Due volti degli anni di piombo

Demetrio Paolin e Ferruccio Parazzoli. Un giovane e un veterano delle nostre lettere. Di qui un saggio, di là un romanzo-non romanzo, meglio una vorticosa e visionaria serie di immagini. In comune la cosa da narrare. Gli anni di piombo. Paolin concentra la sua attenzione sulle scritture che si sono occupate di terrorismo, mancando a suo giudizio un’occasione storica: quella di comprendere la dimensione tragica degli eventi e di puntare lo sguardo sulle vittime, veri “fantasmi” della narrativa di quella stagione. Parazzoli, invece, rilegge la vicenda Moro dal punto di vista di papa Paolo VI, che, novello Giobbe, si vede inconsapevolmente strumento di una rinnovata scommessa tra Dio e il Diavolo sulla fedeltà e la fede di un vicario di Cristo messo atrocemente alla prova dalla storia. Qui di seguito potete vedere le due interviste rilasciate dagli autori a La Compagnia del Libro.
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Il Fuoco amico di Abraham Yehoshua

Due affiatati coniugi israeliani, Yaari e Daniela, sono costretti ad una separazione forzata. Daniela vola in Africa per andare a trovare il cognato Yirmiyahu che ha scelto il remoto continente come riparo dopo la morte della moglie. E’ un uomo segnato dalla tragedia: prima ancora della scomparsa della moglie, suo figlio è stato ucciso dal “fuoco amico” dei suoi commilitoni durante un’operazione militare in Cisgiordania. Nello spazio scavato dalla separazione provvisoria, Yehoshua muove le storie parallele dei due coniugi, un “duetto” nutrito di segrete corrispondenze: ciascun coniuge è alle prese con un diverso enigma e ogni enigma affonda nell’altro il suo pungolo. Ma che forma prende il mistero? I venti che – come spiriti indomiti – agitano la notte degli inquilini di un grattacielo di cui Yaari ha progettato gli ascensori, in Israele. La dinamica della morte del giovane nipote per “fuoco amico” in Africa. [Continua »]


La poesia e la bellezza: intervista a Franco Loi

Si può parlare della bellezza? E cosa c’entra la letteratura?

Della bellezza è sempre difficile parlare. Anche quando si è innamorati non si riesce a parlare della bellezza. Si rimane statici di fronte alla bellezza. Si rimane colpiti, ma ci si sente diversi. E allora si resta zitti e nasce il silenzio. La poesia nasce proprio dal silenzio, la poesia è il tentativo di dire qualcosa che in realtà non si può dire. Quando Dante è davanti alla luce di Dio, dice: “Qui oltre non posso più parlare, qui alla parola manco possa, all’alta fantasia qui manco possa” ovvero qui manca la potenza, qui manca la possibilità. Io penso che anche davanti alle cose più semplici è difficile dire. Il dire è sempre condizionato dalla precarietà e dall’impossibilità della parola di dire esattamente ciò che sente. Quando sei innamorato, infatti, tenti invano di [Continua »]


Come salvare la bellezza? Gerard Manley Hopkins

Come salvare la bellezza dallo svanire lontano? Questa sembra la domanda fondamentale che genera l’ispirazione di Gerard Manley Hopkins. In lui risuona un’eco di piombo: l’unica possibilità di saggezza è quella di cominciare a disperare perchè non resta altro che l’età, i mali dell’età, canuti capelli, / pieghe e rughe, e il mancare e il morire, l’orrore della morte, avvolti sudari, le tombe, i vermi, e il crollare alla corruzione. A questa eco però ne segue subito un’altra, un’esplosione di suoni che festeggia la presenza di una via di fuga, un’eco d’oro: quanto sembra fuggire veloce, finito e disfatto, è invece destinato ad essere avvinto dalla più tenera verità / alla perfezione del suo essere, alla sua giovanile bellezza. Ecco: ciò che colpisce Hopkins è l’eccesso di presenza che solo la bellezza sa comunicare. Questa bellezza giovane è la Bellezza screziata da cui prende il titolo una sua splendida poesia. In essa Hopkins dà gloria a Dio per le cose chiazzate -/ per i cieli d’accoppiati colori come vacca pezzata;/ per i nèi rosa in puntini sulla trota che nuota; per tutte le cose contrarie, originali, impari, strane;/ quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?).

Nei versi di Hopkins tutto sembra percorso da una scossa. Il mondo è come carico della grandezza di Dio. Carico (charged), sia nel senso del peso sia nel senso della carica elettrica, così che questa grandezza fiammeggerà, come fulgore da percossa lamina. La grandezza di Dio scuote e fa vibrare, imprime guizzo e slancio esuberante, sempre in movimento, mai in stallo. Hopkins esalta dunque Dio non in quanto stabile sicurezza dell’essere, al di là delle singole forme, ma in quanto autore delle differenze e delle energie polarizzanti, di ciò che è instabile nella durata e nella forma. Ecco dunque la certezza: vive in fondo alle cose la freschezza più cara. E così, grazie a questa visione profonda delle cose, Hopkins sarà acuto osservatore di vento, gradine e chicchi, dei flussi e riflussi del mare, delle forme degli alberi e delle curvature di acque che scorrono sopra le pietre, di sottili sfumature cromatiche nei tramonti del sole e delle infinite figure di nuvole di continuo cangianti. L’atto poetico comincia non nella coscienza autistica del poeta, ma nella visione attiva e vibrante del mondo: «è possibile che in certi tempi la bellezza di un albero, la sua forma, un determinato effetto, ecc. mi trasporti nella massima stupefazione», scrive Hopkins in una lettera.

Nel mondo resta sempre immediatamente visibile la gloria della creazione: Cos’è tutta questa linfa e tutta questa gioia?/ Un’eco del dolce essere della terra all’origine, scrive. Nel gheppio come nel sasso, nella libellula come nel corpo umano, nell’aria come nella zolla, nella trota iridata come nella mucca pezzata, Hopkins percepisce un eccesso, un’esuberanza, una bellezza sbocciante, una freschezza fumante, un rigoglio di godimento giovane, una brulicante giovinezza nel reale da cui viene attratto irresistibilmente. La realtà è infiammata, avvampa. E tutto questo fuoco è ancora l’eco caldo della creazione, dell’inizio.

Che la bellezza sia mortale o immortale è, se così possiamo dire, di secondaria importanza rispetto a ciò che essa opera: la rottura dell’io, la sua apertura, lo sconvolgimento della sua pigrizia. La bellezza è sempre bruta e pericolosa, e persino barbarous. Per quanto la bellezza «mortale» possa rapire l’anima di chi la contempla, alla fine essa non è che un filo di Arianna per chi è toccato dalla Grazia. Il principio primo della poesia hopkinsiana è che ogni bellezza appartiene a Cristo e a lui deve essere sempre rapportata. Per questo motivo egli è anche il giudice estetico ultimo di ogni arte umana. Infatti scrive il poeta in una lettera all’amico Dixon: «L’unico critico letterario giusto è Cristo». E all’amico poeta R. Bridges: «Come io faccio la critica a te, anche Cristo la fa, ma in maniera più giusta e più amabile, a te sia come poeta che a te come uomo».

Hopkins attraverserà momenti tremendi tra il 1885 e il 1887 nei quali scriverà i suoi terrible sonnets, ritrovati solo dopo la sua morte: un percorso dolorosissimo. Qui lo sguardo aperto e guizzante sul reale sembra perdersi nel buio della depressione e dello sconforto. La percezione del baratro si fa amara: Sono fiele, / sono bruciore. Il più fondo segreto di Dio / l’amaro volle che gustassi: il mio gusto ero io. Ma, seguendo questi pensieri, alla fine Hopkins stesso esplode in un fragoroso Basta! per frenare i pensieri di desolazione. Morte, piombo, buio cedono allo squillo del cuore (heart’s-clarion), la Resurrezione: in un lampo, a uno squillo,/ subito sono quel che è Cristo, poiché lui fu quel che sono, e/ questo poveraccio, scherzo, povero coccio, toppa, legno di zolfanello, diamante immortale, è diamante immortale. Ciò che è nulla, un piccolo truciolo, un fiammifero, diventa al fuoco della resurrezione un diamante.

Alla fine l’invocazione folgorante resta intatta nella sua richiesta di vita: o tu signore di vita, manda pioggia alle mie radici.

Da IL NAUFRAGIO DELLA DEUTSCHLAND
(traduzione di Viola Papetti)

Ti ammiro, signore delle maree,
dell’antico diluvio, della caduta dell’anno;
chiusura e riparo dei fianchi del golfo,
sua misura e sua riva e cinta;
acquietante, placante l’oceano della mobile mente;
rocca dell’essere, e suo granito: oltre ogni
presa Dio, troneggiante dietro
Morte con sovranità che cura ma si cela, prevede ma attende;

con pietà che valica
l’acqua tutta, un’arca
a chi ascolta; a chi indugia con un amore che scivola
più giù della morte e del buio;
vena per visitare chi è oltre la preghiera, chiuso in prigione,
spiriti penitenti all’ultimo respiro – estrema meta
che il nostro gigante sprofondato nella passione e risorto,
il Cristo del Padre pietoso, raggiunse nella tempesta dei suoi passi.

Ardi ora, nuovo nato al mondo,
doppio-naturato nome,
cielo-scagliato, cuore-incarnato, vergine-avvolto
in Maria miracolo di fiamma,
Lui medio numero fra i tre del trono di tuono!
Non abbagliante giorno del giudizio nella sua venuta né oscuro venne;
gentile, ma regalmente reclamando il suo;
una pioggia sciolta, splenda sulla contea, non folgore di
[fuoco violento-vibrato.

FALCONE
(traduzione in prosa di Benedetto Croce)

Questa mattina io còlsi il prediletto del mattino, il delfino del regno, della luce, il falcone dal colore cangiante nell’alba, nella sua cavalcata per il piano sotto di lui rotolante di densa aria, e nel suo anelare verso l’alto, come si moveva in cerchio sotto il freno di un’ala, che l’avvolgeva
nella sua estasi! Poi via, via ancora d’un balzo, come il tallone d’un pattino scivola dolce su di una curva: il lancio e lo scivolio respingevano il gran vento. Il mio cuore di nascosto batteva per un uccello, per la sua perfezione, per la sua maestria!
Bruta bellezza e valore e atto, oh! aria, orgoglio, penna, qui stringete il vostro nodo! E il fuoco che rompe da te poi, un bilione di volte più amabile, più pericoloso, o mio cavaliere!
Non maraviglia di ciò: duro lavoro fa splendere l’aratro giù nel solco, e pallido-azzurre ceneri, ah!, mio caro, cadono, si eccitano, e fanno brillare l’oro vermiglio.

LA GRANDEZZA DI DIO
(traduzione di Antonio Spadaro)

Il mondo è carico della grandezza di Dio.
Darà fiamma, come fulmine da lamina vibrata
si raccoglie a ingrandirsi, come il gocciolio d’olio
franto. Perché l’uomo ora non teme la sua verga?
Generazioni hanno pestato, pestato, pestato;
e tutto è seccato dal commercio; oscurato, macchiato dalla fatica;
e porta chiazze d’uomo e puzza d’uomo: il suolo
è nudo ora, né sente piede, perché calzato.
Ma non per questo la natura è spenta;
vive in fondo alle cose la freschezza più cara;
e sebbene l’ultima luce dal nero occidente se ne sia andata
oh, il mattino, dall’orlo bruno d’oriente, sgorga –
perché lo Spirito Santo sopra il curvo
mondo cova con caldo petto e con oh! ali di luce.


BombaCinema – 13 Marzo

Giovedì 13 Marzo 2008 si è tenuto il consueto appuntamento bisettimanale col laboratorio BombaCinema.

L’adesione è stata piuttosto numerosa, forse anche dovuta alla riunione dei coordinatori di BombaCarta che si è tenuta dopo.

Il tema di questo appuntamento era La donna e sono stati visionate sequenze dai seguenti film:
1. OSTIA di Sergio Citti (portato da Giulio)

2. MAMMA ROMA di Pier Paolo Pasolini (portato da Valeria)

3. ORLANDO di Sally Potter (portato da Maura)

4. IO NON SONO QUI di Todd Haynes (portato da Claudia)

5. LA CITTA’ DELLE DONNE di Federico Fellini (portato da Piera)

6. JULES E JIM di Francois Truffaut (portato da Damiano)

7. IL MIGLIORE di Barry Levinson (portato da Marco)

8. KILL BILL VOL. I di Quentin Tarantino (portato da Michela)

9. INDOVINA CHI VIENE A CENA di Stanley Kramer (portato da Cecilia)

10. UN UOMO TRANQUILLO di John Ford (portato da Andrea)


De terra terraeque visceribus

Ex Antonii Spadari charta Rosa Elisa Giangoia vertit

Cum de terra cogito de humi manipolo, de terra atro castaneo colore in primis cogito. Haud dubie de terra Senensi usto colore. Puer coloribus aqua et oleo dilutis pingebam. Me valde movebat praesertim terrae coloris nomen. Dicine simpliciter castaneus color non poterat? Numquam quis color castaneus sit omnino intellexi. Ne intellexi quidem utrum mihi gratus sit an non. Manifestum mihi est nunc me brevem tunicam laneam castaneo colore induere. Profecto si terrae colorem dicimus blandissimum verbum, revocans omnibus notum sed iam nullis oculis perspectum, nisi in florum vasculis in podiis positis. Nobis qui in civitatibus vivimus terra arenato, asphalto, lamellis tapetisque substituta est. Nam quis etiam in terra ambulat?
Postea, cum [Continua »]