Come accedere alle Officine

Circa venti mesi dopo l’ultima Officina dal vivo, siamo finalmente pronti per ripartire. Siamo emozionati e forse anche un po’ impreparati a questa ripresa: c’è gran voglia di ricominciare a vedersi fisicamente e l’incertezza di chi deve adattare un vecchio stile di vita e di lavoro a nuove condizioni.

Ecco quindi alcune informazioni per la prima Officina del ciclo 2021-22, dal titolo “Voi siete qui“, all’interno del tema dell’anno “Orientarsi nel mondo“. Presumibilmente, queste indicazioni rimarranno valide anche per il resto dell’anno.

La sede rimane quella solita di via Panama 13 (Roma). L’ambiente è molto spazioso e permette di mantenere la capienza cui siamo abituati rispettando allo stesso tempo la necessità del distanziamento.

L’orario cambia: l’Officina non durerà più tutta la giornata ma si svolgerà in un’unica sessione pomeridiana a partire dalle ore 15. Abbiamo sacrificato il pranzo insieme (con la relativa immancabile pizza) un po’ per la necessità di ricominciare da una formula più snella e un po’ per il rispetto delle norme Covid.

Per l’accesso alla sala, come da normativa vigente, sarà necessaria l’esibizione del Green Pass* (e di un documento di identità per la relativa verifica) e occorrerà indossare la mascherina.

Come sempre l’ingresso è libero e gratuito e non occorre prenotazione.

A presto!


*Aggiornamento: in ossequio alla normativa vigente, il tipo di Green Pass necessario per l’accesso è quello “rafforzato”.


Voi siete qui

Credo che a ogni persona sia capitato, almeno una volta nella vita, di smarrirsi nelle vie di una città sconosciuta o nelle stanze di un grande museo, durante una passeggiata nella natura o nel mezzo dello shopping frenetico in un centro commerciale.  In questi casi, lo strumento principale per ritrovare se stessi è, generalmente, una buona cartina. E il punto che ci individua sulla cartina è corredato, quasi sempre, da un’etichetta che recita “voi siete qui”.

In tema di smarrimenti, un breve racconto di Jorge Luis Borges, I due re e i due labirinti, narra l’infelice sorte del sovrano di Babilonia, che, avendo riunito i suoi architetti e i suoi maghi, “comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a entrarvi, e chi vi entrava si perdeva”. Qualche tempo dopo, trovandosi ad ospitare presso la propria corte un re arabo e volendo prendersi gioco di lui, lo fece entrare nel labirinto. Il sovrano arabo vagò per il labirinto fino a sera e solo con il soccorso divino fu in grado di trovare la via d’uscita. Offeso per l’ingiurioso trattamento ricevuto, il re arabo mosse guerra al regno di Babilonia, riuscendo infine a sconfiggere l’odiato nemico e a farlo prigioniero.

Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni, e gli disse: “Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non vi sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo”.

Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di sete. [Continua »]


Dire l’addio

Una serie di cui solo recentemente l’audience occidentale è venuta a conoscenza e della quale è stata appena lanciata la terza stagione, è Shtisel: in essa si racconta, spesso a tinte ironiche, la vita quotidiana e pur atipica (per noi) di una famiglia haredìm nella Gerusalemme di oggi. Tra fallimentari tentativi di sposalizi, feste e celebrazioni, affetti e aspirazioni personali, scontri di genitori con figli (a tutti i livelli), rigore di vita, scorre un filo sottile di tenerezza che dà senso e tratteggia i caratteri di ogni singolo componente – quando lo si inquadra nella solitudine della sua stanza, lontano dalla vita comunitaria o anche solo familiare. C’è una scena in particolare che riflette questo sentire, che ha tutti i tratti di una profonda devozione: uno dei personaggi reagisce scandalizzato e disperato ad una rappresentazione della donna amata – fissata per l’eternità in un’immagine che ne lascia intravedere i capelli sciolti, cosa considerata assolutamente sconveniente per una fedele e per quella fedele nella fattispecie. Ma invece di distruggere il quadro o reagire furiosamente, come ci aspetteremmo dal tenore della scena e dalla storia del personaggio fino a quel momento, una volta placato si ferma, prende in mano un pennello e incomincia a rivestire con il colore quella parte scoperta, tingendola di azzurro come l’abito della donna, lasciando il resto del lavoro così com’è. [Continua »]


Cronache terrestri

“Chiunque stesse bussando alla porta non era intenzionato a smettere.”

Nell’incipit de I terrestri, Ray Bradbury introduce subito il tema peculiare del racconto: s’insisterà, costantemente, per svelare una realtà a chi verso di essa è cieco.

I nostri protagonisti hanno appena attraversato cento milioni di chilometri di vuoto cosmico su un razzo spaziale per giungere su Marte; i primissimi marziani che il capitano Williams e i tre uomini del suo equipaggio incontrano non sembrano capire la portata di quello che sta accadendo: i terrestri su Marte! Arrivati lì proprio dalla Terra! Eppure nessun nativo sembra emozionato o anche solo vagamente impressionato.

Solo dopo numerosi tentativi i terrestri, sempre più allibiti, vengono indirizzati in una stanza dove sono finalmente accolti con festeggiamenti e schiamazzi. Per sfortuna del nostro equipaggio però la stanza in cui si trovano è un manicomio.

Ma com’è stato possibile? I nostri protagonisti scoprono in quella stanza che i marziani folli sono in grado di proiettare le proprie allucinazioni all’esterno:

Verso mezzanotte tutti quanti nella sala erano lì a fare prodigi con fiammelle viola, a mutare e trasformarsi, perché la notte era il momento del cambiamento e della pena.

Il capitano prende consapevolezza che, se i marziani sono in grado di creare allucinazioni così reali, allora per i marziani che avevano incontrato fino a quel momento era stato naturale credere che egli potesse aver fatto lo stesso, rendendo il frutto della sua follia — il suo aspetto umano e perfino il suo equipaggio — visibile agli altri. Per loro, ciò che per lui era reale al di fuori della sua mente, era soltanto nella sua mente. [Continua »]


Orientarsi con le stelle

Sembra che la prima testimonianza di una parvenza di rappresentazione cartografica, giunta intatta sino ai nostri tempi, non riguardasse la superficie terrestre quanto quella celeste. Si tratta di alcuni puntini dipinti con pigmenti minerali, circa sedicimilacinquecento anni prima di Cristo, sulle pareti delle grotte di Lascaux, che riproducono, in piccolo, costellazioni quali le Pleiadi, Vega, Deneb e Altair. Questi frammenti di mappe del cielo notturno, intervallati da figure di cervi, bisonti, cavalli e felini, ci ricordano uno dei bisogni che da sempre accompagnano l’umanità, ovvero la necessità di orientarsi nel mondo.

Orientarsi significa, letteralmente, trovare l’oriente e, da lì, determinare gli altri punti cardinali, in modo da chiarire la propria posizione geografica. La capacità di sapersi localizzare nello spazio circostante e di stabilire delle coordinate in grado di ridurre a sistema i luoghi conosciuti e sconosciuti rappresenta uno di quei passaggi evolutivi fondamentali nella storia dell’uomo. Tuttavia l’esigenza di orientamento spaziale, pur coincidendo con una necessità di basilare sopravvivenza dell’umano, di per sé non soddisfa la domanda di senso dell’individuo, che si chiede piuttosto quale sia la sua posizione esistenziale nel mondo. Sono note, in proposito, le tre ferite narcisistiche individuate da Freud, che umilierebbero l’uomo rivelandogli la menzogna di una sua supposta centralità rispetto al cosmo (Copernico), all’evoluzione (Darwin) e, infine, rispetto a se stesso (Freud). Ma tali disillusioni non rappresentano la causa di un disorientamento; al contrario sono spie della necessità umana di individuare il proprio posto nel mondo, inteso come consapevolezza della situazione in cui il soggetto viene a trovarsi, in relazione allo spazio, al tempo, a se stesso, agli altri. [Continua »]


Ladri di ricordi

Capita a tutti di perdere qualcosa. Di non trovare più un oggetto, un pensiero, un’idea, un ricordo. Di sentirsi soli, privati di un riferimento, come abbandonati. Un po’ nostalgici, un po’ tristi. Una sensazione fulminea, che nella maggior parte dei casi passa senza lasciare troppe tracce.

Ho perso un Mondo – l’altro giorno! dice Emily Dickinson.

E prosegue:

Qualcuno l’ha trovato?
Si riconosce dal Filo di Stelle
Legato intorno alla fronte.
Un Ricco – potrebbe non notarlo –
Eppure – al mio Occhio frugale,
Ha più Valore di Ducati –
Oh trovatelo – Signore – per me! *

Perdere un mondo è un po’ più complicato, certo. [Continua »]


Le finestre e l’estate

Il premio Nobel Louise Glück nella sua raccolta di poesie del 2014 “Faithful and Virtuous Night” ha scritto questo breve componimento:

La finestra aperta

Un anziano scrittore aveva preso l’abitudine di scrivere la parola FINE su un pezzo di carta prima di iniziare i suoi racconti, dopo di che raccoglieva una pila di pagine, particolarmente sottili in inverno quando la luce del giorno era breve, e relativamente spesse in estate quando il suo pensiero diventava di nuovo affrancato e capace di creare associazioni, espansivo come quello di un giovane. Indipendentemente dal loro numero, metteva queste pagine bianche sull’ultima, nascondendola. Solo allora la storia sarebbe arrivata fino a lui, casta e raffinata d’inverno, più libera d’estate. Utilizzando questi metodi era diventato un maestro riconosciuto.

Lavorava di preferenza in una stanza senza orologi, confidando che la luce gli dicesse quando la giornata era finita. In estate, gli piaceva la finestra aperta. Come può, d’estate, entrare nella stanza il vento invernale? Hai ragione, gridò al vento, questo è quello che mi è mancato, questa risolutezza e repentinità, questa sorpresa — Oh, se potessi farlo sarei un dio! E giaceva sul pavimento freddo dello studio a guardare il vento che agitava le pagine, mescolando le scritte e le bianche, la fine in mezzo a loro.

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