Mondi (in)comprensibili

Questa è la mia lettera al Mondo / Che non scrisse mai a Me.
È con l’immagine di una lettera senza risposta, che Emily Dickinson sceglie di rappresentare la distanza che sente tre sé e la realtà. Una poetessa che cerca di comprendere il mondo attraverso le parole. Un mondo che si nega, che chiude ad ogni possibilità di comunicazione. In questi due versi Dickinson condensa tutta la sua solitudine, il suo sentirsi ignorata in un dialogo fondamentale come quello con il reale. Forse, semplicemente, Emily e il Mondo parlano “lingue” diverse.
Il modo in cui comunichiamo è da sempre la chiave di volta del nostro rapporto con ciò che ci circonda. Il linguaggio è uno strumento, più che utile, necessario per comprendere la realtà: nel trovarci di fronte qualcosa di nuovo, iniziamo a conoscerlo quando gli diamo un nome, lo rendiamo identificabile e quindi comunicabile. Non è un caso che in molti racconti della Creazione sia l’uomo a dare nome al creato – come nel caso di Adamo – o perfino che la realtà prenda forma nel momento in cui l’essere umano la nomina.
Un esempio più immediato di questo bisogno di “dare un nome” è quello dei toponimi. Sarebbe quasi impossibile definire il nostro muoverci nel mondo, se non avessimo un nome per ogni luogo da cui proveniamo, che attraversiamo o verso cui siamo diretti. Ma in base a cosa scegliamo questi nomi?
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