La voce

Nell’indagine che quest’anno BombaCarta si propone di svolgere intorno al corpo umano potrebbe apparire peculiare la scelta di iniziare dalla voce. Tra tutte le parti del corpo, la voce sembra essere infatti la più immateriale, impalpabile, invisibile, tanto che anche il solo definirla una “parte del corpo” pare essere un azzardo. Per altro verso, tuttavia, la voce rappresenta uno degli elementi che rendono maggiormente riconoscibile un individuo, consentendogli di comunicare ed esprimere la propria gamma di emozioni, pur rimanendo in qualche modo invariata nel proprio inconfondibile suono. Non a caso, in senso figurato, si dice spesso che un artista debba “trovare la propria voce”, avendo riguardo non tanto allo stile, quanto a quello specifico elemento – immateriale, impalpabile, invisibile – in grado di distinguerlo da tutti gli altri. Ma cosa intendiamo, quando parliamo di voce?

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Corpo senza anima

La parola corpo – soma (σῶμα) è stata spesso associata dagli antichi Greci alla parola sema (σῆμα) – tomba, in contrapposizione alla parola anima – psyché (ψυχή), vita. Dunque, corpo-tomba in contrapposizione ad anima-vita.

Omero, ad esempio, tutte le volte in cui nell’Iliade usa la parola corpo (σῶμα) si riferisce a corpi senza vita, a cadaveri.

Così Platone, che riprende le concezioni orfico-pitagoriche del dualismo corpo-anima:

Dicono alcuni che il corpo (σῶμα, soma) è séma (σῆμα, segno, tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia sepolta durante la vita presente (…). Però mi sembra assai piú probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé, affinché si salvi, questa cintura corporea a immagine di una prigione; e cosí il corpo, come il nome stesso significa, è séma (custodia) dell’anima finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare.” (Platone, Cratilo)

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Il corpo

Uomo vitruviano

Pochi concetti appaiono certi e allo stesso tempo ambigui come quello del corpo. Di esso abbiamo esperienza immediata e incontrovertibile: eppure quello stesso oggetto della nostra esperienza ne è anche in un certo modo soggetto in quanto agente delle sensopercezioni.

Ciò vale però solo per il nostro corpo, giacché quello degli altri – per quanto possiamo coglierlo empaticamente come affine – ci rimane in questo rispetto estraneo e si confonde con gli altri oggetti del mondo.

Pur essendo immersi da sempre nella nostra esperienza corporea, scopriamo il corpo a poco a poco senza ritenere mai una vera esperienza dell’inizio. L’incontro col mondo (volendolo far coincidere con la nascita, cosa niente affatto scontata se consideriamo la progressiva maturazione delle capacità percettive del feto) è segnato da “pena e tormento per prima cosa” (Leopardi, Canto notturno); eppure non ce lo ricordiamo: in quel frangente non abbiamo alcuna capacità di discriminare ciò che è dentro da ciò che è fuori, ciò che è nostro da ciò che non lo è. Siamo, a ogni stimolo (una colichetta, il senso di fame), un sentire senza oggetto, totale e totalizzante; stimolo che non è ancora “un” dolore collocato in “una” parte del corpo: siamo dunque noi, in quel momento, tutto-dolore, tutto corpo, tutto disperazione fino alla salvifica poppata che ci rende improvvisamente tutto appagamento e piacere. Un giorno, più in là, scopriremo le “nostre” mani e i “nostri” piedi con curiosità e un po’ di sconcerto.

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Qualcosa attraverso cui si può vedere

Il 29 giugno 2023 è stato il 225° anniversario della nascita di Giacomo Leopardi. È di certo una ricorrenza degna di nota perché Leopardi, scuola o non scuola, è uno di quegli autori che è sempre bene leggere. E rileggere. E magari ascoltare: un esempio per tutti, “L’infinito” (letto da Carmelo Bene o da Vittorio Gassman).

In questo idillio Leopardi trasforma una siepe da impedimento a possibilità: quella di affrontare un viaggio nel mistero silenzioso dello spazio.

[…] siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura.[…]

Il poeta ci mostra come sia possibile attraversare con lo sguardo un muro di foglie e immaginare una vista più ampia, buttarsi a capofitto, con spavento, in una forma di futuro dove spazio e tempo diventano i protagonisti di un sogno che parla di infinito. [Continua »]


La persistenza del vuoto

Racconta Platone nel Teeteto che «Talete (…) mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo prese in giro dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle che gli stavano davanti e tra i piedi».

Dovremmo dire alla servetta trace che, in realtà, non c’è nulla da scherzare, e non solo per simpatia nei confronti del buon vecchio Talete. Forse la distrazione di Talete e il suo cadere nel pozzo lo ha portato ad osservare gli astri da una prospettiva diversa e a scoprire qualcosa di nuovo e di affascinante.

D’altronde i buchi del terreno sono oggetto di studio di una disciplina specifica, la speleologia, che appunto «studia le grotte o caverne naturali, la loro origine ed evoluzione, fenomeni fisici, biologici e antropici che vi sono svolti e che vi si svolgono». E allora il vuoto, qualcosa da evitare (il pozzo di Talete) e a volte da riempire (le buche nelle strade!) diventa qualcosa da sondare, da esplorare, da studiare: un vuoto che ha uno spessore e che può aiutarci a capire molte cose, ad esempio, sulla natura del nostro pianeta.

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I buchi della trama

Scriveva Chesterton che «un’avventura è solo un incidente considerato nel modo giusto; un incidente è solo un’avventura considerata nel modo sbagliato». Chissà se si può dire lo stesso anche dei buchi. Quando parliamo di “buchi della trama”, infatti, ci vengono subito in mente gli errori, le dimenticanze, le incongruenze, qualcosa che è sfuggito al controllo dell’autore. Qualcosa da coprire, magari “mettendoci una pezza”, come si dice a Roma, se non che la toppa finisce spesso per essere ancora più evidente del buco (pratica che sconsiglia perfino il Vangelo, cf. Luca 5,35-36).

Eppure in ogni tessuto i buchi sono una parte costitutiva. Nell’intreccio di ordito e trama, si alternano spazi vuoti minimi, ma necessari. Con l’inizio dell’estate ce ne rendiamo conto ancora meglio: ci vestiamo di cotone o di lino, cerchiamo tessuti leggeri, traspiranti, che permettono all’aria di attraversarli. Viceversa, se una veste è perfettamente compatta, magari come una cerata, diventa impermeabile: perfetta per affrontare giusto il tempo di un acquazzone, ma da togliere poi appena possibile. Scrive Isabella Ducrot, artista che ha messo al centro delle sue opere proprio le stoffe:

Non sembra esagerato suggerire che la compattezza implichi assenza di spirito. In un tessuto, l’invisibile, ingabbiato tra le pareti visibili dei fili, partecipa attivamente alla sua specificità e all’articolazione fra vuoti e pieni si deve la sua duttilità: così due elementi essenzialmente eterogenei vengono a convivere e producono qualcosa di paragonabile a un respiro incarnato (La matassa primordiale).

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Di quale disegno vorremmo essere la matita?

L’ago e il pennello sono due strumenti creativi formidabili: permettono di confezionare oggetti e dipingere quadri meravigliosi. Questi attrezzi portentosi sarebbero solamente degli oggetti inerti e inutili se non fossero maneggiati dall’artista e dalle idee ed emozioni che guidano il movimento delle sue abili mani.

Italo Calvino, nel capitolo Rapidità delle sue Lezioni americane riporta una storia cinese:

Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.

Ci sono quadri frutto di una realizzazione lunga, lenta e meticolosa. Quello di Chuang-Tzu invece è stato realizzato “con un solo gesto” e “in un solo istante” che però è il risultato di un lungo periodo di tempo. Dieci anni in cui il pennello è rimasto fermo, inutilizzato e in cui invece, probabilmente, la mente dell’artista ha riflettuto molto.

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