I rumori del silenzio

Il 33 giri da cui è tratto The sound of silence di Simon & Garfunkel si intitola Sounds of silence. Un plurale che passa quasi inosservato. Il silenzio non ha una definizione univoca o meglio è difficile da definire. Ma ciò che provoca ha una eco infinita, notevole. Quasi plurale.

Questa quarantena (chiamiamola così per convenzione) mi colpisce per il silenzio. Anzi, mi colpisce perché mi ha letteralmente costretto a concentrarmi sul silenzio. Lo sento, lo percepisco, lo vedo. In certi momenti mi stordisce, mi infastidisce, mi sovrasta. Non ci sono, non ci siamo abituati. Lego questa forte sensazione alla paura che domina questo momento: paura non voluta, non cercata, non sempre riconosciuta.

È di questi giorni la lettura online di un articolo firmato da Arabella Cifani su “Il Giornale dell’Arte” dove ho ritrovato paura e silenzio: la terribile piaga della peste dei primi decenni del XVII secolo a Torino e la sua rappresentazione artistica. Cito dall’articolo:

Nel 1627 i frati della Chiesa di San Francesco d’Assisi di Torino, con spirito profetico e gusto del funereo veramente molto torinese, fecero dipingere dal pittore Giovanni Battista Della Rovere (Torino, prima del 1604- Torino, 1631 circa) un cupo e spaventoso dipinto intitolato «Speculum humanæ vitæ». Il quadro, oggi al Museo Diocesano di Torino, è sempre stato ricordato dalle fonti storiche come presente nell’atrio del convento: una sorta di inquietante e beffardo benvenuto per i visitatori e i fedeli.

 

[Continua »]


In attesa

Il giovanotto che, nel colmo dell’estate, parte da Amburgo alla volta di Davon-Platz, per una visita di tre settimane presso il Sanatorio Internazionale Berghof, non immagina certamente che il proprio soggiorno si protrarrà per sette anni. E tuttavia Hans Castorp era stato avvisato, al suo arrivo, dal cugino Joachim:

“Ho capito. Tu pensi già di ritornartene a casa” rispose Joachim. “Aspetta, aspetta; sei appena arrivato. Certo, per noi quassù tre settimane non sono niente, ma per te che sei venuto in visita e conti di restare soltanto tre settimane, per te sono un cumulo di tempo. (…) Qui ti manipolano il tempo altrui come non puoi immaginare. Per loro tre settimane sono un giorno. Vedrai, tutte cose che avrai modo di imparare” disse, e aggiunse “Qui si mutano i propri concetti.”

Se Hans Castorp, sin dal principio de La montagna incantata, pensa di ritornarsene a casa, oggi la nostra vita è tutta sintetizzata in una frase che è al contempo slogan, consiglio, ammonimento, hastag, prescrizione normativa: “restiamo a casa”. Questa frase segna, in un sol colpo, il limite del nostro orizzonte spaziale e temporale, ridisegnando abitudini presenti e aspettative future. Restiamo in attesa, giorno dopo giorno, di bollettini sanitari, di provvedimenti governativi, di notizie confortanti sulla malattia, di decreti che prolunghino o sospendano questo stato di reclusione.

[Continua »]


Arte. Consolare, nominare, annunciare

Arte, arte! In questi giorni si ha l’impressione che l’arte sia divenuta una delle grandi protagoniste delle ore da riempire. Appare sotto le forme più svariate: citazioni e dipinti sui social, offerte di tour virtuali dei più prestigiosi musei, programmi televisivi che ci fanno scoprire la ricchezza del patrimonio artistico mondiale.

Arte, dunque, ovunque; ma quale è la sua funzione, a patto che una funzione ce l’abbia? Sicuramente ne ha una consolatoria, perché attraverso il gesto artistico di altri sentiamo descritta la nostra sofferenza, così come la nostra gioia, la rabbia, la tristezza. L’arte delinea tutto questo con parole e segni a noi impossibili eppure necessari. Di fronte ad una grande opera – grande nel senso di vera – viene sempre da dire: ecco, è quello che avrei voluto esprimere io, ma non sapevo come fare a dirlo.

[Continua »]


OpenLab – pt. 11 e 12: Knausgard e Lewis

Prosegue l’OpenLab nella sua versione virtuale, adatta al momento che stiamo vivendo e sperimentazione di un “modello” per la condivisione e il commento di un testo a distanza.

Diego: L’isola dell’infanzia (Karl Ove Knausgard)

Si sarebbe portati a credere che queste fotografie rappresentino una specie di memoria, un insieme di ricordi, anche se privi di quell’io” da cui essi normalmente scaturiscono. Viene allora naturale chiedersi che cosa significhino. Ho visto un numero infinito di foto, scattate in quegli anni, di famiglie di amici e di fidanzate che sembrano così paradossalmente uguali da confondersi. Gli stessi colori, gli stessi abiti, gli stessi spazi, le stesse occupazioni. Eppure a queste immagini io non collego niente, in un certo senso risultano prive di significato, insignificanti, e questo aspetto diventa ancora più palese quando io osservo le foto delle generazioni precedenti, si tratta soltanto di un aggregato di esseri umani, con indosso indumenti esotici insoliti, che stanno per compiere qualcosa che mi risulta imperscrutabile. È il tempo quello che noi ritroviamo nelle foto, non gli esseri umani che vi compaiono, loro non si lasciano catturare. E questo valeva anche per le persone che facevano parte della mia cerchia più intima e ristretta. Chi era quella donna che si era messa in posa davanti ai fornelli dell’appartamento in Thereses gate, con indosso un abito azzurro chiaro, con un ginocchio premuto contro l’altro e i polpacci separati, in quella posizione tipica degli anni sessanta? Quella con i capelli raccolti e cotonati? Gli occhi azzurri e quel sorriso dolce che era così dolce da non parere quasi un sorriso? Con lei che stringe una mano intorno al manico del bollitore di metallo dal coperchio rosso che si usava per preparare il caffè? Si, era proprio mia madre, la mamma in persona, ma chi era? A cosa stava pensando? Come vedeva la propria vita, quella che aveva vissuto fino a quel momento, e quella che l’aspettava? Lo sa solo lei, e la foto non dice niente di tutto questo. Una sconosciuta in una stanza sconosciuta, tutto lì. E quell’uomo che dieci anni dopo è seduto su una roccia e sta bevendo il caffè dallo stesso coperchio rosso poiché si è dimenticato di infilare nello zaino due tazze quando sono partiti, chi è? Dalla barba nera, ben curata e i capelli neri e folti? Quell’uomo dalle labbra sensibili e gli occhi allegri? Oh sì, certo, era mio padre, il mio papà in persona. Ma chi era per sé stesso, in quel momento come in tutti gli altri, nessuno lo sa più.

[Continua »]


L’inessenziale

Inessenziale. Ultimamente abbiamo sentito utilizzare, sempre più spesso, questo termine desueto. A seguito delle restrizioni sulla nostra possibilità di uscire, in pochi giorni tutto ciò che ci appariva fondamentale e irrinunciabile nella vita di prima, ciò che sembrava caratterizzarci come esseri umani, come la possibilità di riunirci con gli altri, sembra essere diventato inutile.

Una simile situazione fa da cornice al racconto di E. M. Forster intitolato L’attimo eterno, che dipinge una società futuristica in cui ogni essere umano vive da solo in una cella sotterranea. Tutti sono assistiti e curati, e infine dominati, da un grande apparato tecnologico, la Macchina. Anche Vashti e Kuno, madre e figlio, protagonisti della storia, interagiscono solo attraverso di essa.

Ma fu costretta ad aspettare quindici secondi buoni prima di vedere illuminarsi il disco che teneva fra le mani. Ecco che una luce lo attraversava rapida, di un azzurro tenue che si incupiva nel porpora e di lì a poco ella riusciva a vedere l’immagine del figlio che abitava dall’altro capo della terra e il figlio riusciva a vedere lei.
“Kuno, come sei lento.”
Egli sorrise gravemente.
“Sono convinta che ci provi gusto, tu, a perdere tempo.”
“Madre, avevo già provato a chiamarti, ma eri sempre occupata, o isolata. Ho cosa particolare da dirti.”
“Di che si tratta, carissimo? Fa’ presto. Perché non me la scrivi e la mandi per via pneumatica?”
“Perché preferisco dirtelo a voce. Voglio…”
“Bene?”
“Voglio che tu venga a trovarmi.”
Vashti osservò sul disco azzurro il volto del figlio.
“Ma se già ti vedo!”, esclamò. “Cosa vuoi di più?”
“Non voglio vederti attraverso la Macchina”, disse Kuno. “Voglio parlarti a voce, non attraverso la tediosa Macchina.”

[Continua »]


Passeggiare fra le ricorrenze

È possibile che Raffaello Sanzio, il Titanic, i Beatles, la Venere di Milo e Dante Alighieri abbiano qualcosa in comune?

All’apparenza nulla: nomi noti, celebrità di gran fama che messe in fila così sembrano libri malriposti in uno scaffale disordinato.

In questi tempi il senso di disordine o meglio la sensazione di disorientamento sembra avere la meglio sulle giornate di molti di noi. Rintanati dietro le nostre finestre ci capita di essere sopraffatti da un bisogno di normalità. Che si traduce nell’avere la possibilità di tornare a fare ciò che eravamo abituati a fare.

Forse per questo la rilettura di un editoriale di qualche anno fa ha riequilibrato un po’ lo spaesamento e ha rimesso in circolo l’esigenza “semplice” di passeggiare, camminare.

Anche se non si può. Non con le gambe, non “come prima”, ma con il pensiero sì; con la mente nulla è vietato. [Continua »]