come un insieme di concatenazioni causali prive di senso intenzionale) in termini di esattezza e certezza, le seconde si occuperebbero di comprendere, attraverso interpretazioni storico-ermeneutiche, la realtà composta da processi intenzionali e interazioni umane. Se questa distinzione già da tempo appare agli studiosi come estremamente problematica (comprendere anche solo un passaggio della storia del pianeta impone una visione trasversale sulle interazioni tra mondi animali, mondi umani, mondi microbici, così come appare evidente la commistione tra causalità e casualità nel susseguirsi degli eventi, anche naturalistici) oggi, questa separazione, appare ancora più priva di significato.

L’idea di poter delimitare la storia al solo ambito delle azioni umane volontarie e, in modo complementare, l’idea di poter comprendere in modo esatto e certo, ponendoci come osservatori disincarnati, la natura che ci circonda, appare sempre più inconcludente. Abbiamo oggi ancora di più la consapevolezza del fatto che, così come i processi storici non sono riducibili alle azioni intenzionali di chi vi ha preso parte, così anche i fenomeni e processi naturali non possono essere ridotti ad uno schema causaldeterministico impermeabile alle interazioni con l’ambiente di più elementi: anche solo per capire come avvenga l’ormai noto fenomeno dello “spillover”, il salto di un patogeno da una specie ad un’altra, è impossibile non considerare aspetti socioeconomici, demografici, storici, oltre che meramente biologici e naturalistici. [Continua »]


Fiori e baionette

C’è un gesto che, dalla metà degli anni ’60, rappresenta la lotta e la vittoria sulla violenza: porgere un fiore a chi punta un’arma.

La celebre foto scattata da Marc Riboud nel 1967, durante una protesta a Washington contro la guerra in Vietnam, racchiude la potenza di quest’atto, così descritto dallo stesso fotografo:

Ho avuto la sensazione che i soldati avessero più paura di lei rispetto a quanta lei ne avesse delle loro baionetta… la ragazza si muoveva, danzava, tendeva le braccia, si distendeva davanti alla prima fila di soldati, prima di raccogliersi in quell’atteggiamento di preghiera , con il fiore vicino al viso.

Offrendo un fiore, si vuole estirpare un seme di morte e distruzione ed è strano pensare come spesso ciò accada per mano di figure piccole e all’apparenza indifese, insignificanti e calpestabili per la logica del più forte; invece, proprio per queste loro caratteristiche, esse sono il fulcro fondamentale del cambiamento. [Continua »]


Che cos’è la fotografia?

È passato circa un anno dall’apertura di un piccolo gruppo informale di fotografia (BombaFoto) che ha prodotto alcune uscite in giro per Roma, la visita a diverse mostre e un sonnolento account su Instagram (@bombacarta.foto). Rispetto alle altre attività di BC, BombaFoto è un po’ trascurato, nonostante ci sia un vivo interesse, e in questo anno ha prodotto poche immagini. Durante l’ultima riunione abbiamo deciso di ripartire da zero, ovvero da una riflessione sulla fotografia in generale e su cosa la fotografia rappresenti per noi in particolare. Il primo passo è stato un articolo apparso sul numero 2020/3 di BombaMag, che riportiamo di seguito.

Bert Hardy, 1940

Ripartiamo allora dalla domanda più essenziale: cosa è la fotografia? La questione sembra triviale, ma se facciamo qualche confronto emerge come si abbia a che fare con una disciplina dalle caratteristiche sfuggenti.

Se chiedessi cos’è (attenzione: proprio “cosa è”: non cosa vi è rappresentato) l’immagine a fianco, tutti mi rispondereste: “è una fotografia” (anzi, la domanda sembra così banale che solo chi si aspettasse un trabocchetto azzarderebbe una risposta diversa). [Continua »]