Come si fa a prendere una decisione?

Ogni scelta della vita può essere un’opportunità o un pericolo (in giapponese si usa lo stesso ideogramma per esprimere entrambe le situazioni). Anzi: forse ogni vera opportunità contiene in sé un pericolo, o almeno un rischio.

Ogni volta che scegliamo qualcosa di importante (anche se con tremore o esitazione), alla fine ci sentiamo confermati nel fatto che la nostra vita è veramente nostra, nel bene e nel male. Prendiamo contatto con la nostra vita. Chi non sceglie, chi va dove lo porta il cuore come una canna al vento, chi si fa avvolgere dalle spire rassicuranti e calde del dubbio scettico, alla fine sentirà la propria vita come “qualcosa” che non gli appartiene, che gli scorre accanto senza lambirlo…

Per questo ogni buon romanzo, ogni buona storia è fatta di decisioni, di scelte. Un personaggio che non sceglie mai nulla è noioso, e la sua storia piatta: comunica una sensazione di inutilità, di mancanza di qualità. Ogni scelta libera, è capace, nel bene e nel male, di cambiare il corso degli eventi, di dare un senso, di aprire prospettive. Leggere storie può voler dire anche imparare a capire quali decisioni prende un personaggio e da questo intuire cosa vuole veramente dalla sua vita. Ecco una buona domanda che ci si può porre leggendo la storia di un personaggio: che cosa decide? le vicende che vive lo provocano a scegliere qualcosa? cosa vuole dalla sua vita?

Ma come si fa prendere una decisione?

La capacità di decidere non è affatto cosa da poco. Per prendere buone decisioni occorre imparare a leggere in quale direzione ci spingono i nostri desideri profondi. Dove ci conducono i nostri desideri? Possiamo immaginare le decisioni che abbiamo prese fino ad oggi come una serie di puntini: se li uniamo con una linea possiamo comprendere la direzione nella quale stiamo andando, l’orientamento della nostra vita, il desiderio che la anima.

Certo, nella vita entrano a far parte elementi incontrollabili: la nostra vita trascende e supera ogni nostra scelta e ogni nostra previsione. E questo è bene, e ci fa comprendere come la scelta è tutt’altra cosa rispetto alla programmazione. Scegliere non significa affatto programmare, organizzare.

Scegliere significa invece essere aperti all’esperienza, essere curiosi di vedere “come va a finire”, accogliendo con fiducia la sfida di essere al mondo. Per questo si dice “essere davanti a” una scelta. La scelta è qualcosa che “ci sta davanti”, ha che fare col mondo e ci mette in relazione con esso. Chi non sceglie non è veramente “venuto al mondo”.

Ma spesso la nostra vita interiore è un caos, un magma di sentimenti e desideri opposti. Spesso sappiamo di volere una cosa e invece facciamo una cosa diversa o addirittura opposta. A volte ciò che crediamo di desiderare veramente ci eccita all’inizio, ma alla fine ci lascia vuoti, aridi. A volte ci rendiamo conto che desideriamo veramente e ci dà veramente gioia ciò che non avremmo mai pensato di desiderare. A volte non sappiamo ciò che vogliamo veramente. Allora a decidere si impara, anche per tentativi ed errori…

Stamattina sono diviso
tra la responsabilità verso
me stesso, il dovere
verso il mio editore, e la spinta
che io provo verso il fiume
sotto casa. C’è il passaggio
invernale delle trote iridate,
ecco il problema. E’
quasi l’alba, la marea
è alta. Proprio mentre
questo piccolo dilemma
si presenta e il dibattito
continua, i pesci
stanno entrando nel fiume.
Ehi, vivrò, e sarò felice
qualsiasi cosa io decida. 

(R. Carver, The Debate)

Scegliere liberamente significa aver imparato a riconoscere la trota iridata, conoscere con stupore ciò che si desidera veramente da questa vita.


Saggio sull’umorismo felino

Tratto da BombaSicilia

Snoopy and the CatCrediamo di conoscere la storia del gatto di Alice nel paese delle meraviglie: il gatto che sorride, e che a poco a poco diventa invisibile, sinché non ne resta che il solo sorriso.

Ma questa non è che la prima metà della storia: il gatto dovrà riapparire, e precisamente – ed è questa la tesi che cercheremo di dimostrare – nella figura di un cane: di Snoopy. Siamo sempre stati profondamente convinti che in realtà Snoopy fosse un gatto, e spie sorprendenti di questa sua natura ci sembravano essere il suo trasformarsi nella figura del “feroce avvoltoio”, o, ad un livello più profondo di analisi, il suo odio per il “gatto dei vicini”, un personaggio assente, come gli adulti, presente nella coscienza di Snoopy, come la “ragazzina dai capelli rossi” in quella di Charlie Brown, ma, in più, presente in infinite occasioni quando distrugge la cuccia di Snoopy (che dorme, come noto, sul tetto, e che ha una sintomatica, a mio giudizio, amicizia con un uccellino, Woodstock), o fa a pezzi il guantone da baseball con cui Snoopy protegge la mano che gli offre la pace. [Continua »]


La pietra che zampilla

underwater by Marco Marincola (CC)

Per scrivere un buon romanzo è necessario avere un discreto serbatoio di esperienza. Lo scrittore è immerso nell’esperienza, lo scrivente fa esperimenti. Per fare esperienza ci vogliono delle condizioni ben precise. La prima e fondamentale è credere che nella vita qualcosa “accade”. Sembra scontato, ma non lo è. Occorre essere consapevoli che la vita non è un flusso ininterrotto e omogeneo di avvenimenti grigi, che si susseguono uno dopo l’altro, i quali acquistano significato solamente nei circuiti mentali o nel gesto sperimentale dello scrittore. Scrivere non è soltanto un fatto di coscienza, di meandri mentali, di pura invenzione: è un fatto di realtà.

La drammatica poesia di Paul Celan ci ha insegnato che scrivere è espirare dopo aver inspirato la realtà. La poesia è “svolta di respiro”. Sempre, anche se la realtà è dura da vivere e si ha solamente voglia di evadere. Anche quando l’aria attorno si fa irrespirabile e il respiro si fa “di pietra”, la parola dello scrittore vince l’afasia incombente. Lo «zampillo» della poesia «schianterà/ la pietra che lo tiene» (Mario Luzi). La scrittura di valore letterario è sempre sorgiva, zampilla dalla pietra, schiantandola, aprendosi un varco. La roccia è necessaria.

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Saggio sull’umorismo felino

Tratto dal V numero di BombaSicilia

Crediamo di conoscere la storia del gatto di Alice nel paese delle meraviglie: il gatto che sorride, e che a poco a poco diventa invisibile, sinché non ne resta che il solo sorriso.

Ma questa non è che la prima metà della storia: il gatto dovrà riapparire, e precisamente – ed è questa la tesi che cercheremo di dimostrare – nella figura di un cane: di Snoopy. Siamo sempre stati profondamente convinti che in realtà Snoopy fosse un gatto, e spie sorprendenti di questa sua natura ci sembravano essere il suo trasformarsi nella figura del “feroce avvoltoio”, o, ad un livello più profondo di analisi, il suo odio per il “gatto dei vicini”, un personaggio assente, come gli adulti, presente nella coscienza di Snoopy, come la “ragazzina dai capelli rossi” in quella di Charlie Brown, ma, in più, presente in infinite occasioni quando distrugge la cuccia di Snoopy (che dorme, come noto, sul tetto, e che ha una sintomatica, a mio giudizio, amicizia con un uccellino, Woodstock), o fa a pezzi il guantone da baseball con cui Snoopy protegge la mano che gli offre la pace.

Tutti questi momenti erano, lo ripetiamo, indizi di una natura felina, violentemente rimossa, ma a tratti riaffiorante: Snoopy aveva un bel definire stupido il “gatto dei vicini”, ma noi lo vediamo piuttosto come invincibile, e poi, che magra figura fa la caninità, agli occhi di Snoopy; è celebre la triste galleria dei personaggi canini: dal fratello Spike, prima magrissimo, denutrito (vive spazzando la tana di un branco di coyote, nel deserto) poi, dopo la cura di Lucy, teso come un tamburo (come una grancassa, corregge Snoopy, suggerito dal gatto-ex-machina), agli anonimi cani che inseguono abbaiando le auto, e poi, sorpresa, la cagnetta che Snoopy ama, e che non vede mai, avvolta come è da una nuvola di fumo, durante una violenta manifestazione all’Allevamento della quercia, ha “zampine morbidissime”, trasparente richiamo ad una non placata, struggente, nostalgia felina.

Ma, a tutto ciò si aggiunge ora, nella nostra considerazione, un nuovo elemento decisivo: Snoopy racconta a Woodstock la storia del “bracchetto che diventava invisibile” – che è appunto la storia del gatto di Alice, e, in più, nel bel mezzo della sua trasformazione, divenuto soltanto sorriso, si accorge di non riuscire a ridivenire visibile, scoprendoci così l’incompiutezza rilevata in apertura nella storia di Carroll: se Snoopy ridivenisse a quel punto visibile, sarebbe un gatto.

Formulare questa ipotesi serve solo a rendere plasticamente evidente il nostro discorso; ma è in effetti, nella sua indimostrabilità, un’ipotesi non necessaria, dal momento che ci basta constatare che Snoopy scopre inavvertitamente la sua vera natura: è dalla natura felina che attinge tutte le sue energie, in cui trova il suo ubi consistam.
“Qui oderit animam suam custodiet eam”.
Questo detto evangelico potrebbe stare a epigrafe dell’intero agire del “teologo” Snoopy (troppo CANonico, gli dice Lucy).
Notiamo come un’eco dell’eresia di Shebbetay Zwi, il Messia apostata della mistica ebraica che condivide la natura umana sino al peccato e all’apostasia, ma forse ancora di più, qualcosa di ancora infinitamente più purificato; solo rinnegando sé nel suo odio esplicito per i gatti, nella sua amicizia per un uccello (il nemico e la preda naturale dei gatti), potrà ritrovare se stesso.

La forza che sopporta la caninità ed in essa si mantiene, è la vita dello spirito felino. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta abiezione canina. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo canino nell’essere felino.

Umorismo felino: il più difficile; il gatto guarda sé nell’assoluta interiorità del suo spirito – e fuori non viene nulla; il sorriso del gatto resta nella sua purezza solamente intuita; ma il gatto deve comunicare, rendere dicibile. E così la forma necessaria di questo suo comunicarsi è il cane: il cane è il momento in cui il gatto esce dalla sua indicibilità, e l’umorismo felino si dispiega in una storia, anzi, nelle storie di Snoopy.


Come si fanno i miracoli?

Cos’è il miracolo?

C. S. Lewis nel suo Miracles offre questa definizione: “un’interferenza nella Natura di un potere soprannaturale. Non vi possono essere miracoli se, oltre alla Natura, non esiste qualcos’altro che possiamo chiamare soprannaturale”.

E, giunti qui, alcuni si fermeranno nella lettura di questo editoriale dicendo: “ma guarda un po’: questi credono ancora ai miracoli. Poveri illusi!”…

Chi sta continuando a leggere è in effetti (come me che scrivo) un illuso, cioè, letteralmente, uno che si mette in gioco (in + ludus). Per credere ai miracoli occorre “stare al gioco”. Ma quale gioco? Cercherò di spiegarlo.

Secondo alcuni non esiste altro che la Natura. Che cos’è la Natura? Sostanzialmente tutto quello che c’è, inteso come tutto ciò che cade sotto i miei sensi. Se ampliamo il discorso (e a noi interessa ampliare) per ciascuno di noi il “naturale” è il mondo concreto che viviamo, la nostra vita ordinaria. Molti la vivono come un fiume che scorre: tutto scorre come un fiume… In senso stretto nulla cambia e nulla può cambiare in questa fluente monotonia. Nulla la può bucare veramente, nulla c’è al di là di questa condizione naturale, nulla c’è di “soprannaturale”.

Allora, se il miracolo è impossibile, non resta che convertirlo in “miraggio”. Cos’è il miraggio? Un fenomeno di rifrazione della luce attraverso strati d’aria di diversa densità che si verifica su superfici assolate. Il miraggio ha l’effetto di farci vedere gli oggetti circondati da una distesa abbagliante, luccicante. E allora ecco che tutto nella vita deve essere strepitoso, incredibile, superlativo, cool, exciting, eccezionale, inaudito. E’ il segreto della pubblicità: circondare l’oggetto di un’aureola abbagliante che lo renda desiderabile, capace di dare l’illusione di bucare la Natura. Ma è un miraggio. Il miracolo così, diventando pret-a-porter, è snaturato in radice.

Ma persino chi crede nel “mistero della vita” a volte crede che tutto sia un mistero e alla fine il risultato è uguale: nel buio tutte le vacche sono nere. In questa visione il desiderio di felicità che vive nel profondo del cuore dell’uomo è imbozzolato dentro un fiume omogeneo e denso o dentro una oscurità senza luci né ombre. Cosa può stupire una vita così? In fin dei conti, nulla.

Il miracolo è un colpo di pietra al centro di un vetro, è la discontinuità, è l’irruzione di qualcosa che scuote l’umanità di ciascuno di noi nei suoi desideri più profondi. Cos’è in grado di operare questo nella nostra vita?

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo,
(Montale, Forse un mattino andando in un’aria di vetro)

Fino ad oggi hanno ancora “tenuto” due eventi: l’amore e la morte. Rappresentano infatti i momenti di confronto con una alterità radicale. E non è un caso che siano i pilastri classici del romanzo. Ma anche amore e morte sono a rischio…

L’arte, a nostro avviso, ci aiuta a non spegnere l’occhio, a non ridurre il mondo a un flusso cosmico lattiginoso e monotono. Bisogna salvare il miracolo, dunque. Preservarlo, cercare la maglia rotta nella rete…

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato,- ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
(Montale, In limine)

Così si fanno i miracoli.


Come si nasce?

La nascita è lo scoppio iniziale nella vita di una persona.

Se non si nasce non ci può essere tutto il resto. C’è una discontinuità fondamentale nella nostra vita.

L’uomo che pensa la propria origine si ritrova sull’orlo di un abisso: la realtà su che cosa poggia e a che cosa è appesa? La domanda sembra non avere risposte. La realtà è di per se stessa gratuita: esiste, ma sarebbe potuta benissimo non essere! Io ci sono, ma sarei potuto benissimo non esserci!

L’inizio è sempre e comunque uno scoppio dal nulla…

Allora è a questo punto che appare evidente l’ambiguità: l’uomo si rende conto di venire dal nulla e questa coscienza può provocare o una sensazione di armonia con il mondo (che bello! esisto!) oppure, al contrario, una radicale disarmonia, un disagio di essere (non fossi mai nato!).

Nel primo caso la realtà è compresa come dono e appare all’alba che rivela le cose con la loro freschezza dell’origine: lo spettacolo della realtà è allora come assistere all’alba del mondo. Si apre la via all’incantato stupore di chi è come diventato contemporaneo della creazione e partecipe della compiaciuta soddisfazione divina come si legge nel libro della Genesi (…e Dio vide che tutto era buono…).

Nel secondo caso l’uomo si sente spaesato, si percepisce come se fosse «gettato» in questo mondo e abbandonato a se stesso. Nasce il sentimento dell’esistenza come condanna e prigione, secondo ciò che ci mostra il ricorrente motivo del “non fossi mai nato” da Sofocle a Giobbe, fino al malheur de l’existence dell’esistenzialismo.

Le due situazioni, la consolazione e la desolazione, lo stupore e l’orrore, possono coesistere nella stessa coscienza umana e dunque anche in quella poetica. Il poeta che ha affermato che

Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo

è lo stesso Leopardi dolce naufrago nel mare delle immensità autore de l’Infinito.

Anzi le due reazioni opposte sono inscindibilmente legate: non c’è stupore, meraviglia, gratitudine, se non con la possibilità dell’orrore, dell’angoscia, della disperazione, e viceversa. L’orrore e la grazia della vita hanno la stessa fonte. Non c’è grazia se non c’è la possibilità dell’orrore. Se l’arte non fa i conti con l’orrore e con la grazia è pura vanità.

Nascere allora significa scegliere lo scoppio luminoso contro la tentazione del rantolo di rammarico; la luce è ciò a cui si è dati (partorire è “dare alla luce”) contro la ventosa del riflusso nel nulla.

Come si nasce (e si rinasce)? Risucchiando aria nei polmoni, spalancando gli occhi, ridendo, piangendo e scalciando, piangendo e ridendo, ciucciando e ruttando, vivendo insomma l’esperienza pazzesca di essere vivi.


Come si fa una passeggiata?

Dicesi passeggiata il “cammino compiuto per diporto o per esercizio igienico, spesso in compagnia di una o più persone e senza meta fissa; talvolta associato a un’idea di facilità”. La definizione è del dizionario Devoto-Oli.

Cos’è dunque la passeggiata? Un cammino senza meta. Basta così? Tutto qui? Certo, dopo i grandi discorsi della vita intesa come viaggio e al viaggio inteso come figura della vita nel suo complesso, parlare di passeggiata sembra quasi inopportuno: è una figura che appare troppo “debole”. La passeggiata non richiede grandi decisioni né grandi sforzi.

Eppure Ignazio di Loyola, il santo spagnolo del XVI secolo, non faceva alcuna fatica a trovare anche nel pasear, cioè nel paseggiare, una metafora per l’esercizio spirituale. Per lui il passeggiare è comunque un “esercizio”. Ma a che scopo? A che serve passeggiare? Solo a rilassarsi, a distendersi? Sì, “serve” solo a questo, in effetti.

Ma non finisce qui. Se l’uomo si rilassa e si distende, allora si apre. Non più teso in uno sforzo con un obiettivo preciso o una meta prefigurata, chi passeggia può ritrovarsi preparato e disposto a ricevere qualunque novità: a vedere il mondo con occhi nuovi, ad accorgersi di ciò che esiste (al di là del suo immediato interesse), a scoprire nuove relazioni tra le cose,… La passeggiata dispone l’animo all’arricchimento improvviso o insospettato in un libero confronto tra l’uomo e il mondo, fino a raggiungere i “fiori lontani” (Luciano Erba).

Il suo sguardo si fa così più lucido perché più ampio. Vede tutto perché non è “costretto” a veder nulla.

La passeggiata è l’occasione perché avvenga esattamente il contrario di ciò che Musil afferma quando paragona il suo uomo senza qualità a un insetto “che s’è smarrito in un campo di cui non conosce i colori di richiamo, e non vi si può fermare, benché lo desideri”. Certo, nella passeggiata gli usuali colori di richiamo non ci sono più. Ma questo ci costringe a una novità radicale. Lo stesso Musil ammette che questo “andare senza mèta e senza chiara destinazione” porta a sentire come se il corpo non appartenesse più a un mondo dove l’Io è racchiuso in piccoli condotti e tessuti nervosi, ma ad un mondo veramente nuovo.

Certo, per strada però può accadere veramente di tutto. Come accadde a don Abbondio: “Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno novembre dell’anno, don Abbondio…”. La passeggiata, proprio perché senza meta fissa, è aperta a qualunque incontro. Può accadere persino di dover prendere una decisione radicale e senza che ci sia tempo per pensare o per difendersi.

E così la passeggiata diventa un modo per prepararsi e disporsi ad accogliere un destino che sempre ci supera. Ci libera dalle agende e dai progetti troppo rigorosi, dalle comprensioni troppo rigide della vita per affidarci a un percorso di cui conosciamo l’origine, che ad ogni passo e ad ogni angolo può aprirci scenari nuovi e di cui la meta ci sfugge radicalmente. Se è vera passeggiata…

La passeggiata (se è vera passeggiata) mi sfugge nella sua globalità: la vivo e la “costruisco” passo dopo passo. Ma il senso della passeggiata in quanto tale, nella sua globalità, è indisponibile.
Intesa in questo senso, la passeggiata non si pre-vede! Si può semmai coglierne l’orientamento. Ma la meta è sempre “altra”. La meta è qualcosa che sta dentro e sotto ogni passo, ma resta radicalmente altro. Sta sempre al di là. La passeggiata è un processo in cui muoviamo un passo dopo l’altro.

E lo spazio di ogni singolo passo è il luogo in cui si gioca il senso e la meta… così “d’un tratto, scopro un nuovo sentiero/per la cascata” (R. Carver).