La persistenza del vuoto

Racconta Platone nel Teeteto che «Talete (…) mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo prese in giro dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle che gli stavano davanti e tra i piedi».
Dovremmo dire alla servetta trace che, in realtà, non c’è nulla da scherzare, e non solo per simpatia nei confronti del buon vecchio Talete. Forse la distrazione di Talete e il suo cadere nel pozzo lo ha portato ad osservare gli astri da una prospettiva diversa e a scoprire qualcosa di nuovo e di affascinante.
D’altronde i buchi del terreno sono oggetto di studio di una disciplina specifica, la speleologia, che appunto «studia le grotte o caverne naturali, la loro origine ed evoluzione, fenomeni fisici, biologici e antropici che vi sono svolti e che vi si svolgono». E allora il vuoto, qualcosa da evitare (il pozzo di Talete) e a volte da riempire (le buche nelle strade!) diventa qualcosa da sondare, da esplorare, da studiare: un vuoto che ha uno spessore e che può aiutarci a capire molte cose, ad esempio, sulla natura del nostro pianeta.
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