La lotta necessaria

Molte volte accade di sentire che vivere è lottare.
Poche volte si sente dire che l’arte è una lotta.

La lotta diventa di frequente una metafora dell’esistenza umana. E, in effetti, la vita è una lotta sin dalla sua origine e fino alla sua fine. Comincia con un rapporto d’amore, che esso stesso è una forma (anche rituale, ludica e stilizzata) di lotta. È frutto di un parto, che – sebbene oggi giustamente si tende a vivere in maniera rilassata e fiduciosa – rimane pur sempre una lotta fisica. La morte stessa è una lotta, nominata col termine, ancor più doloroso da evocare, di “agonia”, che significa appunto “lotta”. La riflessione sul mistero cristiano della Pasqua (morte e resurrezione) ha espresso un verso latino di straordinaria potenza: Mors et vita duello conflixere mirando (tradotto perde il suo ritmo e la sua intensità: “morte e vita si sono affrontate in un proigioso duello”). L’arco intero della vita, a sua volta, è denso di lotte, conflitti, litigi, dialettiche, confronti, scontri,…

Sembra che le immagini di lotta appena citate rivelino solamente il negativo della vita. Falso. Forse un troppo facile irenismo ha fatto credere che tutto ciò che è lotta sia male, mentre tutto ciò che è armonia di benessere sia, appunto, bene. Falso. Abbiamo fatto scomparire il senso della lotta dalle nostre vite, narcotizzandole, svilendole, ammorbidendole.

Tutti i passaggi fondamentali di una vita, in realtà, implicano un confronto o con se stessi o con la realtà o con gli altri. Confronto significa anche radicalmente incontro. Si può forse dire, radicalizzando il discorso, che, senza scontro, non c’è incontro vero, profondo, coinvolgente.

La carezza è segno di un incontro solo se è profonda: altrimenti è passaggio di superficie, cioè, appunto incontro superficiale. Servirebbe solo a togliere la polvere.

La lotta di Giacobbe con l'angelo di Genesi 32, 23-33

La lotta di Giacobbe con l'angelo (Genesi 32, 23-33)

E invece ogni incontro (con la realtà, gli altri, persino Dio – almeno nella rivelazione ebraico-cristiana (cfr. la lotta di Giacobbe con l’angelo di Genesi 32, 23-33), vive di un inevitabile “corpo a corpo”. Esso, come avviene nel pugilato, implica sempre una forma di danza leggera, oltre che una disposizione alla fatica e alla resistenza. La danza è essa stessa una lotta, a sua volta. La vicenda di Billy Eliott ne è un esempio di grande efficacia. Il pugile è un orso ballerino, come dovrebbe essere ogni essere umano, in qualche modo.

La pace non nasce dal puro e asettico rispetto (respicere = guardare [senza toccare]): nasce invece da mani che, incontrandosi, si stringono con intensità; mani che sanno avvertire il peso e la consistenza di una stretta.

Ciò vale anche per l’opera d’arte. L’ispirazione migliore non nasce come un fluido mellifluo che scorre quieto dal cervello alla carta (o alla tela,…) tramite le mani. Nasce invece da un corpo a corpo con se stessi, la parole (i colori, i suoni, i materiali,…), i personaggi, le storie,…

Valgono per l’ispirazione artistica le parole bibliche di Geremia che descrivono quella profetica:

“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. […]. Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.


Desiderio contro utopia

Un nodo della vita è certamente il desiderio, la capacità che ciascuno di noi ha di desiderare qualcosa. La letteratura e l’arte, in generale, costituiscono una ermeneutica del desiderio, un modo per interpretare il desiderio dell’uomo.
Desiderio (dal lat. desiderare; rad. de-sider- = dalle stelle) significa anelare alle stelle, sentirne la mancanza, avere una nostalgia interiore profonda. Non è proprio la poesia, ad esempio, a essere uno dei luoghi privilegiati di espressione del desiderio?
La questione però è che il desiderio vero, quello veramente umano, è sempre legato a due realtà:

– la capacità che ha un cuore di provarlo (un cuore angusto, che vive solo per se stesso, non è aperto al desiderio) e
– la capacità che ha la nostra ragione di dare un volto a quel punto di fuga che avvertiamo essere innestato profondamente in noi.

La letteratura è il territorio dell’esperienza. Il desiderio in letteratura assume sempre un volto concreto e, a partire da quella concretezza, può dire: “più in là” davanti a ogni sua concreta realizzazione. Come scrive Montale: Sotto l’azzurro fitto/ del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:/ più in là. Ma solo a partire da una realtà concreta, pur vista nella sua precarietà.
Se questo cuore desiderante però esplode in se stesso (cioè “implode”), se si limita a desiderare il medesimo desiderio, si compiace del cercare senza mai trovare; se il desiderio assume il tono di una irragiungibilità che fa sì che l’esperienza umana perda di significato e di valore, tutta bruciata da un ideale irrealizzabile, allora il desiderio si tramuta in utopia.
L’utopia, per definizione, non ha luogo di realizzazione: è destinata a non realizzarsi e a non realizzare nulla, se non una vaga e continua frustrazione. Allora, sì, la vita diventa l’ombra di un sogno fuggente e non resta che l’alternativa tra il sogno e lo spreco.
Cosa può fare invece la poesia e l’arte? Descrivere il desiderio non bruciato dall’utopia; descriverne le ustioni e dunque osservare le sue vie di realizzazione, cercare di intuire quali siano le esigenze più profonde di una vita umana.
Come quando Testori, in Volpe d’amore, al mattino con il viso dell’amante tra le mani, scrive:
Quando la notte in alba finiva/ tu mi piangevi dentro le mani/e mi chiedevi/ perché se m’ami/ tutto finisce,/ tutto svanisce. L’ustione della domanda metafisica non sfocia nel rogo dell’utopia d’amore: resta ancorata al concreto dell’esperienza e diventa, come Testori scrive, segno dell’aldilà dopo la fine.


Il principio del dolore

La qualità di un racconto si misura dalla sua capacità di entrare nelle vene della vita e di toccarne i nervi scoperti della “condizione umana”.

I personaggi, diceva Cechov, sono “creature di caldo sangue e nervi”. Se non lo fossero, essi rischierebbero di rimanere pupi, marionette, controfigure, esseri lontani dalla vita e dai suoi significati. Ma se una narrazione o una poesia tocca i nervi scoperti, allora ha necessariamente a che fare col dolore.

Se un essere è “umano”, allora ha sperimentato il dolore. Al di là di ogni approfondimento di carattere psicologico o filosofico, questo è un dato di esperienza, un fatto. Ciò che è tenero e debole, come è l’uomo quando nasce (e ancor prima), non può che essere aperto all’esperienza del dolore e dunque anche dell’amore, del desiderio, della felicità… Ciò che è duro e freddo non può sperimentare nulla del genere.

Se il dolore è esperienza radicalmente umana, e se la letteratura, l’arte, la poesia lo sono anch’esse, allora non può che esserci qualche legame più o meno oscuro tra queste esperienze.

Non bisogna però confondere il dolore con il dolorismo (quante “poesie” nascono dal dolorismo!). Il dolore è un’esperienza, è un fatto. Il dolorismo è un vago sentire compiaciuto. Il dolore è una ferita che ci fa sentire colpiti, feriti, raggiunti da qualcosa che sentiamo provenire dall’esterno (fosse anche una malattia del nostro corpo). Il dolore ci fa capire che siamo vulnerabili e dunque aperti. Il dolorismo chiude chi lo prova dentro se stesso, dentro i propri meandri angusti. Dunque, in fondo, il dolore vero è una vera esperienza di conoscenza della realtà. In letteratura è così, è proprio questo. Il dolore è una forma di conoscenza del reale.

Questa conoscenza può evolversi in una forma di comunicazione. Il dolore, ad esempio, è capace di richiamare una solidarietà che unisce i personaggi e li fa sentire «a casa», come scrive Adam Haslett in un racconto della sua raccolta You are not a stranger here: «Gli dava un conforto familiare trovarsi in presenza del dolore inconoscibile di un’altra persona. Quel posto, più di qualsiasi paesaggio, lo faceva sentire a casa». Nel dolore nessuno e niente può essere conosciuto come estraneo.


I nodi dell’esistenza

Ci sono eventi nella vita che fanno fermare la ruota vorticosa del nostro essere al mondo e ci fanno vedere dall’alto e dall’interno. L’evento può essere una grande gioia, un grande dolore, un amore o un lutto, una illuminazione interiore o una nuova amicizia…

In questi momenti la vita fa appello a una profonda autenticità a un rinnovato patto con l’esistenza. La vita, a volte, cambia. Ci sono punti di svolta, dei “nodi” dell’esistenza: momenti nei quali il filo della vita, pur continuando a scorrere, si ferma per abbracciarsi un istante e prendere consapevolezza della propria consistenza e del proprio valore.

Tante persone vivono senza sapere perché: il filo scorre e basta. E allora torna la domanda di una poesia di Raymond Carver: “E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? … E cos’è che volevi?”. Questa domanda ha un potere immenso. Potremmo dire che è intrinsecamente poetica, cioè fa fare esperienza.

Allora la domanda è: come l’arte e la letteratura manifestano questi nodi? Come si fa a dare una “forma” in parole, immagini, suoni… alla vita che giunge a momenti critici o, meglio, “nodali”? Quali sono questi nodi? Come l’arte e la letteratura hanno rappresentato questi nodi? Si apre un campo immenso e un ponte gigantesco, quello che collega l’arte e la vita.


Credere nelle storie

Ogni immagine che l’essere umano vede è sempre storica: ha una storia, è il pezzo di una storia, persino la cosiddetta “pura immaginazione” o fantasia. Esse infatti fanno appello, combinano e rilanciano elementi della nostra memoria o della nostra realtà: senza il reale non esisterebbe l’immaginazione.

A sua volta l’immagine può raccontare una storia esattamente come il racconto di una storia può (anzi: deve) suggerire immagini. Sappiamo bene che la lettura di un romanzo spesso è in grado di trasformarci in “registi” di film che “proiettiamo” solo grazie alla nostra immaginazione.

Semplifichiamo: chi fa arte può essere attento all’autenticità e al valore dell’esperienza o alla forza e alla persuasività dell’immaginazione. Nel concreto spesso questi estremi si toccano, ma certo stiamo parlando di due “poli”:
– il raccontare eventi (la narratività, lo “storytelling”), cioè la storia
– il vedere forme (la visività, il “visual”), cioè l’immagine.

Un esempio: Edward Hopper, un pittore americano, nei suoi quadri, trasforma immagini colte dalla vita ordinaria in storie, anzi in un’epica del quotidiano. Dietro le sue immagini si legge una storia e le sue immagini sono, a loro volta, colte da una storia.

In principio c’erano le storie.

Nell’anno che si apre nelle Officine di BombaCarta si parlerà di storie. Il tema dei nostri incontri sarà: Credere nelle storie. È questa, crediamo, la strada per credere anche nelle immagini, che nelle storie hanno il loro vero fondamento.


La boa e la vela

Dal 27 maggio al 5 settembre 2004 nelle sale della Tate Modern di Londra ha luogo un’ampia mostra antologica dedicata al grande pittore statunitense Edward Hopper (1882-1967). Si tratta della più ampia retrospettiva mai dedicata in Europa al pittore americano.

Tra i quadri esposti però sono purtroppo assenti quelli caratterizzati da una fresca luminosità marina quali l’acquerello Yawl Riding a Swell del 1935, e gli oli The Lee Shore del ’41, The Martha McKean of Wellfleet del ’44 e Ground Swell del ’39. Sono opere che emanano un’intensa luce solare, evocano la brezza ed esprimono la passione di Hopper per le barche e il piacere delle lunghe estati trascorse a Cape Cod, dove la costa del Massachusetts incontra l’Oceano Atlantico.
In particolare mi soffermo su Ground Swell.

Il quadro presenta una barca vista da poppa sulla quale si trovano tre (forse quattro) uomini e una donna. Dominano le sfumature d’azzurro del cielo e del mare solcato da onde ampie, profonde e regolari, e i bianchi dei cirri, della barca, della vela spiegata e dei pantaloni di due uomini. Hopper usa il fermo immagine. La barca sembra sospesa in una sorta di solidità fluttuante davanti a una boa inclinata, della quale si vedono anche i bordi corrosi dall’acqua marina e, sulla sommità, una campana che certamente, nella posizione in cui si trova, sta suonando.

I volti dei personaggi sono tutti rivolti verso di essa e il suo suono. Il loro è uno sguardo intenso, assorto, come se stessero contemplando un oggetto carico di significati nascosti e profondi: una terra di mezzo, a suo modo? un limite invalicabile? oppure una direzione? un senso? una salvezza? Forse tutto questo insieme. Barca e boa delimitano un triangolo di cui il lato più ampio allaccia la punta sinistra della boa (che comunque segna un limite, un confine) all’estremità superiore della vela spiegata (che è segno del viaggio in corso). La direzione è data da un triangolo di cirri nel cielo luminoso che rivolge il suo vertice in direzione dell’orizzonte ininterrotto.

Hopper dunque fa vibrare il suo vivo desiderio di una forma di «annunciazione» anche alla fresca brezza marina e al brillante chiarore del bianco e dell’azzurro… L’importante è trovare una boa e una vela, nella scrittura come nella vita.


Felicità delle storie

Come finiscono le storie?
Chi lo sa? Nessuno. Lo si può intuire, forse. Si può andare per indizi, sospetti, tracce. Si può intuire qualcosa dallo svolgimento della trama (o dagli eventi della vita). Ma si può dire che ogni fine sia la logica conclusione di premesse date? Se così fosse, la vita sarebbe un sillogismo. No, in genere, no. Almeno per le storie che hanno a che fare con l’uomo e la sua libertà. Se però non ci fossero fili di connessione tra l’inizio, lo svolgimento e la fine, allora la storia sarebbe inumana, astorica, in fondo inutile.
Allora ogni storia, ricca (o povera) del suo passato, è aperta a qualunque cosa possa accadere. Spesso è proprio la conclusione (insieme con l’incipit) a dire la qualità di una storia narrata. È qui che si gioca l’abilità di un narratore.
Tra le tante forme di conclusione ne esiste una un po’ banalizzata, in verità: è l’happy end, il lieto fine. Lo conosciamo tutti: “E vissero tutti felici e contenti…”. Come mai un finale del genere irrita molte persone, specialmente se adulte?
Sì, certo, perché la vita è complessa e ormai chi si può permettere di dirsi “felice e contento”?
E se invece la felicità con cui si può concludere una storia fosse la stessa linfa che la sostiene in sottofondo e che, a tratti, emerge come da una falda sotterranea? Alcuni filosofi hanno trovato nell’angoscia la sensazione emotiva originaria dell’uomo. E se invece fosse la meraviglia, lo stupore, la consolazione, la felicità? Quali sono le storie che si riconoscono radicalmente nell’angoscia? Quali quelle che si riconoscono nella felicità? Un dato è comune tra le seconde: il senso della novità inaspettata, del chiarore, dell’inizio. Così come la storia in forma di poesia scritta da Raymond Carver e che si intitola Happiness, appunto, Felicità:

Talmente presto che fuori è ancora buio.
sto alla finestra con il caffè
e le solite cose del mattino presto
che passano per pensieri.
A un tratto vedo il ragazzo e il suo amico
salire per la strada
per consegnare il giornale.
Portano berretto e maglione,
e un ragazzo ha una borsa sulle spalle.
Sono così felici
che non dicono niente, questi ragazzi.
Penso che se potessero, si prenderebbero
sottobraccio.
È mattino presto,
e stanno facendo questa cosa insieme.
Essi avanzano, lentamente.
Il cielo si sta facendo più luminoso,
anche se la luna ancora pende pallida sul mare.
Una tale bellezza che per un attimo
morte e ambizione, perfino amore,
non riescono a intaccarla.
Felicità. Arriva
inaspettata. E va al di là, davvero,
di ogni chiacchera mattutina su di essa.