Orange and Yellow di Mark Rothko

Bruta bellezza e prodezza e atto, oh, aria, fierezza, piuma, qui
fondono! E quale fuoco allora da te erompe, un bilione
di volte quanto più incantevole, più pericoloso, o mio cavaliere!

Non è meraviglia: per un solo passo l’aratro giù nel solco
splende, e blu brulle braci, ah mio caro,
cadono, si escoriano, e sqarciano oro vermiglio

(Gerard Manley Hopkins, Il gheppio)


Ego sum di William Congdon

“Così io e anche tu, dobbiamo rinnovare ogni giorno una coscienza indirizzata alla resurrezione; non c’è altro. Da solo, questo è difficile, se non impossibile. Un altro deve risollecitarci alla vita” (W. Congdon, lettera alla cugina I. Tate)

Bruciare! Bruciare! E farsi solo fiamma
che illumina la notte delle stelle:
la cenere non conta senza quelle,
sentirsi ramo è povera illusione.

Tutto il mondo è un fuoco
che crea e dissolve i soli e le galassie,
la fiamma sola genera le grazie
e le frescure e i fiori d’ogni luogo.

Non temere di bruciare e consumarti,
di sparire nei silenzi dell’Eterno,
che la gloria di Dio si faccia inferno
quando l’albe s’annuncian delicate

(B. Marin, da La vita xe fiama)


Tre alberi di William Gongdon

… tre alberi, due gesticolanti, il terzo quasi conficcato a terra, contro un cielo rosa ed arancio secondo accostamenti cromatici del tutto insoliti per la tavolozza dell’artista; questi alberi sono autentici personaggi di un dramma che rimbalza dall’uno all’altro, alla presenza e sotto lo sguardo di un disco nel cielo, che potrebbe essere un sole scialbo o la luna di un’alba luminosa e silente.

Dall’altra parte della mano tesa
del petalo della foglia della rosa
dell’aria azzurrina e del nembo
del fulmine sghembo tra la pioggia
tutto è pazienza e attesa
che ribalti la pietra pasquale
il lato tombale delle cose:
dall’altra parte il vero disegno
il volto luminoso
il regno il regno il regno.

(Bartolo Cattafi, Dall’altra parte)


Crocifisso 90 di William Congdon

…la figura non ha più articolazioni anatomiche, il tutto è una larva, quasi il bozzolo di quella nuova creatura che esploderà con la resurrezione.

Anche il rapporto cromatico è ribaltato: corpo scuro, fondo luminoso. Il corpo di Cristo è dipinto con una forte tensione verticale, accentuata dal suo dilatarsi nella parte superiore, mentre il restringersi in basso della massa forse allude allo scorcio prospettico dell’alto in basso, in analogia con il Crocifisso di san Giovanni della Croce.

Non c’è più riparo, il mio cuore
è uno sparo,
io sto qui di fronte a quel che si vede

(D. Rondoni, Compianto, vita)


Ancora sullo “sguardo fresco”

Sguardo o linguaggio?

Robinson Crusoe di Daniel DefoeIn un dibattito di qualche tempo fa, Antonio Spadaro parlava di uno sguardo fresco che ci “restituisca la realtà così com’è”, un po’ come quello di Robinson Crusoe che enumera le cose sfuggite al naufragio, e il solo nominarle le rende nuove e preziose; Leonardo Colombati reclamava invece il recupero della libertà totale del linguaggio che, senza relegare la letteratura in un mondo altro dalla vita, sia garante della “buona riuscita” di quello spettacolo che è la letteratura.
Questa discussione, utilissima, sembra a noi convergere verso un punto che ambedue le posizioni sottintendono o intuiscono senza nominare. Senza illuderci di fare sintesi, proviamo a spostare la dialettica altrove, come in una spirale.

C’è forse un motivo “altro” per cui la letteratura è comunque un “altro mondo” senza rinunciare a essere questo che è davanti ai nostri occhi. Partiamo dalle premesse.
I semiologi ci avvertono che quando leggiamo un testo il suo “sapore di verità” dipende dai nostri atteggiamenti proposizionali, cioè da quanto noi affermiamo che sia la realtà. In sostanza ogni nostro sguardo dipende dalle parole che lo esprimono, così come ogni nostra parola non può prescindere dallo sguardo su quel nostro mondo. Bene.
Poi però il romanzo deve cominciare a vivere, come un organismo qualsiasi. [Continua »]


Il pannolone del re della mafia

E un piffero suonava in me topi e topi che non erano precisamente ricordi. Non erano che topi, scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia, nelle montagne e li sentivo smuovere in me, topi e topi fino a quindici volte trecentosessantacinque, e il piffero suonava in me, e così mi venne una scura nostalgia come di ricevere in me la mia infanzia.

Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

PannoloneE ora aspettiamo che u tratturi faccia la stessa fine di Saddam, riscagliato a terra, da icona mitica tornerà un piccolo uomo di neanche un metro e settanta, un uomo che ha governato l’isola triangolare e i destini ad essa legati per quarant’anni.
La Sicilia, i siciliani si sono sentiti abbandonati. Da sempre, dallo Stato, dai vari politici che hanno fatto incetta di voti e ci hanno lasciato soli. Sempre di più. Compriamo l’acqua per cucinare pure un tegamino di pasta. Ci mancano i servizi minimi. E il lavoro è un’utopia. E ora la precarietà a cui hanno consegnato il nostro futuro farà il resto. Il “posto” diventerà il nostro sogno proibito. Andremo avanti, per inerzia. E la cultura? Che farà la cultura scacciasofferenze?

Che possa fare davvero qualcosa non lo credo più dal ‘92. Sono tredici anni che ho perso ogni speranza. Perché non si può far saltare un’intera autostrada per cancellare chi voleva fare davvero qualcosa. Solo perché Falcone l’amava irrimediabilmente questa terra. Hanno fatto esplodere un pezzo di autostrada, il Giudice tornava in volo da Roma, mette piede a terra, decide di guidare e si vede la strada sparire, l’asfalto polverizzato. Una catastrofe che presto hanno avvolto nelle lenzuola. Le loro idee cammineranno sulle nostre gambe, l’abbiamo gridato. L’abbiamo scritto sulle lenzuola. Le lenzuola. Sempre le lenzuola. Che prima stendevamo per far vedere che la nostra sposa era arrivata illibata. Sangue di verginità perdute, speranze perdute. Sempre sulle lenzuola. Che sbiancate dal sole assomigliano a vecchi sudari. Sindoni di civiltà perdute. Lenzuola e lì, dove il Giudice perse la sua battaglia, hanno messo un doppio obelisco. Una minchia di pietra che si incula il cielo.

Intendiamoci, Che la cultura possa fare qualcosa ne sono certo, ma si tratta di vedere che tipo di cultura, sia essa anche quella anti-mafiosa che striscia subdola arricchendosi di arrocchi stilistici che a poco o nulla servono, forse solo a sollazzare la semiotica, tipo Cuffaro che dice: “La mafia fa schifo” su cartelloni tre metri per sei.
Rileggo spesso gli articoli di Pippo Fava:

“Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso di essere straordinariamente intelligenti, quanto meno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo della terra. Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa, e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di quella civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un’altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi i siciliani ad uno ad uno, può anche accadere che taluno riesca ad esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell’arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l’impressione, spesso la certezza, di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo quasi sempre un popolo imbecille.”

Questo lo scriveva nel 1983, ventitré anni dopo siamo qui, a gridare davanti alle telecamere “Bastardo, bastardo!” per poi accettare in complice silenzio una vita che nasce già segnata.
Ti striscia addosso, nel mercimonio elettorale che continua anche fuori dal seggio, nel do ut des, nel rispetto solo per i vincitori. Ci riempiamo la bocca con l’isola che diventa sovente metafora del mondo, metafora che ingloba e fa seccare ogni discorso critico serio.

Nel 1992 le cose, anche se per poco, cambiarono, quelli che per secoli erano stati semplicemente gli “sbirri” divennero “a polizia”, poi però la pace del papavero calò di nuovo e i ragazzi che andavano in motorino senza casco rifecero il vecchio gesto dell’indice e del medio verso il naso, gridando unanimi: “gli sbirri!”. Basta guardare il documentario “la mafia è bianca” per capire qual era la percezione di Provenzano tra le strade. Tutti quelli intervistati, che vedo ogni giorno venire qui, al terzo settore del Comune di Bagheria, dicevano che U Zu Binnu era un benefattore, un uomo giusto.
Riecheggia quella che fu la polemica all’uscita del primo capitolo della trilogia del Padrino, si scrisse un Nilo di articoli contro la moralità del vecchio Vito Corleone.
La risposta è sempre quella: tutto è melodramma in Sicilia. Anche la cattura del “re della mafia”.

La percezione del fenomeno mafioso è qualcosa d’innato, come diceva qualcuno per il linguaggio. La mafia non è quella che spara, è un evento che t’accompagna giorno dopo giorno, in ogni frangente.

E’ la banconota da inserire nel certificato per accelerare i tempi burocratici (una storia bellissima della Disney rendeva pienamente lo spirito: Paperino Portaborse di Giorgio Pezzin e Guido Scala,Topolino 1690), è l’acqua che non arriva mai, sono i treni che sembrano davvero carri bestiame, è il poliziotto che lascia passare il delinquente che guida senza casco, senza assicurazione, senza targa e, senza nessuna dignità, il milite fa la multa al figlio di nessuno che ha solo una lampadina fulminata.
E’ il senso di impotenza, la stasi suprema. Le targhe alla memoria non fanno ricordare nulla, i fiori che poggiano nei luoghi della guerra di mafia anno dopo anno li lasciano marcire al sole. Questo senso d’abbandono è ancestrale, ad esso dovrebbero rivolgersi i futuri governi. Al problema della terra, egregiamente sintetizzato nelle “maledette arance” di vittoriniana memoria. I giovani gridano sin quando possono che non si ridurranno mai come loro, quelli che li hanno preceduti. Gridano, poi l’urlo si smorza e quando qualcuno gli ventila la possibilità di un seppure precario impiego dimenticano gli ideali, arrotolano le bandiere e con l’etichettatrice Dymo tracciano il segno tra le utopie del passato e la Necessità, la vera dea della Sicilia che ci spinge ai più ignobili compromessi.
Amici miei che gridavano più forte degli altri hanno scelto il bavaglio per un posto alla Regione o alle Poste, anche se solo per sei mesi.
(questo pezzo è nato su Vibrisse, ringrazio i lettori intervenuti)


Tsunami a Reggio Calabria: in compagnia di Bruno Rombi

Bruno RombiIl 6 aprile 2006 l’Associazione culturale “Pietre di Scarto” ha avuto il piacere di ospitare a Reggio Calabria, nella sala conferenze del Museo Nazionale della Magna Grecia, il poeta di origine sarda, ma genovese di adozione, Bruno ROMBI, autore di un oratorio dal titolo Tsunami, pubblicato dalla casa editrice Nemapress. Questa iniziativa s’inserisce nell’ambito di un’attività ben più ampia dell’Associazione, che ha nei Convegni Nazionali sulla Letteratura, organizzati con cadenza annuale, momenti di grande valenza culturale e nei laboratori di lettura, scritture creative, autobiografia, dizione, il suo campo ordinario di impegno in città. La serata dedicata al poeta Bruno Rombi è stata presentata dalla Prof.ssa Francesca Crucitti, socio fondatore ed esponente del direttivo dell’Associazione.
In apertura il Prof. Renato Crucitti ha trattato il fenomeno dello tsunami, avvincendo il pubblico con una relazione scientificamente attenta e ricca di interesse: questi sconvolgimenti della natura, ha affermato in un singolare passaggio sottolineato dal pubblico nel corso del dibattito, scarsamente prevedibili ed altamente devastanti, sono momenti necessari alla natura stessa, in quanto segno della sua vitalità; la luna, ha sottolineato, non presenta questi fenomeni che fanno paura per la loro imprevedibilità, ma sulla luna non c’è vita. Il Professore si è dunque soffermato sul significato della parola tsunami, che in giapponese significa onda del porto, spiegando come ha origine un maremoto e da dove trae la sua potenza devastatrice; è un fenomeno che si abbatte violentissimo sulle coste, viaggiando alla velocità di 700 – 800 Km orari e propagandosi per uno spazio vastissimo: ha ricordato che nel 2004 un’onda di maremoto da Sumatra arrivò fino al Madagascar ed ha citato vari altri casi accaduti nell’ultimo secolo, da quello del 1908 che ha spazzato con onde alte 13 metri Reggio, Messina e dintorni. [Continua »]