Immaginando

Una simpatica proposta del Laboratorio di scrittura creativa di Reggio Calabria:
La fotografia aiuta a pensare, intrecciare storie, mettere in relazione indizi e trovare nuovi significati alle cose. La fotografia aiuta a ricordare, a collegare eventi lontani, a guardare oltre l’apparenza, a districarsi nel labirinto dei sogni (Anna D’Elia).

Vecchietta di Pepi MerisioL’immagine che proponiamo qui a fianco è di Pepi Merisio, fotografo di Caravaggio (BG), tratta da una collana della Fabbri Editore e noi di Pietre di scarto vi siamo molto affezionate. Prendendo spunto da questa fotografia, infatti, abbiamo svolto il primo esercizio di immaginazione del laboratorio di scrittura creativa di quest’anno. Un’immagine che ci ha perseguitati per un bel po’, un bianco e nero per certi aspetti inquietante e chi dei partecipanti quel giorno ha fatto l’esercizio con un’altra immagine ha chiesto di poter avere anche questa, affermando in seguito di non aver trovato pace prima di essere riuscito a trovare un po’ di tempo per prendere carta e penna e raccontare ciò che la vecchietta aveva avuto da dire. Il titolo della fotografia è proprio “Vecchietta”.

Scopo di ogni artista è arrestare il movimento con mezzi artificiali e tenerlo fermo, ma in modo tale che 100 anni dopo quando un estraneo lo guarderà, torni a muoversi, perché è vita. (William Faulkner).
Proponiamo a chi volesse cimentarsi in questo gioco di provare a spiegare quali emozioni, impressioni, sensazioni si sono mosse in lui/lei, facendo ricorso all’immaginazione, lo strumento migliore al quale possiamo e dobbiamo affidarci per imparare ad immergerci nella realtà e da essa lasciarci travolgere. Provate, se vi va, a comunicarcele in poche righe. Non abbiate paura di farlo perché spesso non sono nè le persone nè le cose a cambiare, ma è soltanto il nostro modo di vederle.

“La bellezza delle cose esiste nella mente che le contempla” (D. Hume).


Le storie di bambini devoti tendono a essere false

Le storie di bambini devoti tendono a essere false. Probabilmente perché vengono raccontate da adulti, che vedono virtù dove i loro soggetti vedrebbero solo una pratica linea di condotta; o forse perché tali storie sono scritte per edificare, e quel che è scritto per edificare finisce in genere per far sorridere. Da parte mia, non ho mai avuto un grande interesse per le storie di ragazzini che costruiscono altarini e giocano a fare i preti o di bambine che si vestono da suore, o dei devoti bambini protestanti che, in mancanza di questo equipaggiamento, rischiarano gli angoli dove si trovano.

941231Nella primavera del 1960 ricevetti una lettera da suor Evangelist, la superiora della Casa per malati di cancro “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” di Atlanta. “Questa è una strana richiesta”, diceva, “ma cercheremo di esporre la nostra storia il più brevemente possibile. Nel 1949 una bimba di tre anni, Mary Ann, venne accolta come paziente nella nostra casa. Si rivelò una bambina straordinaria, e visse fino all’età di dodici anni. Di questi nove anni molto merita di essere raccontato. Pazienti, visitatori, suore, tutti furono in qualche modo influenzati da questa bambina malata, anche se nessuno pensava a lei come a una malata. È vero, era nata con un tumore che le copriva un lato del viso; un occhio le era stato tolto, ma l’altro brillava, ammiccava, danzava birichino, e dopo averla vista una volta non ci si rendeva più conto del suo difetto fisico, ma si riconosceva soltanto il suo spirito splendidamente coraggioso e si provava gioia per averla incontrata. Dunque la storia di Mary Ann deve essere scritta, ma chi potrebbe farlo?”
Non io, mi dissi. [Continua »]


Che cosa significa “sentirsi a casa”?

Sentirsi a casa è un’espressione comune. Tutti abbiamo l’intuizione di cosa essa significhi. Ma riflettendo su questo tema mi sono chiesto: come si dice il fatto di non sentirsi a casa. Proverò a suggerire due risposte, le prime che mi vengono in mente. Penso sia meglio così: cominciare a parlare del sentirsi a casa a partire dal suo opposto, dalla sua mancanza. Del resto, spesso nella vita si capisce l’importanza delle cose proprio quando ci vengono a mancare…

La prima è sentirsi spaesati. Che cosa significa la parola spaesamento? Significa non avere un paese e dunque non avere un paesaggio. Lo spaesato è colui che si sente disorientato, senza punti di riferimento e di orientamento, in un contesto non congeniale. Ecco, dunque, che cosa può significare sentirsi a casa: avere un pavimento e un orizzonte, stare in un contesto in cui ci si orienta, in cui è possibile muoversi. Uno spaesato non sa dove sia e non sa dove andare: sa andare ma non sa dove. La casa è l’inizio che rende possibile la nostra navigazione nello spazio: forse non è un caso che la pagina iniziale di un sito internet si chiami homepage: la pagina-casa, cioè la pagina da cui ci comincia, da cui si parte e da cui si entra. Chi si sente a casa sa riconoscere la propria collocazione nel mondo, nella vita perché ha ad-domesticato lo spazio in cui vive. L’ha reso una “casa”. Questo non significa affatto che non ci siano luoghi ignoti, cantine e soffitte. Tutt’altro! Cosa sarebbe una casa senza angoli “oscuri”, senza spazi di selva, senza ripostigli? Tutto sarebbe alla luce del sole. Sarebbe il tragico trionfo dell’illuminismo e della ragione calcolante nelle nostre vite! E questo è tipico delle case non vissute, delle vite che non trovano una casa. Tuttavia nella casa la zona oscura diventa parte di un cosmo, di una terra abitata, di oggetti e spazi addomesticati, fatti propri.

La seconda è sentirsi a disagio. Che cos’è il dis-agio? È quella sensazione che ci prende quando ci sentiamo s-comodi, in imbarazzo, quando percepiamo con forza che il nostro star lì dove siamo sia di troppo. Siamo a disagio quando non ci armonizziamo con il contesto (di relazioni umane o di ambienti) in cui siamo e non riusciamo dunque a collocarci (e tanto meno a perderci…) dentro di esso. Il disagio è frutto di un sentire troppo la propria stessa presenza sulle spalle. Come fai a sentirti a tuo agio? Quando puoi intervenire liberamente a cambiare qualcosa. Un esempio: aggiustarsi il cuscino a letto o su un divano. Un altro: slacciarsi il nodo della cravatta. Un altro: togliersi le scarpe e mettersi le ciabatte. Tutti segni che rendono evidente un agio, lo sciogliersi di qualcosa di noi in un contesto umano (amici, famiglia,…) o ambientale (tornare nella propria abitazione).

Qualche anno fa ho visitato a Oak Park (Chicago) la casa del famoso architetto Frank Lloyd Wright. Splendida. Veramente. Wright è uno dei più grandi architetti contemporanei. Tutto era di forma e dimensione giusta: la camera dei bambini aveva il soffitto basso. Anche la sala da pranzo era bassa: si poteva stare comodi solo seduti a tavola, tutto sommato. Le sedie avevano una spalliera alta che finiva con un parallelepipedo che incorniciava i volti. In quella stanza non c’erano quadri perché i veri quadri devono essere i volti delle persone incorniciate da quei rettangoli di legno. E così via. Tutto bellissimo. Tuttavia, appena arrivato fuori, ho tirato un sospiro di sollievo. Perché lì era tutto funzionale, tutto già adatto. Troppo adatto. E invece la vita non è così adatta. E la casa che vai ad abitare non può essere già tutta adatta. Deve essere addomesticata. La casa deve adattarsi a te mentre la vivi, e tu devi adattarti ad essa. C’è uno scambio dinamico tra house ed home, per usare i due distinti termini inglesi, che la nostra lingua invece riunisce. Questo significa sentirsi a casa: vivere questa relazione fatta di adattamenti, aggiustamenti, pentimenti, sistemazioni continue. È la tipica situazione del trasloco: la nuova casa va indossata ed essa deve indossare te. Come un abito: abito e abitazione hanno la stessa radice.

Come anche ha la stessa radice la parola abitudine. È interessante notare che la raccolta delle lettere di Flannery O’Connor è l’intraducibile espressione The Habit of Being, cioè letteralmente L’abitudine di essere. Qui il termine non significa meccanica e noiosa abitudine di essere a questo mondo, ma qualità essenziale, disposizione interiore a essere, a vivere. Questo è il vero e fondamentale sentirsi a casa. Allora la stessa esistenza diventa una casa, al di là di pareti, comignoli e quadri appesi. Anzi: la propria vita diventa una casa accogliente e comoda, come ha scritto il poeta islandese Sigurdur Palsson in La mia casa:

Non manca quasi niente
nella mia casa.
Quasi niente
Manca il comignolo
Ci si abitua
Mancano i muri
e i quadri sui muri
Pazienza

Non manca molto
nella mia casa
Manca il comignolo
Che per adesso non fuma
Mancano i muri
e le finestre
e la porta

Ma è accogliente, la mia casa
Prego
Accomodatevi
Non abbiate paura
Mangiamo qualcosa
Spezziamo il pane, un goccio di vino
Accendiamo il camino

Guardiamo
no, ammiriamo i quadri
sui muri

Prego
entrate dalla porta
o dalle finestre
se non dai muri.


La biblioteca di tutte le storie

Dove stiamo mettendo i piedi?
Spesso dimentichiamo che la Bibbia è un libro: quanti lo hanno letto consequenzialmente, come si fa con un romanzo? Pochi. Eppure ci sarà una ragione se i suoi libri ci sono offerti in un certo ordine, piuttosto che in un altro…
Per di più, la Bibbia è un libro quanto meno presuntuoso, e lo è fin dal titolo. Tradotto innocuamente significa «biblioteca», ma la sua esplicita intenzionalità è di essere «la biblioteca», la raccolta di tutte le storie. È stato William Blake a definirla the graet code of Imagination. [Continua »]


Le proporzioni mitiche della vita

«In occasione di una delle nostre ultime gite in macchina – mio padre era alla fine della sua vita terrena – ci fermammo nelle vicinanze di un fiume, raggiungemmo a piedi la riva e ci sedemmo all’ombra di una vecchia quercia. Dopo un paio di minuti mio padre si tolse scarpe e calzini, immerse i piedi nell’acqua che scorreva limpida e restò lì a fissarli. Poi chiuse gli occhi e sorrise. Non lo vedevo sorridere così da molto tempo. [Continua »]


Giardini in tasca su caldaie crepate

“Bombasicilia” è il trimestrale d’approfondimento curato dalle Kukuzze. Il nuovo numero, il quinto del quinto anno, si intitola “GIARDINI IN TASCA SU CALDAIE CREPATE”.

117524893_c344a9894e_m62 pagine e un nuovo menabò disegnato da Luigi “g1ga” Bellanca.

L’Editoriale di Maria Renda, “Per quelli che prendono la letteratura sul serio”, apre il numero dedicato al cosmo dell’esperienza della lettura. I giardini in tasca sono, secondo un proverbio cinese, i libri, quelli che ci portiamo sui treni, nelle università, quelli che ci hanno aperti a nuovi sensi e quelli che ci hanno lasciati annichiliti, le caldaie crepate sono le parole con cui quei libri sono stati scritti e quelle con cui cerchiamo di descriverli. [Continua »]


A proposito di miracoli

(L’esperienza delle PIETRE DI SCARTO)

Questa volta è stata proprio dura”, ci diciamo in coro appena arrivate, ma siamo soddisfatte: ci siamo date da fare, abbiamo cercato da sole oppure facendoci aiutare, chiedendo consiglio ad amici e parenti, coinvolgendo tutti in questo gioco appassionante.
Come si fanno i miracoli” – ci dicevano quelli ai quali ci siamo rivolte – “devi chiederlo a Dio: Lui certamente se ne intende” oppure “Ma che vai a pensare? Certo che ne hai di fantasia!” e qualche marito “C’è un mucchio di roba da stirare, quello sì che sarà un miracolo…”.

Ci sentivamo come esseri di un altro pianeta, stupide illuse che si danno a ricerche fasulle mentre urgono ben altri problemi da risolvere. Eppure siamo qui, nella sala della Biblioteca Comunale, che sentiamo ormai nostra, alla solita ora (beh, questa, però, è come al solito approssimativa).
Ciascuna di noi ha trovato più di una pagina di prosa o poesia, ma anche il testo di qualche canzone, qualche film e persino riferimenti a qualche opera d’arte. Notiamo con soddisfazione che il campo di ricerca delle nostre Officine va allargandosi ed approfondendosi, ma quel che più è importante è che continuiamo a conoscerci tanto da arrivare a prevedere l’ambito e il tipo di ricerca nel quale quasi sicuramente ciascuna si sarà cimentata.
Un’altra bella novità sono Vera Munafò, dottoranda all’Università di Messina in Scienze della Formazione e docente di lettere, che ha attraversato lo Stretto per essere con noi e Teresa Celestino, docente in pensione e attivissima volontaria ospedaliera, che può partecipare solo alle Officine perché tutti gli altri giorni è impegnata con l’AVO in Ospedale. [Continua »]