di
Valerio De Felice -
pubblicato il 24 Aprile 2020
Il giovanotto che, nel colmo dell’estate, parte da Amburgo alla volta di Davon-Platz, per una visita di tre settimane presso il Sanatorio Internazionale Berghof, non immagina certamente che il proprio soggiorno si protrarrà per sette anni. E tuttavia Hans Castorp era stato avvisato, al suo arrivo, dal cugino Joachim:
“Ho capito. Tu pensi già di ritornartene a casa” rispose Joachim. “Aspetta, aspetta; sei appena arrivato. Certo, per noi quassù tre settimane non sono niente, ma per te che sei venuto in visita e conti di restare soltanto tre settimane, per te sono un cumulo di tempo. (…) Qui ti manipolano il tempo altrui come non puoi immaginare. Per loro tre settimane sono un giorno. Vedrai, tutte cose che avrai modo di imparare” disse, e aggiunse “Qui si mutano i propri concetti.”
Se Hans Castorp, sin dal principio de La montagna incantata, pensa di ritornarsene a casa, oggi la nostra vita è tutta sintetizzata in una frase che è al contempo slogan, consiglio, ammonimento, hastag, prescrizione normativa: “restiamo a casa”. Questa frase segna, in un sol colpo, il limite del nostro orizzonte spaziale e temporale, ridisegnando abitudini presenti e aspettative future. Restiamo in attesa, giorno dopo giorno, di bollettini sanitari, di provvedimenti governativi, di notizie confortanti sulla malattia, di decreti che prolunghino o sospendano questo stato di reclusione.
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