Arcadia come altrove

Richard Lassels (1603-1668),
autore di un Voyage of Italy, Parigi 1760

Nel suo “Viaggio in Italia” del 1786 Johann Wolfgang von Goethe scrisse: Lo scopo di questo mio magnifico viaggio non è quello di illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti.

Ci sono due concetti che vale la pena sottolineare: viaggio e illusione. Il combinato disposto dei due funziona a meraviglia e ci basta pensare alla nostra ultima vacanza per renderlo vero. Ma ancora di più “funziona” se applicato all’altrove, un luogo altro che presuppone uno spostamento (viaggio) e un lavoro di immaginazione per proiettare dentro di noi elementi che non conosciamo ancora e che non trovano una completa corrispondenza con il nostro reale, il nostro punto di partenza (illusione).

Che questo pensiero fosse alla base dei Grand Tour settecenteschi in Italia, viaggi compiuti da esponenti dell’aristocrazia europea come una sorta di iniziazione alla conoscenza del bello, è piuttosto scontato. Che poi diventasse un vero e proprio viaggio interiore ci permette di comprendere che l’altro da noi e l’altro da dove siamo spesso vivono di idealizzazione ed astrazione.

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Il bivio

Al centro della scena siede Eracle, nudo e pensieroso, il peso del corpo sostenuto in parte dalla clava, in parte dalle rocce sottostanti. Ai suoi lati si trovano due donne, a rappresentazione della Virtù e della Felicità – o della Voluttà, a seconda delle interpretazioni – che mostrano al giovane eroe i due possibili sentieri lungo cui indirizzare la propria esistenza. Il percorso tracciato dalla Felicità è una selva rigogliosa e pianeggiante, dove tra i fiori colorati si trovano carte da gioco, strumenti musicali, spartiti e maschere teatrali: simboli di attività piacevoli, ma al contempo vacue e ingannevoli. Al contrario, il cammino della Virtù è un impervio sentiero di montagna, che conduce tuttavia a un premio finale, rappresentato da Pegaso, il mitologico cavallo alato.

Il dipinto di Annibale Carracci raffigura un celebre episodio della giovinezza di Eracle, narrato da Senofonte nei Memorabilia, ed attribuito al filosofo e retore Prodico. Nel racconto si intrecciano il senso greco del destino e la filosofia che ruota intorno ai principi etici. Il destino si presenta in tutta la sua contraddittorietà: per un verso, le strade di Eracle sono già tracciate, senza possibilità di deviazione alcuna; per altro verso, assume rilevanza la capacità di discernimento del soggetto, ponendo al centro dell’episodio il momento della scelta. Eracle predilige la via ardua ma virtuosa, così come Achille sceglierà un’esistenza breve e gloriosa a una lunga e priva di onore.

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Immaginare l’altrove

Signori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversità delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province.

Questo è l’incipit di quello che forse è il più famoso esempio di letteratura di viaggio scritto in Italia, ossia Il Milione di Marco Polo. Visitare l’Oriente, alla fine del Tredicesimo secolo, era un’esperienza unica possibile per pochissime persone e il viaggiatore si rivolgeva ad un pubblico che mai avrebbe potuto vedere la Cina o l’India. Marco Polo deve perciò stimolare la fantasia dei suoi lettori, permettendo loro di immaginare l’altrove. Per introdurci subito nel mondo che intende narrare usa due parole chiave: “diversità” e “maraviglie”. L’altrove, infatti, è per definizione ciò che non è “qui”, che invece corrisponde al luogo, di dimensione spaziale variabile, dove tutto, più o meno, somiglia a ciò che conosciamo. Perciò per farsi un’idea dell’altrove, sembra sottintendere Marco Polo, si può partire da ciò che è a noi vicino e immaginarlo diverso, capovolto. Ovviamente questa operazione porta di rado all’intuizione della realtà di un posto lontano, creando più facilmente nella nostra mente panorami idealizzati oppure grotteschi e assurdi.

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[Report] Officina di dicembre 2021

Valerio

Quando lo sventurato Piermaria Fabris (interpretato da Fabio Traversa) giunge alla riunione di Compagni di scuola forse non immagina di ritrovarsi al centro delle reiterate canzonature da parte del gruppo. Con lui il tempo non è stato generoso, mutandolo nell’aspetto tanto da renderlo irriconoscibile. E, tuttavia, al suo cambiamento fisico corrisponde l’immutabilità di questo gruppo di bulli mai veramente maturati, nonostante siano trascorsi quindici anni dal diploma. Iniziamo a focalizzare alcuni vocaboli chiave legati all’orientarsi nel tempo e nel cambiamento: primo tra tutti il riconoscimento.

Come le riunioni tra ex compagni di scuola diventano occasione di confronto e bilancio, così i compleanni possono tramutarsi rapidamente da momento festoso a resa dei conti con se stessi e il tempo che resta. Soprattutto con certi invitati…

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Tempi che cambiano

Tempora mutantur, nos et mutamur in illis.

“I tempi cambiano e noi cambiamo con essi”. Il cambiamento è una condizione costante e inesorabile dell’esistenza.

Nonostante sia pressoché impossibile controbattere, abbiamo la sensazione che non sia tutto. Questo perché essere coscienti che il cambiamento esiste, non significa accettarlo, accettarne le conseguenze. Anzi, piuttosto il contrario.

Cambiare, a differenza dell’evolversi, non ci assicura di andare incontro ad un miglioramento, ma ci mette di fronte all’ignoto. Sarà un cambiamento in positivo o in negativo? Questa incertezza ci confonde, ci spaventa e, in molti casi, ci paralizza. Meglio restare immobili, piuttosto che rischiare un peggioramento. Neanche così, però, possiamo sfuggire alla condizione inesorabile di cui sopra. Immaginiamo di passare la vita a cercare di evitare ogni scelta decisiva, ogni imprevisto o variazione nella routine che potrebbe farci perdere l’orientamento, esporci all’inaspettato. Immaginiamo di poter evitare che la nostra vita cambi. Ogni giorno uguale all’altro. Prima di tutto: stiamo vivendo? E poi, anche se riuscissimo a mantenere una staticità degli eventi, potremmo evitare di cambiare?

L’esempio più evidente di una trasformazione cui proprio non possiamo resistere, è quello che coinvolge il nostro corpo e il passare del tempo. La crescita e l’invecchiamento sono trasformazioni inevitabili a livello fisico. Esse costituiscono un cambiamento che può essere misurato in giorni, mesi, anni.

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[Report] Officina di novembre 2021

Margherita

In un intervento introduttivo, si ripercorrono le questioni affrontate nell’editoriale, a partire dalla sensazione di scollamento rispetto al mondo concentrata nei versi di Emily Dickinson: “Questa è la mia lettera al mondo/che non scrisse mai a me.” La poetessa descrive la sua difficoltà di comunicare con il mondo attraverso l’immagine della lettera non corrisposta, indicando la scrittura come metodo di comprensione della realtà.

Non solo la scrittura, ma ogni forma di linguaggio costituisce uno strumento utile e necessario per muoversi nel mondo. Nel momento in cui ci troviamo di fronte a qualcosa di sconosciuto, infatti, sentiamo il bisogno di dargli un nome, di renderlo individuabile e comunicabile, per poterlo comprendere. 

Questo “dare i nomi” vale per le cose, per le persone, per i luoghi. Su questi si concentra parte dell’intervento, con un brano tratto da Names on the Land di George Stewart, in cui si racconta la scelta del nome per la futura Virginia. Stewart racconta che il nome indiano della regione, riportato alla regina Elisabetta I dagli esploratori del nuovo mondo, era Wingandacoa. Pare che la pronuncia di questa parola abbia ricordato alla regina il suo soprannome – “regina vergine” – e che le sia sembrato particolarmente adatto ad una terra inesplorata e sconosciuta. Elisabetta I scelse poi la forma latina della parola, nominando la regione Virginia. In History of the world, però, uno dei più noti esploratori inglesi, Walter Raleigh, scrive: 

Quando la mia gente chiese come si chiamasse la regione, uno dei selvaggi rispose Wingan-da-coa. Significa all’incirca “indossate bei vestiti”.

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Lui

Sì è vero! – Sono nervosa, spaventosamente nervosa – lo sono sempre stata – ma perché volete pretendere che io sia pazza? Tutto quello che ho visto, provato, ricordato, è successo veramente, non è che me lo sia inventato di sana pianta. Io non sono neanche una persona violenta, voi non lo potete sapere perché non mi conoscete, ma provate a chiamare – non so – Anna Meis, è una vecchia amica, lei ve lo può dire, che non mi arrabbio mai. Ancora meglio, la mia vicina di casa, la signora Gertrude, sa tutto quello che ho passato, sentite lei. Tutti mi daranno ragione, capiranno. Davvero, so quello che sembra, ma voi non conoscete la storia dall’inizio, per questo gli date ragione, ne fate addirittura la vittima.  Si, perché non è che sia iniziata con mio marito – il mio ex marito, grazie a Dio – e non è che io sia nata nervosa, certo. Però cercate di capire, una ci diventa, quando viene trattata come hanno trattato me, sin da ragazzina.

Non fa piacere sentirsi ridere in faccia ed essere chiamata “cicciona” o “topo” – per i denti – o “secchiona” o “deficiente” – perché a ricreazione stai al banco e leggi, perché sei timida e non sai come parlare con gli altri. Non è carino e non è che sia la sola che vi può raccontare di queste cose, però è per farvi capire. Cominci a pensare che sia vero quello che ti dicono, ti ci senti proprio e lo sai che a tutti fanno schifo i topi – compresa a te – e che a nessuno piacciono le ciccione, che quando sei così non la troverai mai una persona che ti possa amare.  Ci speri ancora, eh, però diciamo che l’asticella si abbassa, ti accontenteresti di qualunque cosa, di chiunque. Non fa piacere essere soli così, ti vengono brutti pensieri in mente perché non hai altro da fare che pensare male. [Continua »]