Ho visto cose (che voi umani…)

Il primo giorno del nuovo lavoro, ancora frastornato dai cambiamenti e dagli obblighi burocratici, la responsabile mi ha condotto nella stanza di A., la collega con più anzianità di servizio, dove – nel giro di circa un’ora – ho ricevuto un estremo sunto degli ultimi venti anni di storia dell’ufficio. A., prossima alla pensione, rappresenta la nostra memoria storica e, di conseguenza, si è rivelata come un’autentica miniera di aneddoti e ricordi, inesauribili nel numero e inestimabili nel valore, oltre che nella passione con cui sono stati riferiti.

Mi piace iniziare con un esempio tratto dal quotidiano – simile a tanti di cui tutti abbiamo avuto esperienza – che ci consenta di cogliere un primo e inequivocabile dato sul tema scelto per questo mese: non è necessario aver osservato i “raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser” per poter affermare che “ho visto cose”. La citazione scelta questo mese riprende, ancora una volta, un grande classico della cinematografia, ossia Blade Runner, che nelle scene conclusive raggiunge il proprio climax nel dialogo/monologo, rivolto dal replicante Roy Batty al cacciatore di automi Deckard:

“I’ve seen things you people wouldn’t believe, attack ships on fire off the shoulder of Orion, I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhäuser Gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die.”

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[Report] Officina di novembre 2019

Valerio

Nella celebre scena tratta dal film Fracchia, la belva umana (vedetela tutta e scoprirete un’altra citazione sbagliata) si fronteggiano il MegaDirettoreGalattico e il malcapitato dipendente, ovvero un sistema di potere (disumano) espresso nelle forme di un individuo (umano) che viene esercitato contro un soggetto (umano) asservendolo alla stregua di un animale (inumano).

Ma cos’è il potere? La facoltà di poter determinare da sé le proprie possibilità. Come afferma, tautologicamente, Cersei Lannister nella serie Game of Thrones “power is power”. [Continua »]


Homo sum

Essere umani? Fra le infinite sfumature c’è anche quella dell’impossibilità per l’uomo di evitare errori o colpe.

Lo ha scritto meravigliosamente Terenzio nell’Heautontimorumenos (I, 1, 25), dove l’anziano Cremete afferma: “homo sum, humani nihil a me alienum puto”.

Ovvero: sono uomo, non ritengo estraneo a me niente di ciò ch’è umano. Come a dire: se sei uomo, sei uomo fino in fondo. Sbagli, cadi e ti rialzi. E rimani uomo. Con tutti i tuoi errori. E le tue bellezze.

E non è solo una questione tautologica. [Continua »]


“Com’è umano Lei!”

“Com’è umano Lei!”, commenta l’impotente travet in risposta alle affermazioni – che tutto sembrano fuorché umane – provenienti dal proprio datore di lavoro. Il celebre tormentone di Paolo Villaggio, nella doppia veste di Fracchia/Fantozzi, risuona come l’arresa definitiva del povero impiegato di fronte allo strapotere finanziario e burocratico dei padroni. Svuotato di una propria volontà, bastonato dalla vita (non solo) lavorativa, fallito nei rari lampi di orgoglioso riscatto, a Fracchia/Fantozzi rimane soltanto l’ammissione della propria sconfitta, riconoscendo al nemico la qualità che, più di tutte, gli difetta: l’umanità.

Perché l’avversario di Fracchia/Fantozzi di umano ha ben poco. Che assuma le fattezze del MegaDirettoreGalattico o di un centurione romano, egli è comunque il simbolo e il tramite di un potere macchinico, che si impone sull’uomo, riducendolo a un insicuro e patetico omino. Da un lato, dunque, riecheggia la summa divisio di Totò tra uomini e caporali, dall’altro rinvia alla più articolata elencazione svolta dal mafioso Don Mariano, nel romanzo di Sciascia Il giorno della civetta: [Continua »]


[Report] Officina di ottobre 2019

Cristiano

Cristiano ha ripercorso gli elementi già presentati nell’editoriale, in paricolare soffermandosi sulla differenza tra una comunicazione tecnica (in cui al linguaggio deve corrispondere il più possibile una “realtà oggettuale”) e una comunicazione letteraria in cui è invece centrale uno “scarto” tra ciò che il linguaggio descrive oggettualmente e ciò che invece intende rappresentare. Ha aggiunto che ciò è altrettanto vero nelle arti visive, facendo l’esempio della differenza tra una fotografia e una fototessera.

Ha voluto però anche ricordare che l’arte sposta di continuo i limiti netti che intendiamo a volte tracciare, proiettando alcune immagini dalla serie Portraits di Thomas Ruff: ritratti eseguiti come fototessere, stampati però in grande o grandissimo formato, attraverso i quali l’oggetto “triviale”, mutato di dimensione e di contesto, acquisisce un senso ulteriore.

Margherita

Margherita ha fatto riferimento ai temi della citazione sbagliata e del colpo di scena che ci spinge a reinterpretare un’intera storia. In particolare, ha mostrato un quadro attribuito a Botticelli e conosciuto come “La derelitta”. Quest’opera ha una storia molto particolare, dato che, quando inizialmente fu riscoperta nel 1800, fu interpretata in modo completamente errato. Il quadro, infatti, non rappresenta una donna, ma un uomo. L’errore fu dovuto alla mancata considerazione del contesto in cui l’opera fu realizzata, ma anche all’ eccessiva attenzione al momento culturale in cui è stata riscoperta, dato che i critici d’arte l’avevano idealmente accomunata alle figure di donne della letteratura di quel periodo come Madame Bovary o Anna Karenina. Attualmente si conosce la vera origine e il significato di quest’opera, ma essa è ancora titolata “La derelitta”, che, proprio come “Luke, io sono tuo padre!”, è una “citazione sbagliata” rimasta celebre. Allo stesso modo, come per Luke la rivelazione paterna comporta un cambio di prospettiva, anche nel caso dell’opera attribuita a Botticelli (ma, in realtà, l’autore effettivo sembra essere Lippi) si è stati costretti a tornare mutare le proprie convinzioni.

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“Luke, sono tuo padre!”

Nel 1994 Einaudi pubblicava in un sottile volumetto i risultati di un concorso intitolato Una frase, un rigo appena. Scopo del concorso era scrivere in poche righe un racconto che avesse una storia e un senso compiuto. La raccolta veniva completata da una seconda parte in cui autori affermati selezionavano frammenti propri o di opere celebri che avessero la stessa caratteristica: contenere in poche frasi un’intera vicenda. Il libro è decisamente godibile, ma per stessa ammissione dell’editore non va oltre il divertissement: più si accorciano le storie, più si corre il rischio di scivolare verso l’aforisma, il motto di spirito o la ricerca dell’espediente.

Di lì a poco, l’emergenza del Web avrebbe regalato alla parola scritta una rinnovata giovinezza: chiunque poteva scrivere qualunque cosa ed essere letto da chiunque, ovunque, in qualunque momento. Il primo effetto di questa improvvisa emancipazione del testo scritto fu la grande abbuffata dei blog, i quali sarebbero però stati velocemente oscurati da modalità di comunicazione più sintetiche e più compatibili con una massa di informazioni esponenzialmente crescente ma accompagnata altresì da una soglia di attenzione sempre più bassa: quelle dei social.

Quando nel 2017 Twitter annunciò il raddoppio dei caratteri disponibili per un Tweet (da 120 a 240), avvenne un fatto singolare: gli utenti si sollevarono. La forza comunicativa di un tweet, si sosteneva, è proprio nella sua sintesi (figlia, per dirla tutta, dell’epoca dei costosissimi SMS degli anni Novanta). Può sorprendere che un gruppo di utenti si lamenti di avere maggiori possibilità: eppure, lo stile comunicativo online è diventato sempre più condensato, veloce, essenziale. Ha le caratteristiche più del “graffio” che del trattato; accenna, allude, si appoggia a un serbatoio comune di informazioni che viene dato per scontato e colpisce secco, fino a non prevedere neanche risposta, come nel caso di quella forma espressiva sostanzialmente nuova che è il meme. [Continua »]


Settembre, è tempo di rialzarsi e ripartire

L’editoriale di questo settembre è quello che in gergo si potrebbe chiamare un “copia e incolla”. O anche un piccolo scippo, ma concordato.

Abbiamo infatti chiesto ad Andrea Monda, presidente di BombaCarta e direttore dell’Osservatore Romano di farci un prestito: lasciarci “usare” l’editoriale che lui stesso ha firmato e che è apparso sul suo quotidiano lo scorso 2 settembre con l’esatto titolo “Settembre, è tempo di rialzarsi e ripartire”.

Il perché è presto detto: lo stile è molto BC e ci immerge completamente nell’atmosfera amata e un po’ odiata del ritorno dalle vacanze e della ripresa delle nostre attività, con uno sguardo ammiccante ma non troppo ai buoni propositi che il riposo ci ha aiutato ad elaborare. Ci spinge a osservare, guardare, a non fermarci. A proseguire i nostri viaggi estivi, a traghettarci verso altre e nuove mete. Buona lettura! [Continua »]