A partire da… Why I am not a painter di Frank O’Hara – pt. 3

Cosa dicono le parole arancio e sardine di chi – o cosa – sia un poeta? In Why I am not a painter di Frank O’Hara dicono tutto. Due parole in apparenza con eguale peso specifico, divengono nella poesia di O’Hara la sintesi di due processi creativi ben diversi: quello del pittore e quello del poeta. Probabilmente la scelta di forme espressive differenti – da una parte l’arte figurativa, dall’altra la scrittura – basterebbe a dare una definizione generica delle due figure, ma ciò che O’Hara vuole mostrare al lettore sembra più una somiglianza, che una distanza. Il poeta, infatti, non esordisce presentandosi come tale, bensì come un “non-pittore”. Quasi, insomma, come un pittore mancato.

InWhy I am not a painter, le parole sono inizialmente il punto di partenza comune, divenendo poi il discriminante, non per il loro significato, ma per la quantità: sia O’Hara che l’amico e pittore Mike Goldberg partono da un’unica parola, ma, mentre nel quadro di Goldberg SARDINE diviene troppo, per O’Hara “ci dovrebbe essere molto di più, non d’arancio, ma di parole”.

Se O’Hara si identifica nel ruolo di poeta, ciò avviene attraverso l’immagine di pagine colme di parole. Si potrebbe quindi facilmente immaginare la crisi che provocherebbe in lui il rimanerne a corto. Dopotutto è noto il terrore che qualunque scrittore – prima o poi – si trova a provare, quando, di fronte ad una pagina bianca, le parole sembrano essersi esaurite. La riflessione che Paul Auster esprime in merito attraverso lo stravagante personaggio di Stillman in City of Glass, va però ben oltre il “semplice” blocco dello scrittore: [Continua »]


A partire da… Why I am not a painter di Frank O’Hara – pt. 2

“Mad about painting” exhibition

Nella raccolta Racconti brevi e straordinari, compilata da Luis Borges e Adolfo Bioy-Casares, figura un testo che i due intitolano Lo studioso, tratto dalle Cento vedute del monte Fuji del pittore Katsushika Hokusai:

Fin dall’età di sei anni ho sentito l’impulso di disegnare le forme delle cose. A circa cinquanta, ho esposto una collezione di disegni; ma niente di ciò che ho raffigurato prima dei settant’anni mi soddisfa. Solo a settantatré anni sono riuscito a intuire, pur se approssimativamente, la vera forma e natura degli uccelli, dei pesci e delle piante. Perciò, a ottant’anni avrò fatto grandi progressi; a novanta avrò penetrato l’essenza di tutte le cose; a cento, sarò sicuramente asceso a uno stato più alto, indescrivibile, e se arriverò a centodieci tutto, ogni punto e ogni linea, avrà vita. Invito quelli che vivranno quanto me a verificare se mantengo queste promesse. Scritto all’età di settantacinque anni da me, un tempo chiamato Hokusai, e oggi Huakivo-Royi, il vecchio impazzito per il disegno.

[Continua »]


A partire da… Why I am not a painter di Frank O’Hara – pt. 1

Nell’anno 2008-09 BombaCarta esplorò un “cambio di rotta” nelle sue Officine mensili. Invece di scegliere un tema generale e declinarlo in approfondimenti, decise di farsi guidare da opere d’arte: un libro, una scultura, un film, un dipinto… A distanza di oltre un decennio facciamo un’operazione analoga e, in attesa di riprendere le Officine “dal vivo”, abbiamo proposto una serie di brani in forma di “mini-officina”.

Stavolta ci siamo cimentati con una Why I am not a painter, una poesia di Frank O’Hara condivisa nel corso dell’OpenLab dello scorso novembre, che abbraccia la tematica della creazione e del processo creativo.

Ci “scontreremo” con questo testo nel corso di tre puntate, dalle quali emergeranno le sensazioni e le riflessioni – ora affini ora divergenti – che la lettura ci ha suscitato. [Continua »]


Come si fa una passeggiata?

Dicesi passeggiata il “cammino compiuto per diporto o per esercizio igienico, spesso in compagnia di una o più persone e senza meta fissa; talvolta associato a un’idea di facilità”. La definizione è del dizionario Devoto-Oli.

Cos’è dunque la passeggiata? Un cammino senza meta. Basta così? Tutto qui? Certo, dopo i grandi discorsi della vita intesa come viaggio e al viaggio inteso come figura della vita nel suo complesso, parlare di passeggiata sembra quasi inopportuno: è una figura che appare troppo “debole”. La passeggiata non richiede grandi decisioni né grandi sforzi.

Eppure Ignazio di Loyola, il santo spagnolo del XVI secolo, non faceva alcuna fatica a trovare anche nel pasear, cioè nel paseggiare, una metafora per l’esercizio spirituale. Per lui il passeggiare è comunque un “esercizio”. Ma a che scopo? A che serve passeggiare? Solo a rilassarsi, a distendersi? Sì, “serve” solo a questo, in effetti.

Ma non finisce qui. Se l’uomo si rilassa e si distende, allora si apre. Non più teso in uno sforzo con un obiettivo preciso o una meta prefigurata, chi passeggia può ritrovarsi preparato e disposto a ricevere qualunque novità: a vedere il mondo con occhi nuovi, ad accorgersi di ciò che esiste (al di là del suo immediato interesse), a scoprire nuove relazioni tra le cose,… La passeggiata dispone l’animo all’arricchimento improvviso o insospettato in un libero confronto tra l’uomo e il mondo, fino a raggiungere i “fiori lontani” (Luciano Erba).
[Continua »]


Oracoli ed enigmi

Interrogato l’Oracolo per conoscere i propri natali, Omero si sentì rispondere in tal modo:

l’isola di Io è patria di tua madre, ed essa ti accoglierà da morto;
ma tu guardati dall’enigma di giovani uomini”.

Quando giunse sull’isola, vide dei pescatori e domandò loro cosa avessero con sé. I giovani, che non avevano pescato nulla, risposero “quanto abbiamo preso lo abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo”, alludendo ai pidocchi, presi e uccisi, oppure rimasti sulle vesti e portati con sé. Omero, non riuscendo a risolvere l’enigma, morì a causa dello scoramento.

Dall’aneddoto, tratto da un frammento di Aristotele e riportato da Giorgio Colli in Nascita della filosofia, emergono due differenti concezioni dell’enigma, inteso sia come profezia che come sfida. Nel primo caso il rinvio è a un mistero di origine divina, oscuro perché, come dicevano le Upanishad indiane, “gli dei amano l’enigma, e a essi ripugna ciò che è manifesto”. Nel secondo esempio l’enigma “si presenta ulteriormente separato dalla sfera divina da cui proviene, tende a diventare oggetto di una lotta umana per la sapienza”.

Il processo che si viene così dipanando indica, secondo Colli, il passaggio verso la sfera razionale dell’uomo che conduce, in estrema sintesi, dai profeti ai filosofi. Ma che, al contempo, svilisce il mistero in indovinello. [Continua »]


Di meli in fiore e nuvole gocciolanti

Che ci sarebbe di male nel volersi cullare per qualche riga in uno di quei proverbi di cui nessuno conosce o ricorda l’origine? Di certo, non c’è niente di male nel fidarsi e affidarsi alla familiare espressione “il tempo guarisce tutte le ferite”. Il problema sorge, come sempre, quando mettiamo in dubbio qualcosa che ci è dato per buono. Eppure chiediamoci, per un attimo, cosa essa significhi veramente.

Facilmente riconosceremo, celati dietro le proverbiali “ferite”, nient’altro che i ricordi di eventi che hanno generato – e generano ancora – in noi una qualche forma di sofferenza. È innegabile che il tempo, con la sua connaturata facoltà di far susseguire, nel corso della nostra vita, un numero incalcolabile di esperienze, ci offra l’opportunità di essere plasmati e plasmarci in modo da far fronte alle difficoltà. Questo meccanismo di apprendimento e miglioramento di noi stessi non riguarda, però, esclusivamente le avversità future. Con una sorta di effetto retroattivo, anche ciò che abbiamo già vissuto viene reinterpretato attraverso nuove chiavi di lettura. L’esperienza ci aiuta ad acquisire strumenti come l’autocritica, l’empatia o la capacità di perdonare, in un processo di maturazione continua e auspicata. In questa metamorfosi, torniamo all’infinito sui nostri ricordi più irrisolti, rielaborando ciò che proviamo rispetto ad essi sulla base dei nuovi punti di vista che abbiamo acquisito. Potremmo dire, forse, che, più che curare la ferita, il tempo ci insegni ad affrontarne il dolore. [Continua »]


Essere due. Essere in due.

Per Polluce! Quando lo guardo e vedo il mio aspetto, tale e quale, perché io sono uno che si specchia spesso, be’, non c’è nulla di più simile a me. Cappello e vestito, uguali. Gamba e piede, altezza, gli occhi e la tosata, labbra, naso, mascella, mento, barba, collo, tutto! Cosa posso dire? Se ci ha pure le cicatrici sulla schiena, non c’è nulla di più simile. Ma che cosa sto a pensare? Io sono quello che sono sempre stato, non c’è dubbio. 

Nell’Anfitrione di Plauto, Sosia, il servo spaccone, ottuso e un po’ vigliacco si sta avvicinando alla casa del suo padrone con il compito di portare ad Alcmena, la padrona, la notizia della vittoria in battaglia del marito. Pavido e pauroso, al momento della lotta Sosia si è nascosto ed ora deve trovare le parole giuste per raccontare un’epica pugna alla quale non ha assistito. Arrivato alla porta, gli sbarra il passo il dio Mercurio che sta vegliando sull’inganno di Giove che, sotto le mentite spoglie del marito Anfitrione, amoreggia con Alcmena. Mercurio ha appena assunto le sembianze di Sosia e lo apostrofa in questo modo: Tu dunque osi dire di essere Sosia, mentre Sosia sono io? Il povero Sosia – dal suo nome deriva il significato per antonomasia di una persona talmente simile ad un’altra da essere scambiata per quella – sbalordito e testardo, pur sotto una gragnuola di pugni divini, tenta di rivendicare la propria identità, la propria individualità: non ha dubbi, è quello che è sempre stato. [Continua »]