Liberazione

La parola liberazione di per sé non ha senso compiuto: non significa molto.

È una parola monca che deve confrontarsi, se vuole avere senso compiuto e forte, con il destino ultimo dell’uomo e il suo desiderio di felicità. Lo scrittore Vasilij Grossman nel suo Vita e destino osservava: «Il grande cambiamento avvenuto nella maggior parte delle persone consisteva nel fatto che perdevano a poco a poco il sentimento della loro individualità e avvertivano con sempre maggior forza il sentimento della fatalità. […] Il gusto della felicità se n’era andato, non c’era più, e al suo posto la tormentava una moltitudine di voglie e progetti».

Fatalità contro felicità: ecco il nodo che la libertà deve sciogliere.

La fatalità nega, avvilisce, riduce a puro istinto quel che è il desiderio profondo di felicità che è in ogni uomo. Se vince la fatalità, il desiderio del cuore umano rischia di sgretolarsi in un puro flatus vocis. Così anche viene eliminata sempre e comunque la responsabilità e dunque la libertà.

La figura etica dominante allora è quella di colui che “reagisce”, dell’antagonista, del ribelle, di colui che non è responsabile delle sue azioni perché la loro causa è esterna, e ad essa bisogna reagire. Egli gode dell’immunità del prefisso «re-/ri-»: reazione, resistenza, ribellione, rivolta. In questa condizione la libertà si risolve in una inutile volontà ribellistica di «liberazione».

L’artista allora diventa l’incarnazione dell’eroe-vittima, il Prometeo incatenato. Lo aveva già detto Musil nel suo L’uomo senza qualità: «E’ sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive, e si può immaginare che nel caso limite il peso amico della responsabilità personale finirà per dissolversi in un sistema di formule di possibili significati».

Il dramma tra bene e male in tal modo sarebbe sempre fuori di me, mai in me, ma così la libertà resta impossibile, atrofizzata; la libertà rimarrebe non una forza propulsiva, ma solo un vuoto immenso da riempire (Karol Wojtila, Eco del pianto primigenio). Ma così, come la libertà sarebbe un vuoto, così anche l’arte sarebbe muta, puro contenitore di macchie di colore o di parole. Schizzo ribelle e secco.

Come se ne esce? Nulla nella vita è stabilito in maniera automatica e anonima: i «giochi» non sono mai fatti e la storia (anche quella narrata) resta lo spazio della libertà, per quanto ferita. In questo spazio può maturare il desiderio aperto al gusto e alla responsabilità concreta, creativa e impegnativa di vivere su questa terra.


Affidarsi

Chiediamocelo con schiettezza e coraggio: di chi ci si può fidare?
O meglio: a chi ci si può affidare? Mi posso affidare? Possiamo provare un istante a fermarci per porre a noi stessi questa domanda. Che cosa ci viene in mente? Un oggetto? Un animale? Non credo. Credo invece che ci venga in mente una persona (o più d’una, magari).

Però un piccolo sospetto in fondo al cuore resta sempre.
Magari facendo il suo nome dentro di noi c’è una piccola voce che ci suggerisce: “ma ti potrai fidare fino in fondo di lui/lei? Mi sarà fedele radicalmente?”. Sentiamo anche che dare retta a questo domanda ci porterebbe a un dubbio svilente, inutile, capace di generare in noi solo un sospetto, una chiusura. E invece noi abbiamo un bisogno radicale di aprirci di fidarci, di affidarci.

Ma che tipo di esperienza facciamo quando ci affidiamo?
In realtà l’esperienza dell’affidamento per noi è originaria: nasciamo affidati alle cure di qualcuno che ci accoglie, normalmente nostra madre (per questo lo scrittore svedese Goran Tunstrom ha scritto giustamente che «quando le mamme muoiono, si perde uno dei punti cardinali. Si perde il ritmo del respiro, si perde una radura»). Poi ci si desta lentamente al mondo delle persone e degli oggetti, dei volti e degli ambienti.

Aprire gli occhi per vedere significa compiere un piccolo grande gesto di fiducia, di affidamento: è una apertura! Tutti i gesti di affidamento e di fiducia si radicano in questa apertura fondamentale e persino non chiaramente cosciente, che ciascuno di noi si porta dentro sin dal nostro inizio come iscritto nel nostro essere.

E’ insomma originario e originante: se io incontro una persona e sento di sorriderle, non è solamente perché è buona educazione farlo o perché mi sta simpatica, ma innanzitutto è perché io sono radicalmente un’apertura sulla realtà. Se così non fosse nessuno potrebbe starmi simpatico e la buona educazione non avrebbe senso. Ha la propria radice in questa apertura radicale originaria lo «sguardo poetico» e il desiderio di dire il reale in parole, immagini, suoni: Rimani tesa volontà di dire. / Tua resti sempre / e forte / la nominazione delle cose (Mario Luzi).

Ma attenzione!
Proprio perché l’affidarsi è originario, fa appello e riferimento a una pienezza ultima. L’affidarsi è un richiamo, la traccia di una indigenza radicale che è (e cerca) una pienezza altrettanto radicale, come ha scritto Luzi:

Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne sei pieno?
di che? Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…
Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo

Quando penso che mi posso affidare veramente, sento che questa fiducia non è a tempo, a scadenza limitata. Deve coinvolgere il mio essere tutto intero fino in fondo e fino alla fine. So che la mia capacità di fedeltà (come quella degli altri) è limitata, ma so che questa cosa in qualche modo, per essere vera, deve coinvolgere il mio destino ultimo, il senso della mia esistenza. Lo intuiamo, ad esempio, nella poesia che Bartolo Cattafi scrisse poco prima della sua morte dal titolo In te:

In te in te confido
tutto ho rubato al mondo
sei il Cubo la Sfera il Centro
me ne sto tranquillo
tutto t’è stato ammonticchiato dentro

Noi abbiamo bisogno di questo.

Un rischio, a questo punto, però, sarebbe quello di un possibile fraintendimento: scambiare l’affidarsi per un sentimento.
No: l’affidarsi è una esperienza, è un fatto, non uno mero «stato d’animo». Gli stati d’animo sono a rischio di fraintendimento. Spesso si confonde la fiducia come un fatto di “provare”, “sentire”. Tutto ciò è molto importante, ma non indispensabile. Quando, ad esempio, Blaise Pascal dice che la fede è una scommessa implicitamente sta dicendo che essa non ha niente a che fare con un cuore riscaldato dalla certezza di un abbraccio. Questo abbraccio è una esperienza possibile, ma non indispensabile. Ci si può fidare anche “ciecamente”, decidere di farlo, fare esperienza di una scelta. E’ esperienza di molti che lo stato d’animo di fiducia e consolazione non tarda poi a sopravvenire, ma lo stato d’animo non si identifica con l’affidarsi vero e proprio, che può essere ben più nudo ed essenziale.

Ma, detto tutto questo, ci si rende conto di un ulteriore necessario passaggio. Non ci si fida in astratto di una persona, in fin dei conti, ma di una storia. Solo alle storie e alle persone in esse inserite si può dar fiducia. Se ci fidiamo di qualcuno, persino se egli fosse Dio, allora significa che con lui abbiamo una storia in corso, lo sviluppo di una esperienza vitale. Affidarsi a una persona significa, in fin dei conti, affidarsi a una storia, che diventa la nostra. Fidarsi di una persona significa credere in una storia, buttarcisi dentro, riconoscerla come significativa, «affidabile», degna di fiducia. Non è facile discernere quelle che lo sono veramente e quelle che sono sono abbagli, infatuazioni.

Ma questo è anche il ruolo della critica letteraria. Davanti alle storie e alle esperienze che il genio dell’arte ci propone sono possibili due atteggiamenti: o ci si crede (e allora esse si dispiegano nella loro potenza rappresentativa ed evocativa) o non ci si crede (e allora la pagina e la vita restano mute e dure). La visione dell’artista, il mondo da lui ri-costruito in maniera più o meno verosimile (e ciò poco importa) richiede una fiducia di base. Si avvia così un gioco di interpretazioni e significati, ma anche di giudizi e scelte. La critica non è un puro discettare di qualità stilistiche o di generi, perchè ha il compito di scegliere quali storie siano «degne di fede», e quali siano gli effetti di questo affidamento.

Leggere (ma anche vedere un film) significa dunque entrare con «fede» in un mondo diverso rispetto al nostro per comprendere a fondo il senso proprio della nostra vita. Non avere «fede poetica» significherebbe, alla fine, narcotizzare il reale, spegnerlo, renderlo piatto, superficiale, scarno, secco.

Una vita senza storie e senza fede nelle storie sarebbe ben povera. Lo sappiamo bene: più una persona è ricca interiormente, più ha storie significative da raccontare e più è disponibile ad ascoltarne alla ricerca di «storie affidabili».


Alla ricerca dell’Atemkristall

Tra gli spazi bianchi della tesi – Quando scrivi capita che prima o poi becchi la bonaccia. All’inizio confuso e felice batti veloce sulla tastiera, vuoi riempire gli spazi bianchi. Sfuggire al silenzio della pagina vuota. Però poi devi affondare di più la lama, tentare di forzare la mano e guadagnare il tuo punto di vista.

Paul Celan e sua moglie GiseleProvi ad assorbire lo stile di “commentatori” famosi, capire dove loro hanno piazzato il cannocchiale per penetrare dentro la poesia di Celan. Ma a chi giova? La tesi, diciamolo, è la prima grande prova della vita. Almeno per chi crede che scrivere dia senso e spessore al pensiero. Che quest’atto tanto semplice è così potente da far impallidire stati e dittature. Che bastano sillabe storte e diritte intrecciate con passione per recuperare addirittura il senso di una vita. Recuperare perfino la dolce madre che i nazisti ti hanno strappato per poi spararle un colpo in testa perché inabile al lavoro. Lei, che insegnandoti a leggere, t’aveva aperto le porte del meraviglioso mondo della poesia.

La poesia di Celan l’ho trovata per caso. Dovevo fare una tesi sulle riflessioni “estetiche” di Heidegger. Ma il mio Relatore mi indirizza verso un parallelismo tra Bernhard e Celan. Assaggio Bernhard e lo rimando tra i libri da leggere in un prossimo futuro. Preferisco Celan, ci sono immagini che ti lasciano svacantato. E’ l’unica parola possibile. Spiazzano. Come la celeberrima Todesfuge che, a sentirla letta dalla voce dell’Autore, non può lasciarti intonso.
Ogni lettura di una poesia di Celan lascia mutati. Perché, se continui a leggere nell’unico modo possibile — pagina dopo pagina, poesia dopo poesia — sino a digerire tutte le 1300 e passa pagine del Meridiano (!) curato da Bevilacqua, alla fine come minimo sottoscrivi i giudizi entusiastici di George Steiner e di Paul Auster. Ti sembra di aver perso una vita a leggere SCUOLA DI POESIA sullo Specchio della Stampa. E’ una miniera di immagini, potresti perfino ricavarne almeno quattrocento meravigliosi sms d’amore e conquistare altrettante donne con le poesie di Papavero e Memoria. Continui a leggere e arrivato a Sprachgitter capisci che è vero che Celan non ha mai fatto letteratura. Quello che trovi sulla pagina è vita.
È impossibile separare le due componenti, ha scritto sino alla fine, sino alla scelta tragica del suicidio. Lo ha fatto per combattere contro quell’assordante silenzio delle sirene, per usare un’immagine di Kafka: Odisseo poteva resistere al canto, ma nessuno ha mai potuto schivare il silenzio delle sirene. Non ci sono rimedi o tappi di cera che tengano. Lo stesso silenzio che martoriava il Lenz di Büchner.
Contro il silenzio si può combattere, si può cantare, gridare. Si deve fare soprattutto contro chi vuole zittire la Storia.

Mi metto in gioco, lasciando da parte il plurale maiestatis e altri orpelli perché, se la lettura di Celan è un rischio, io voglio rischiare in prima linea. Devo farlo perché sono in una condizione favorevole: ho 22 anni, la stessa età che aveva Celan in quel tragico 1942 e perché m’immedesimo totalmente nel rapporto che un figlio costruisce con la madre.

La prima volta che ho letto ATEMKRISTALL, io la poesia l’ho vista.  Proprio davanti agli occhi mi si è presentata una scena completa e compiuta d’impareggiabile bellezza. L’ho ottenuta mischiando quello che mi porto dietro nella mia comprensione del mondo, la mia valigia di necessari pregiudizi, per dirla con Gadamer. C’era dentro Charlie Chaplin nella FEBBRE DELL’ORO che per rimediare una tazza di caffè simula un congelamento, ci ho messo pure qualche scena dalla COMPAGNIA DELL’ANELLO e ho chiuso il tutto dentro una di quelle bocce che vendono nei negozi di souvenir, quelle con la neve dentro che basta girare per veder nevicare sul Colosseo o sulla Torre Eiffel.
Ho visto L’io del ciclo – che nella mia visione aveva ovviamente la faccia di Celan – che camminava piegato in due da una tormenta di ghiaccio, lì in una terra desolata perso tra le nevi perenni. Camminava e i piedi affondavano sempre di più, arrancava esausto col peso di quella scelta-destino di scrivere in tedesco. Il vento gelido gli schiaffeggia la faccia, lui prova a restare in piedi ma cade a faccia in giù. Sta lì per un tempo che deve essergli sembrato quasi infinito. Lì, azzannato dal vento e dal nevischio. Lì, nell’apoteosi di tutti i deserti di ghiaccio e freddo.

Quando tutto sembra perduto, qualcuno si avvicina all’Io intorpidito, si china e gli offre un pò di neve, neve che prima ha riscaldato tra le mani per tirarne fuori qualche goccia d’acqua. E’ una figura indistinta, l’IO accecato dal riflesso del sole sulla neve non riesce a distinguerla, è una visione a contorni sfumati. Però il naso gelato sente comunque un odore che lo scaglia nella dimensione soffice dei ricordi. E in mezzo ai souvenir che ha accatastato lungo una vita, rivede la sua patria, rivede il gelso, sotto quello stesso gelso forse una ragazza bionda s’è presa la sua verginità.
Sta lì, si riprende lentamente e la misteriosa figura che l’ha salvato gli resta accanto. Come solo le mamme sanno fare. E qui dalla valigia delle mie visioni snocciola fuori un’indistinta figura di madre in cui s’addensano tutte le madri che ho incontrato: c’è un pizzico della madre santa di Aleksej Karamazov, il cappellino della madre di Forrest Gump e poi l’archetipo della madre-guida, Concezione Ferrauto, la mamma di Conversazione in Sicilia.
Perché l’IO del ciclo ATEMKRISTALL e l’IO di Conversazione in Sicilia hanno più di qualcosa in comune. Entrambi si trovano in uno stato terribile, la quiete della non speranza e ritornano all’origine. Una Sicilia che diventa terra del mito e la landa di ghiaccio. Ed entrambe le ricerche iniziano con qualcuno che offre cibo che attiva il recupero faticoso e incessante e inevitabile di un passato che si credeva sepolto. L’io del ciclo mastica quella neve e Silvestro l’aringa ma la sostanza non cambia, quel condividere cibo con le rispettive guide diventa la chiave per accedere a una dimensione nuova, altra. Lasciamo stare VIttorini e torniamo a Celan, l’io si scopre sempre più simile al poeta. Perché il poeta ha scritto l’ATEMKRISTALL nel 1962? Azzardiamo una risposta. Perché solo a 42 anni, dopo aver raddoppiato la sua età lontano dalla sua “patria” può tentare il recupero da una postazione ottimale. Non c’è più l’impellente bisogno di gridare al mondo “Sì, sono vivo! malgrado tutto sono vivo”. E poi in questi 20 anni Celan s’è sposato, è diventato due volte padre, ha provato il dolore di perdere il suo primogenito dopo solo 30 ore. Vedere una parte di se stesso così piccola spegnersi dopo neanche due giorni di vita. Ha trovato l’amore di Giselle e la Francia. E, fatto principale, sua madre aveva la stessa età quando gliela portarono via. E avere la stessa età illumina scie di senso che prima non si potevano neanche accarezzare. Forse da qui dipende pure la scelta di scivolare nella Senna prima di compiere 50 anni. Celan, forse, non voleva vivere una decina in più dell’amatissima madre – cancellata dalla vita a 47 anni.
Ma torniamo al ciclo. Inizia il fluire.

È uno scrosciare d’acqua: “fiumi verso nord” e “rapide di tristezza”. Acqua su cui naviga il relitto della memoria, qua m’immagino una galeone scheggiato come quello di “COME IN UNO SPECCHIO” di Bergman. Il poeta prosegue da lì il suo viaggio, schivando lastroni di ghiaccio e tronchi scheggiati. tronchi che sono 40 come le decine vissute dal poeta, e solo chi l’ha salvato dall’assideramento può accarezzare questi tronchi, lo fa navigando contro-corrente, come fanno i salmoni. In questo relitto il poeta è in preda a uno di quei mal di testa che manco una fornitura industriale di aulin potrebbe scacciare, è uno di quei mal di testa da pensieri fissi. E qui si capisce che il senso di colpa per la morte dei genitori accompagnerà l’io in questo viaggio. Ci sono altre navi, almeno una flotta di relitti che spiccano il volo. Come quei fantomatici galeoni fantasma che terrorizzavano i marinai. L’io poeta scorge l’equipaggio di quei relitti, è la ciurmaglia d’anticreature, il Mob, la feccia umana che nel 20 gennaio del tragico 1942 ha deciso di stilare il documento in cui si metteva nero su bianco la modalità d’esecuzione della soluzione finale. Ma l’io canta, può cantare insieme al Tu e questo canto va oltre gli uomini, oltre il Tempo. Scacciati i relitti del cielo, l’io assiste impotente allo sferragliare dei vagoni piombati che inghiottono i perseguitati e li conducono lontano, in una cava di pietra dove riceveranno un nuovo nome tatuato sulle braccia. Il tu è tra quelli ma si riesce a distinguere perché era già scritto che era destinata all’altra fonte, quella della memoria. E’ quella predestinazione che rende possibile il viaggio dell’IO.

Il pellegrinaggio nella dimensione della memoria continua, l’IO trova la forza di continuare la sua ricerca, affrancato da quel pasto di neve che gli ha ricordato l’estate della gioventù, si rimette sulla strada.
Marco Aurelio, l’imperatore-filosofo, scriveva che “ognuno vale quanto ciò che ricerca“, è l’unico parametro su cui è possibile valutare il senso di una vita. L’IO lo sa, capisce che da questo viaggio uscirà cambiato per sempre. In ogni caso, qualunque sia la conclusione.
I ricordi si addensano, martellano in testa, chiedono il loro tributo d’attenzione, riaffiorano come iceberg lucidi nella testa. Appaiono case smantellate tegole dopo tegole, arrabbiature contro un certo sistema di valori religiosi. L’io va avanti, non vuole fermarsi, pure che il dolore è lancinante. E scava, scava tra la neve che si è addensata tra i suoi versi, gli occhi accecati rimpiazzati dalle dita quasi gelate. Una candela in bocca per far un pò di luce in quel ripostiglio in cui si sono accumulate quelle notti che mutarono l’IO e il Tu.
Tutto avviene nella testa dell’io, è chiaro. Ci muoviamo nello spazio del suo cranio rovesciato dall’insonnia, dentro la voce del fiotto dei ricordi. L’io ha trasformato la sua memoria in un tempio di ghiaccio, un diario di cristallo dove ritrovare quello che è stato perduto per sempre.
Il viaggio diventa anche recupero del tempo perduto e l’io continua perché né il freddo, né i colpi del mal di testa possono arginare la sua volontà di ritrovarsi.

Cammina, tenta di valicare l’ombra della mano del tu, da lì estrae una benedizione pietrificata, la accoglie e continua col vento che gli schiaffeggia la faccia, senza cercare riparo.
L’erba sparto arriva portata dal vento e con lei la sabbia, scivolata da quelle urne in cui il poeta aveva sigillato il suo dolore prima di dedicarsi a notti d’amore. Il vento gl’impedisce di vedere oltre il suo naso, come se il suo occhio fosse stato affettato da quella tempesta di sabbia e neve.
I ricordi avanzano, riguadagnano terreno. Forse è questa la funzione principale della scrittura: filtrare i ricordi. Sì, l’IO ha scritto e ha usato le pagine come uno scolapasta per i pensieri. Ha filtrato decidendo cosa portare con sé nella nuova soglia e cosa lasciarsi alle spalle. Ma quei chicchi di passato ora riesplodono, gli scoppiano in testa come pop-corn conditi col carbonchio.
L’IO ha una visione, come Giuseppe il sognatore della Bibbia. Vede il luogo natio, nel mese del suo compleanno, novembre. Una terra che la rimozione del ricordo ha fatto ammalare. La pannocchia, l’oro giallo, se l’è portato via la pestilenza e i vermi s’ingrassano strisciando in quel pezzo di cuore che è la patria perduta.
Il tu prende il filo, riallaccia un legame. Diventa il capocordata di questa spedizione della memoria e lega la corda ad una freccia. Freccia che scaglia lontano. Forse verso l’aria, sì, in quel cimitero azzurro che è quel pezzo di cielo dove s’involarono i 6 milioni di perseguitati. C’è spazio per tutti e non c’è bisogno di parole lì, la grande cicatrice nell’aria non rimargina. Il Tu ora accompagna l’IO nella sua ricerca, suona un corno come a richiamare qualcosa e a quel suono risponde un traghetto che li raggiunge arrancando. Salgono l’IO e il TU, forse il Tu ha cercato nel suo palazzo della memoria, l’ha costruito con neve come i castelli che i bambini di sette anni fanno girando secchielli di sabbia.
In una stanza c’era quella lettera arrivata dal lager, l’io la rilegge, la rilegge sino a straziarsi. E’ il biglietto da pagare a Caronte. La traversata dura sino al mattino, nei sedili scheggiati ci sono altri perseguitati, altri nessuno che forse stanno facendo la stessa ricerca.
Il mattino li trova, scendono dal traghetto, di nuovo sulla neve, il calcagno a ogni paso affonda, “scrive e incide” la neve con le sue orme. Seguiamo queste tracce.

Il sole scivola su l’IO e sul TU, filo dopo filo la luce intreccia un nuovo giorno su quella neve che va sporcandosi ad ogni passo. Forse il TU è ancora bagnato dal fiotto nero della fonte della Memoria. il Tu ricorda, ricorda il treno che sferragliando l’ha strappata all’Io in quel giugno del ’42, ma il Tu non si è arreso, ha cavalcato l’onda, l’ha fatto sino a riuscire fuori per respirare di nuovo, fuori da quel budello d’odio razziale.
Esce e si ritrova all’aperto, lì dove fermò il suo treno, in una cava di pietra che pare l’ingresso dell’inferno. L’io assiste a questa risalita. impotente. Tutto avviene nella dimensione dove non è lecito toccare nulla. L’io guarda il quadrante del suo clinometro, l’ha puntato verso le parole del TU e la lancetta segna il Nord del vero e la Chiarezza del sud. Continuano a camminare, manco fossero Virgilio e Dante a zonzo tra i diavoli dell’inferno. Scivolano verso un cratere. Il viaggio diventa quasi una discesa al centro della terra. Ci si troverebbero bene i personaggi di Verne. ma avviene qualcosa: una parola erutta, schizza via verso la luna, diventa parola lunare, parola che muove le maree. Parola che forma un nuovo cratere, a forma di cuore. Abbracciato da quella nuova conformazione l’io trova la forza di parlare. Per ora ha solo ascoltato, si è fatto orecchio per cogliere quelle parole vive, vere e vitali. Il cratere diventa una parentesi sulla pagina. E l’io dice: “Ti conosco”. Dirlo lo spiazza, sta per svenire trafitto dall’avvenuto riconoscimento o da quella freccia che il Tu aveva scagliato verso il cielo, lo stesso cielo dove già un tempo era rifiorita la rosa di nessuno. Il tu lo sostiene, lo abbraccia, lo sostiene come la Madonna sostenne il Gesù morente.
L’io reagisce, chiede: “Dove divampa un verbo che sia d’entrambi testimonianza?” é la domanda che il TU aspettava.
Avviene qualcosa di meraviglioso, il TU riacquista densità, il suo parlare diventa vento che spazza via ogni remora dell’io-poeta, scaccia via la nullesia, la poesia che s’è baloccata dando una patina di colore ai fatti vissuti, ammorbandoli in vuote chiacchiere. La parola agisce come acquaragia per ogni reticenza passata e presente.
Il vento turbinando apre un varco, è l’accesso che l’io aveva cercato con tanto ardore. Lo attraversa. Da solo, il TU gli ha mostrato la strada, l’ha condotto sino a lì ma ora sta al poeta calarsi in fondo alla neve.
Lì, nel cuore dei ghiacciai perenni, lì dove il tempo perduto si è nascosto attende il cristallo. L’io l’ha finalmente trovato. Ecco la teca di ghiaccio, il respiro fattosi cristallo, cristallo luminosissimo, voce condensata, testimonianza incontestabile. Lì, inglobata in quella piccola bara di ghiaccio, lì dove il tempo l’ha risparmiata.
C’è solo una cosa da fare, l’IO lo sa: inspirare, riempirsi i polmoni con la forza di quella voce vera e viva. La poesia diventa ora respiro, l’atto creativo coinciderà con l’ATEMWENDE, la svolta del respiro, quell’istante in cui il fiato-testimonianza espirato dalla madre sta per essere inspirato dal poeta che lo espirerà  a sua volta sotto forma di Vera Poesia.


La fantasia come fede nella realtà

Quale rapporto esiste tra la realtà e la fantasia, soprattutto nel campo della creatività letteraria? Quando un artista compone un’opera, essa è frutto della sua libera fantasia o di uno sguardo attento su ciò che lo circonda? La realtà è semplicemente uno «spunto» per i suoi voli fantastici?

Se la fantasia fosse solamente «evasione» dalla realtà, si realizzerebbe ciò che E. L. Masters ha efficacemente descritto nella sua celebre poesia Dippold, l’ottico. La fantasia sarebbe una bella lente capace di trasformare continuamente la realtà: nel momento in cui un uomo la indossa per veder meglio il mondo, questo scompare a favore di ciò che egli desidera vedere. La frattura tra realtà e fantasia sarebbe così compiuta.

E invece la fantasia è un modo di porsi davanti alla realtà, un’esperienza conoscitiva ricca e complessa, che però segue una logica diversa da quella ordinaria. È come quando si dice di guardare qualcosa con «altri occhi»: cambiano gli occhi, non le cose. Che tipo di occhio è necessario? Leggiamo Fiori e chiaro di luna sul fiume a primavera, un’antica poesia cinese dell’imperatore Yang-Ti (VII sec. d.C.):

Il fiume di sera
è immobile e liscio;
i colori del maggio
si aprono tutti.
Un’onda improvvisa
si porta via la luna;
e l’acqua di marea
arriva col suo carico di stelle.

La realtà di un’onda che confonde l’immagine della luna specchiata sul fiume nei riflessi increspati delle onde leggere, grazie allo sguardo poetico, viene trasfigurata in una visione a cui il lettore «crede» per la sua straordinaria efficacia rappresentativa. E il fiume diventa cielo, pur rimanendo quel che è. L’esperienza poetica qui non è affatto mera evasione: è invece una vera e propria «visione» della realtà.

Senza il reale non esisterebbero neanche la fantasia e l’immaginazione. La realtà è più ricca della fantasia perché è il seme che, in potenza, contiene tutto il suo sviluppo fantastico. Possiamo dunque dire che la fantasia è un modo specifico e pertinente di fare esperienza della realtà. Opporre realtà e fantasia significa dunque spaccare in due l’esperienza che l’uomo fa del mondo. La fantasia è un esercizio dello spirito, un modo per intuire, come ha fatto G. M. Hopkins nella poesia God’s Grandeur, che la realtà non è mai esausta (is never spent).


La lotta necessaria

Molte volte accade di sentire che vivere è lottare.
Poche volte si sente dire che l’arte è una lotta.

La lotta diventa di frequente una metafora dell’esistenza umana. E, in effetti, la vita è una lotta sin dalla sua origine e fino alla sua fine. Comincia con un rapporto d’amore, che esso stesso è una forma (anche rituale, ludica e stilizzata) di lotta. È frutto di un parto, che – sebbene oggi giustamente si tende a vivere in maniera rilassata e fiduciosa – rimane pur sempre una lotta fisica. La morte stessa è una lotta, nominata col termine, ancor più doloroso da evocare, di “agonia”, che significa appunto “lotta”. La riflessione sul mistero cristiano della Pasqua (morte e resurrezione) ha espresso un verso latino di straordinaria potenza: Mors et vita duello conflixere mirando (tradotto perde il suo ritmo e la sua intensità: “morte e vita si sono affrontate in un proigioso duello”). L’arco intero della vita, a sua volta, è denso di lotte, conflitti, litigi, dialettiche, confronti, scontri,…

Sembra che le immagini di lotta appena citate rivelino solamente il negativo della vita. Falso. Forse un troppo facile irenismo ha fatto credere che tutto ciò che è lotta sia male, mentre tutto ciò che è armonia di benessere sia, appunto, bene. Falso. Abbiamo fatto scomparire il senso della lotta dalle nostre vite, narcotizzandole, svilendole, ammorbidendole.

Tutti i passaggi fondamentali di una vita, in realtà, implicano un confronto o con se stessi o con la realtà o con gli altri. Confronto significa anche radicalmente incontro. Si può forse dire, radicalizzando il discorso, che, senza scontro, non c’è incontro vero, profondo, coinvolgente.

La carezza è segno di un incontro solo se è profonda: altrimenti è passaggio di superficie, cioè, appunto incontro superficiale. Servirebbe solo a togliere la polvere.

La lotta di Giacobbe con l'angelo di Genesi 32, 23-33

La lotta di Giacobbe con l'angelo (Genesi 32, 23-33)

E invece ogni incontro (con la realtà, gli altri, persino Dio – almeno nella rivelazione ebraico-cristiana (cfr. la lotta di Giacobbe con l’angelo di Genesi 32, 23-33), vive di un inevitabile “corpo a corpo”. Esso, come avviene nel pugilato, implica sempre una forma di danza leggera, oltre che una disposizione alla fatica e alla resistenza. La danza è essa stessa una lotta, a sua volta. La vicenda di Billy Eliott ne è un esempio di grande efficacia. Il pugile è un orso ballerino, come dovrebbe essere ogni essere umano, in qualche modo.

La pace non nasce dal puro e asettico rispetto (respicere = guardare [senza toccare]): nasce invece da mani che, incontrandosi, si stringono con intensità; mani che sanno avvertire il peso e la consistenza di una stretta.

Ciò vale anche per l’opera d’arte. L’ispirazione migliore non nasce come un fluido mellifluo che scorre quieto dal cervello alla carta (o alla tela,…) tramite le mani. Nasce invece da un corpo a corpo con se stessi, la parole (i colori, i suoni, i materiali,…), i personaggi, le storie,…

Valgono per l’ispirazione artistica le parole bibliche di Geremia che descrivono quella profetica:

“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. […]. Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!’. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.


Desiderio contro utopia

Un nodo della vita è certamente il desiderio, la capacità che ciascuno di noi ha di desiderare qualcosa. La letteratura e l’arte, in generale, costituiscono una ermeneutica del desiderio, un modo per interpretare il desiderio dell’uomo.
Desiderio (dal lat. desiderare; rad. de-sider- = dalle stelle) significa anelare alle stelle, sentirne la mancanza, avere una nostalgia interiore profonda. Non è proprio la poesia, ad esempio, a essere uno dei luoghi privilegiati di espressione del desiderio?
La questione però è che il desiderio vero, quello veramente umano, è sempre legato a due realtà:

– la capacità che ha un cuore di provarlo (un cuore angusto, che vive solo per se stesso, non è aperto al desiderio) e
– la capacità che ha la nostra ragione di dare un volto a quel punto di fuga che avvertiamo essere innestato profondamente in noi.

La letteratura è il territorio dell’esperienza. Il desiderio in letteratura assume sempre un volto concreto e, a partire da quella concretezza, può dire: “più in là” davanti a ogni sua concreta realizzazione. Come scrive Montale: Sotto l’azzurro fitto/ del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:/ più in là. Ma solo a partire da una realtà concreta, pur vista nella sua precarietà.
Se questo cuore desiderante però esplode in se stesso (cioè “implode”), se si limita a desiderare il medesimo desiderio, si compiace del cercare senza mai trovare; se il desiderio assume il tono di una irragiungibilità che fa sì che l’esperienza umana perda di significato e di valore, tutta bruciata da un ideale irrealizzabile, allora il desiderio si tramuta in utopia.
L’utopia, per definizione, non ha luogo di realizzazione: è destinata a non realizzarsi e a non realizzare nulla, se non una vaga e continua frustrazione. Allora, sì, la vita diventa l’ombra di un sogno fuggente e non resta che l’alternativa tra il sogno e lo spreco.
Cosa può fare invece la poesia e l’arte? Descrivere il desiderio non bruciato dall’utopia; descriverne le ustioni e dunque osservare le sue vie di realizzazione, cercare di intuire quali siano le esigenze più profonde di una vita umana.
Come quando Testori, in Volpe d’amore, al mattino con il viso dell’amante tra le mani, scrive:
Quando la notte in alba finiva/ tu mi piangevi dentro le mani/e mi chiedevi/ perché se m’ami/ tutto finisce,/ tutto svanisce. L’ustione della domanda metafisica non sfocia nel rogo dell’utopia d’amore: resta ancorata al concreto dell’esperienza e diventa, come Testori scrive, segno dell’aldilà dopo la fine.


Il principio del dolore

La qualità di un racconto si misura dalla sua capacità di entrare nelle vene della vita e di toccarne i nervi scoperti della “condizione umana”.

I personaggi, diceva Cechov, sono “creature di caldo sangue e nervi”. Se non lo fossero, essi rischierebbero di rimanere pupi, marionette, controfigure, esseri lontani dalla vita e dai suoi significati. Ma se una narrazione o una poesia tocca i nervi scoperti, allora ha necessariamente a che fare col dolore.

Se un essere è “umano”, allora ha sperimentato il dolore. Al di là di ogni approfondimento di carattere psicologico o filosofico, questo è un dato di esperienza, un fatto. Ciò che è tenero e debole, come è l’uomo quando nasce (e ancor prima), non può che essere aperto all’esperienza del dolore e dunque anche dell’amore, del desiderio, della felicità… Ciò che è duro e freddo non può sperimentare nulla del genere.

Se il dolore è esperienza radicalmente umana, e se la letteratura, l’arte, la poesia lo sono anch’esse, allora non può che esserci qualche legame più o meno oscuro tra queste esperienze.

Non bisogna però confondere il dolore con il dolorismo (quante “poesie” nascono dal dolorismo!). Il dolore è un’esperienza, è un fatto. Il dolorismo è un vago sentire compiaciuto. Il dolore è una ferita che ci fa sentire colpiti, feriti, raggiunti da qualcosa che sentiamo provenire dall’esterno (fosse anche una malattia del nostro corpo). Il dolore ci fa capire che siamo vulnerabili e dunque aperti. Il dolorismo chiude chi lo prova dentro se stesso, dentro i propri meandri angusti. Dunque, in fondo, il dolore vero è una vera esperienza di conoscenza della realtà. In letteratura è così, è proprio questo. Il dolore è una forma di conoscenza del reale.

Questa conoscenza può evolversi in una forma di comunicazione. Il dolore, ad esempio, è capace di richiamare una solidarietà che unisce i personaggi e li fa sentire «a casa», come scrive Adam Haslett in un racconto della sua raccolta You are not a stranger here: «Gli dava un conforto familiare trovarsi in presenza del dolore inconoscibile di un’altra persona. Quel posto, più di qualsiasi paesaggio, lo faceva sentire a casa». Nel dolore nessuno e niente può essere conosciuto come estraneo.